Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

domenica 3 luglio 2016

UNO STUDIO. L'incontro, la distanza, la speranza

L’ESPERIENZA DELL’INCONTRO NELLA NARRATIVA CONTEMPORANEA.

L’incontro, la distanza, la speranza.
FRED UHLMAN, L’amico ritrovato, 1971
E’ la storia dell’amicizia tra l’ebreo Hans e il tedesco Konradin. I genitori di Hans mandano il figlio a studiare in America, Konradin resta in Germania, in un’Europa costretta a scegliere tra Stalin e Hitler. Konradin sceglie Hitler. La vicenda è ambientata nella Germania nazista del 1933, a ridosso dell’emanazione delle leggi razziali. Paradossalmente, nonostante l’antisemitismo culminato nell’Olocausto, Hans, l’ebreo, sopravvive; l’America, terra della libertà lo salva. Alla fine della guerra Hans riceve dalla Germania una richiesta di fondi per la costruzione di un monumento funebre alla memoria dei giovani caduti in guerra. Tra i nomi legge quello di Konradin, giustiziato perché implicato nel complotto per uccidere Hitler.
L’amico ritrovato è il racconto di un incontro possibile al di là delle divergenze ideologiche e razziali. Konradin pur morto è da Hans ritrovato nella sua conversione antinazista: il ritrovamento è il recupero di un’affinità che sfida le barriere del tempo mortale. Anche se la vicenda si conclude con la scoperta della morte Konradin, ciò che interessa è la sopravvivenza di un legame di amicizia corroborato dalla conversione politica di Konradin in senso antihitleriano. L’amicizia resta nonostante la morte, anzi, la morte rivela l’annullamento delle distanze politico-ideologiche tra Konradin e Hans.

PAOLO GIORDANO, La solitudine dei numeri primi, 2008
   
Al centro del romanzo campeggia la vicenda di Alice e Mattia, soli e perduti, vicini, ma non abbastanza per sfiorarsi davvero. Alice, anoressica, legata ad un uomo, Fabio, che non ama; Mattia schiacciato da un rimorso insanabile, quello di aver lasciato sola in un parco la sorellina Michela, mai più ritrovata.
Ragazzi di buona famiglia, hanno tutto, tranne la felicità, non comunicano e non traducono in atto il loro inconfessato amore. Il loro incontro è impossibile, evanescente. Il romanzo si chiude all’insegna della solitudine e dell’incomunicabilità nell’era del sommo benessere, sotto un cielo azzurro monotono e sullo sfondo di un fruscio debole e sonnolento.
Monotonia, debolezza, sonnolenza traducono la gravità di una solitudine che è vuoto, mancanza di certezze, di mete, di tensioni ideali, frutto del nichilismo postmodernista: la libertà dai valori ingabbianti della tradizione e dalle ideologie forti si è tradotta in spaesamento, vertigine, solitudine.
Insomma, diceva Milan Kundera, è l’insostenibile leggerezza dell’essere a schiacciare il singolo e a diluirlo nel non senso di un’esistenza svuotata.
Sembra di rileggere Montale, quando in Forse un mattino andando in un’aria di vetro, inverosimilmente tersa, percepisce il nulla alle sue spalle e il vuoto dietro di sé: barcollando con un terrore da ubriaco, consapevole di non avere più rassicuranti puntelli, il poeta prosegue con il suo amaro segreto, la sofferente solitudine di uno spirito eletto, di un numero primo, una sofferenza indicibile e incomprensibile ai più, immersi, invece, in una indifferente normalità.

IVAN COTRONEO, Un bacio, 2010 
E’ un romanzo veloce come uno sparo, un racconto intenso come un sogno d’impossibile felicità.
E’ la storia del controverso amore di Lorenzo per Antonio, due adolescenti.
E’ un amore omosessuale e unilaterale, quello di Lorenzo, schiacciato dall’omofobia, accarezzato da un solo bacio, ucciso dal fulmineo sparo esploso in classe da Antonio. Ammazzare Lorenzo significa per Antonio mettere a tacere i pregiudizi sociali, annientare le paventate latenze omoerotiche che non gli hanno fatto rifiutare il bacio di Lorenzo, significa annullare in sé ogni sospetto di diversità, in una società che ci vuole tutti uguali.
Il primo capitolo ha la focalizzazione fissa su Lorenzo, sulla sua storia di figlio adottivo, sul graduale crescendo del suo innamoramento. Il terzo capitolo esprime il punto di vista di Antonio e descrive la sua paura di un amore omosessuale.
Al centro si situa la storia dell’amore inconfessato di Elena Valente, la professoressa di Lorenzo e Antonio, per Valeria, sua ex alunna. Elena è la sola ad avere un occhio di riguardo per Lorenzo, lo consola, lo comprende, lo protegge dagli scherzi volgari dei suoi coetanei. Si immedesima in lui, sa cosa significa non poter amare chi si ama a causa dei pregiudizi.
All’improvviso Elena parte per Milano, decisa a restituire un po’ di felicità a Valeria, in piena crisi coniugale con Pietro, e a confessarle il suo amore. Ma, giunta a Milano, la prima cosa che avverte è l’indifferenza della gente: nessuno sembrò accorgersi di lei quando scese dal treno.
L’indifferenza e l’incomunicabilità trasformano l’incontro tra Elena e Valeria in una visita convenzionale: Elena mentre era di nuovo in treno pensò alle parole che non le aveva detto, e che era certa che non si sarebbero dette più.
L’incontro, la visita, l’attesa del caffè, il saluto: queste tappe convenzionali hanno trasformato l’occasione attesa da una vita, in silenzio, in domande sospese nell’aria, in sogni e desideri delusi, frustrati per sempre.
L’autore paragona Elena alla Eveline di Joyce: l’impotenza ad agire, la debolezza della volontà, la mancata corrispondenza tra attesa e realtà, l’inettitudine, l’azione mai agita, il desiderio mai tradotto in atto sono le cifre dell’uomo contemporaneo.
Nella professoressa Valente non c’è nulla della prorompenza epica della più nota Elena mitologica, né alcun vigore nell’azione nonostante l’energia che il suo cognome evoca.
L’incontro interumano è impossibile: una di fronte all’altra Elena e Valeria rimasero in silenzio, e c’era quella domanda, sospesa nell’aria. Elena torna a casa e - scrive l’autore - non aveva voglia di vedere nessuno.
E’ il trionfo del solipsismo. Un bacio è il racconto degli incontri impossibili, tragici e fulminei come uno sparo, incompiuti, sospesi, temuti (nel caso di Antonio) o auspicati (da Lorenzo e da Elena), ma mai realizzati nella loro efficacia.

NICCOLO’ AMMANITI, Io e te, 2010 
E’ la storia di Lorenzo, un percorso di formazione, di costruzione dell’identità di un adolescente problematico. Al centro del racconto si staglia la vicenda di un disadattamento al mondo che Lorenzo, il protagonista, descrive con disgusto: è solo competizione, sopraffazione e violenza. Meglio la solitudine. Lorenzo inventa una bugia, dice alla madre di voler partire per la settimana bianca con la famiglia di un’amica. Invece si nasconde in cantina per stare solo con se stesso. Inaspettatamente lo raggiunge la sorellastra semisconosciuta, Olivia, drogata e bisognosa di affetto. Inizialmente infastidito dalla presenza di Olivia, Lorenzo matura, le si affeziona, la aiuta a superare i dolori delle crisi di astinenza, capisce che in un mondo violento e senza senso, ciò che conta è il viaggio, non la meta, come già Kavafis scriveva in Itaca. E nel viaggio di Lorenzo l’esperienza più forte è quella dell’incontro con Olivia, grazie alla quale il ragazzo scopre la ricchezza dell’affetto, lo spessore delle relazioni umane, e diventa uomo.
Tuttavia dopo l’incontro e la promessa di rinnovarlo, per i due fratelli non c’è la speranza di un futuro insieme. Ancora una volta l’incontro è fugace, impalpabile, evanescente, non duraturo. L’unico altro incontro di cui l’autore dà notizia è quello all’obitorio, dove Lorenzo riconosce, su un freddo tavolo, Olivia, coperta da un lenzuolo. L’incontro si è risolto in perdita, mancanza, morte, proprio come nel caso dei protagonisti del racconto di Cotroneo.

Con costruzione circolare si ritorna al punto di partenza. La morte chiudeva, infatti, anche l’incontro tra Hans e Konradin. Tuttavia si trattava di una morte – quella del tedesco Konradin – aperta all’esperienza di un’amicizia ritrovata. Con Uhlman la morte non nega la possibilità dell’incontro, ma segna l’inizio di una riscoperta amicizia che sfida le barriere della vita umana. Un’idea, la conversione di Konradin all’antinazismo, la lotta per la libertà hanno annullato la distanza tra il mondo del tedesco Konradin e quello dell’ebreo Hans. In un’Europa soffocata dalla guerra, annichilita dall’orrore, sopravvive, tuttavia un barlume di speranza, che consentirà la costruzione del futuro.
L’esperienza dell’incontro è il motore della trama, dà senso alla vita di Hans e Konradin, sfida i limiti del tempo, resta possibile anche dopo la morte.
Quando Uhlman scrive, negli anni ’70 del Novecento, fatti di contestazioni, rivoluzioni, lotte e rivendicazioni, il mondo è ancora orientato alla realizzazione di principi costruttivi, è alimentato da una tensione ideale rispetto a cui conformare comportamenti e aspettative e che dà sostanza alle relazioni interumane: la comunicazione di messaggi dà corpo agli incontri che animano una società in cui l’aggregazione è la forza da cui parte la possibilità del cambiamento.
Lo spessore profondo e l’intensità dell’incontro tra due mondi antitetici nella Germania nazista – quello tedesco di Konradin e quello ebreo di Hans – significano che il cambiamento è possibile, che non si è giunti ancora alla fine della storia e che sperare in un’alternativa all’orrore è possibile, nonostante tutto.
La forza dell’incontro tra Konradin e Hans è una risposta costruttiva, contestuale ad un momento storico – quello nato dal ’68 - che chiede e cerca un società migliore.

Man mano che ci si inoltra nel Novecento e ci si spinge nel primo decennio del XXI secolo, si assiste al passaggio dall’esperienza dell’incontro all’incontro come esperienza della fine.
Nota Luperini nel saggio L’incontro e il caso, che l’incontro si smaterializza, diventa impossibile, evanescente, rinviato, procrastinato e mai realizzato: è il caso di Alice e Mattia, che, nel romanzo di P. Giordano, si cercano sin dall’adolescenza, si desiderano, ma le loro vite non riescono a intrecciarsi. C’è una dicotomia evidente: da un lato l’incontro è sentito, desiderato, dall’altro non si concretizza in nessun modo.
Alice e Mattia naufragano nel vuoto terrificante di un mondo frantumato, privo di un quadro di riferimento condiviso e nel quale le cifre esistenziali sono solo mancanze: assenza della famiglia, traumi infantili e esperienze di abbandono, benessere materiale che non compensa il vuoto interiore, l’anoressia di Alice, l’incapacità di costruire un rapporto e di comunicare sentimenti.
Alice e Mattia sono privi di spinte propulsive, epigoni degli inetti del Novecento, si caratterizzano per un’aspirazione all’amore perennemente indefinita, inconcludenti e depotenziati, disorientati e incapaci di conformare la propria vita a un progetto, a un disegno: l’altro non è polo di un dialogo, ma solo segno indecifrabile di un’alterità e le distanze sono irriducibili. Ciò che resta è l’ipertrofia di un’interiorità solitaria che ingabbia parole e sentimenti.
E la stessa impotenza ad agire, nel racconto di Cotroneo, caratterizza Elena Valente, paralizzata nelle sue emozioni e incapace di aprirsi a Valeria.
L’era postmoderna, con la fine delle grandi narrazioni, con il crollo definitivo di tutti i parametri di riferimento, con l’abbandono di ogni rassicurante “Itaca”, ha trasformato gli incontri in “appuntamenti al buio”, vaghe fluttuazioni di ombre che non si decifrano né hanno le chiavi di decodificazione della realtà, che è il regno del caos, dell’assenza, della mancanza.
E l’incomunicabilità, l’evanescenza degli incontri ne sono l’immediata registrazione.
Gli inetti del Novecento avevano come estremo baluardo la Letteratura, ridotta, certo, a mero osservatorio, incapace di comunicare messaggi e ridimensionata a mera funzione diagnostica; ora i protagonisti della narrativa contemporanea non hanno niente: figli di buona famiglia, possiedono tutto, forse sono stati privati dei desideri; l’ipercapitalismo ha azzerato ogni tensione, ha gettato nel silenzio ogni emozione, ha reificato le relazioni, ha mercificato i rapporti umani, ha ridotto il potere delle parole, ha impedito ogni comunicazione.
All’impalpabilità degli incontri si affianca pure una loro inquietante tragicità.
La morte di Olivia in Ammaniti annulla ogni conquista, segna l’impossibilità di costruire una relazione affettiva in un mondo in cui l’infelicità è indicibile - bellezza e efficienza sono gli standard vincenti - e si può solo annegarla nella droga, vestibolo della morte.
Lo sparo che uccide Lorenzo in Un bacio annienta ogni possibilità di chiarimento, comunicazione, spiegazione.
La storia sembra dirigersi inevitabilmente verso la negazione dell’altro, verso l’annullamento di possibilità e occasioni di costruire l’esistenza in relazione all’altro.
La categoria esistenziale è senza dubbio la solitudine, quella solitudine che germoglia disastri, scrive Baricco in Emmaus, romanzo in cui descrive la gioventù bruciata del XXI secolo, fatta di gesti vuoti, illusorie vicinanze e immensi deserti relazionali, suicidi, droga, omicidi, sesso slegato dai sentimenti, vite perse in ragnatele di sentieri. Quelli tratteggiati da Baricco sono giovani che come rettili di palude ristagnano e scambiano l’orrore e l’infelicità per il doveroso corso delle cose, eredi per tradizione di una totale incapacità verso la tragedia, al punto da sparare – come fa Antonio verso Lorenzo in Un bacio – senza pensare. Antonio non pensa che quella che sta sopprimendo è una vita umana e non solo la causa del suo disagio sociale, in una società omofoba e terrorizzata dal diverso come sintesi di ogni alterità che sfugge al controllo di un ordine precostituito.
La vera dimensione tragica dell’oggi sta proprio nell’incapacità verso la tragedia: l’uomo non ha più la statura dell’eroe, non reagisce al dolore, non ne fa la tappa di un percorso di crescita, dimentico dei manzoniani moniti relativi alla provida sventura. L’uomo contemporaneo, assuefatto ad ogni orrore, lontano da ogni immagine di felicità possibile, se non quella di istantanee emozioni, ristagna in una realtà senza prospettive, non è più forte come Ulisse, vittorioso e forte dopo ogni incontro, con le Sirene, con Polifemo, con Circe. All’uomo contemporaneo è negata la possibilità dell’incontro come esperienza costruttiva che, se pure avviene, si risolve in perdita: Lorenzo in Io e te conosce Olivia, riconosce in lei la sorella da amare, la aiuta nella malattia e poi la perde. La morte di lei gli sottrae l’occasione di una relazione affettiva.
La tradizione ha costruito il prototipo dell’uomo forte, dell’homo faber sui ipsius, fiducioso nella forza dell’umana ragione, modello di uomo compiuto. I protagonisti dei romanzi di Giordano, Ammaniti e Cotroneo sono, invece, incompiuti, non solo perché adolescenti: si tratta di giovani chiusi in un solipsismo quasi patologico – nel caso di Alice e Mattia - oppure orgoglioso – nel caso, invece, di Lorenzo in Io e te- , tale da portare i giovani a rifiutare ogni confronto con la società; la dimensione della solitudine di Lorenzo in Cotroneo, invece, è aggravata dalla sua condizione di orfano – cui comunque trova rimedio con l’adozione - e dal fatto di essere inappagato sessualmente e affettivamente da un amore che i pregiudizi sociali gli negano.
In entrambi i casi è la società che schiaccia gli individui, o per indifferenza o per eccessiva competitività o per omofobia.
La tradizione, ancora, ha costruito il modello dell’uomo forte, proiettato verso la realizzazione di mete di cui la storia ha reso atto, l’uomo che, nella convinzione che sapere è potere, asserviva la scienza al dominio del mondo. Il presente, invece, ci restituisce soggetti depotenziati, chiusi in una straziante incomunicabilità, incapaci di costruire il proprio destino o impossibilitati a farlo da una società che li esclude.
Il Lorenzo di Ammaniti si sente mosca e si traveste da vespa per vivere nel mondo: la società è competizione violenta, se non si è aggressivi, non si è vincenti. Tutto tende verso etiche performative, basate sullo scontro più che sul confronto costruttivo, anche nelle normali conversazioni ordinarie.
La dimensione della morte che aleggia nei romanzi contemporanei è l’allegoria del nuovo tempo: dietro alle morti fisiche di singoli personaggi, si legge la morte di ogni possibilità comunicativa, la morte delle relazioni umane, la preclusione dell’incontro, la certezza della fine.
Nel trionfante relativismo, in cui ogni verità è possibile, nel magma dell’indistinto, nel buio c’è soltanto solitudine.
Da un lato, la libertà per cui l’uomo ha sempre lottato ha fatto sì che cadesse la gabbia delle autorità della tradizione e che si aprissero nuovi orizzonti, non fissi, ma continuamente dilatabili in una molteplicità di prospettive mobili.
D’altra parte la libertà è, però, anche rinuncia, è quel gorgo buio sotto il raggio pallido di una luna lontana, scrive Alfonso D’Errico, in L’incontro, la storia di un incontro impossibile tra due ex sessantottini imborghesiti. 

D’Errico sceglie un titolo emblematico alla sua raccolta di racconti brevi, Improbabili incontri, titolo che marca il carattere evanescente delle relazioni umane nella società contemporanea. Nel racconto sopra citato i due protagonisti, Francesco e Cristina in mezzo a una folla in festa, che li sballottolava nel suo chiassoso abbraccio… si cercavano con lo sguardo, inseguiti dai ricordi… Non riuscirono, però, a scambiarsi neppure un cenno di saluto
Rinunciare in nome della libertà alle rassicuranti certezze della tradizione fa piombare l’uomo nel dramma dello spaesamento, in cui tutto è ombra, fragile e precaria. Luperini parla di una situazione d’impotenza gnoseologica, D’Errico descrive persone e relazioni che mettono in comunicazione mere identità fisiche separate dall’anima, volti come immagini confuse, come fotografie non messe a fuoco: conoscersi è impossibile e se la realtà è caos – dopo il crepuscolo degli idoli – non c’è verità che la spieghi né risposta che illumini. La quotidianità, poi, si carica di un’amarezza ancora più profonda: alla morte degli incontri reali si sostituisce la virtualità della vita risolta in illusorie e finte relazioni che accentuano il pathos della distanza.
Eppure, l’istinto a stare vicini di cui parla Baricco in Emmaus, è lento a morire. 
In una chiesa semivuota dopo la messa, con le spalle all’altare, il giovane io narrante di Emmaus si avvicina ad Andre, la ragazza che ha mosso l’intera storia: mi fermai e le feci un saluto. Lei si spostò un po’ nel banco, lasciandomi lo spazio. Mi sedetti accanto a lei.
Nel caos di una società vuota, in cui nulla ha più senso ed è vano cercare risposte, ciò che resta è una chiesa, un uomo, una donna, Dio e l’uomo, la speranza d’incontrare Dio, la speranza di ridurre le distanze tra gli uomini.
Ciò che resta è la nostalgia della speranza, il bisogno di credere.
Immaginare l’uomo adulto e capace di gestire la vertigine e lo spaesamento conseguenti al crollo delle ideologie è stato un passo troppo lungo. L’uomo è un bambino, cerca incontri, ha bisogno di fedi.

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