Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 26 luglio 2016

Acciaio

SILVIA AVALLONE

Acciaio

Quella tra Anna e Francesca è un’amicizia profonda, confusa con l’amore e fatta di gelosie. È un rapporto che non esclude il gioco erotico ed esibizionistico con l’altro sesso, in un disorientamento che può abitare nella psiche degli adolescenti, ancora in formazione.

Nella Piombino di Avallone, gli operai oltre a lavorare, sniffano coca, corrono all’impazzata con moto rombanti, sognano macchine sportive e lo sballo in discoteca.

Anna e Francesca sono oppresse, l’una da un padre irresponsabile, convinto che "lavorare stanca", l’altra da un genitore violento e possessivo.

Sognano la fuga: la “Toremar” … e via.

Tre sono gli elementi simbolici che strutturano Acciaio:

- la fabbrica

- il mare

- i casermoni di via Stalingrado.

La fabbrica, la Lucchetti, è vita e morte insieme: sostiene economicamente Piombino, dà lavoro agli operai. Eppure è morte, non solo perché funestata da gravi incidenti sul lavoro, ma anche perché è proprio “la fabbrica della morte” dove migliaia di piccoli uomini in tuta fondevano ferro e carbonio, acciaio e ghisa per fare le rotaie, i bastimenti, le armi d’Europa e degli Stati Uniti: le acciaierie di Piombino sostengono le guerre del mondo.

Il mare con il suo orizzonte lontano e dilatabile è la speranza, il futuro, la prospettiva verso la libertà.E infatti le giovani protagoniste si imbarcano verso l’Elba, scelgono il mare, l’avventura, la sfida alle poche e amare certezze della terraferma. Scelgono il viaggio verso la libertà.

I casermoni di via Stalingrado sono la stagnante quotidianità, l’ingabbiante dimensione familiare, l’immobilismo di una vita sempre uguale, in cui l’alternativa fatta di sesso, droga e sballo è l’unica possibile, ma non è quella degna di essere chiamata meta.Scrive l'autrice: l’afa ristagnava dentro i casermoni, s’insediava in ogni appartamento e lo trasformava in palude.
Contrariamente al nome evocativo di una dimensione sovietico-rivoluzionaria, i casermoni di via Stalingrado sono sinonimo di inerzia spirituale.

La mancanza di mete ideali e di spinte propulsive per raggiungerle, caratterizza questa umanità fragile. A questo proposito, Sandra, madre di Anna, afflitta dall’irresponsabile marito Arturo, che si è fatto licenziare ed è trafficante d’arte, riflette sul presente, notando una profonda differenza con lo spessore ideale delle generazioni passate. Le venne in mente suo padre: un uomo medagliato dal Presidente della Repubblica, un eroe della Resistenza, uno che aveva lavorato per tutta una vita, che ci aveva perso una gamba nella fabbrica dove suo marito era stato licenziato.

Il passato si è retto su forti valori: sacrificio, dedizione al lavoro, senso di responsabilità, capacità e forza di lottare in nome di un ideale, desiderio di partecipazione alla Storia. L’umanità di Acciaio, invece, è periferica rispetto alla Storia, che non sembra toccarla: in un bar si assiste per televisione al crollo delle Torri Gemelle, mentre continuano la vita di sempre, la chiacchiera, la noia.

Sandra fa poi un catalogo di azioni e di scelte. 

Ci sono cose che non decidi tu, che decide il Capitalismo mondiale, la Storia delle Nazioni, la Repubblica Italiana al posto tuoSi tratta di una riflessione che sottolinea la marginalità dell’individuo rispetto alle istituzioni e alla Storia, come se il soggetto non fosse parte di un tutto e non potesse opporsi al fluire degli eventi.

E poi ci sono le cose che decidi tu … fare il ladro o l’operaio … votare x o y, leggere “La Repubblica” o guardare un reality show. La sfera dell’autodeterminazione, il potere decisionale dell’individuo è relegato, in forma riduttiva e semplicistica, a due sole opzioni contrapposte che riguardano l’etica, la politica, la cultura; sono indicate soluzioni già date, positive/negative, catalogate nel duplice binario bene/male, senza sfumature, con conseguente restrizione del campo delle possibilità della scelta e con esclusione della ricerca che implica, invece, errori, esperienze, sfide, avventure, risultati, tappe.

Infine, dice Sandra, ci sono le cose che non decide nessuno; e sono quelle che riguardano l’inspiegabile sfera degli affetti e dei sentimenti, per cui si ama senza ragione, si giustifica senza correggere, si sopporta senza discutere, per non modificare niente.

Il romanzo descrive una società che non aspira a niente, si lascia vivere, sceglie una trasgressione in realtà conformistica (lo sballo), è immersa in una quotidianità che si ripete all’infinito.

… Non cambia mai un cazzo in questo posto, non cambia la gente, non cambia la fabbrica che frantuma le palle alla gente … 

E allora le alternative sono la morte oppure la fuga, la partenza, il viaggio, al quale manca, però, la meta, il sostegno ideale, la bussola che lo orienti, l’obiettivo verso un approdo, non quello geografico dell’Elba, dove si dirigono Anna e Francesca, ma quello ideale della vita. Resta saldo, però, il valore dell’amicizia: dopo le incomprensioni, Anna e Francesca recuperano il loro rapporto.

Ma resta anche un dubbio: la chiusura nel privato, nell’amicizia, negli affetti non significa forse, rinunciare all’azione, non avere proposte, abdicare a un ruolo attivo nella società, creare una barriera tra l’io e il mondo? Se un romanzo che pure affronta temi scottanti come gli incidenti sul lavoro e l’alienazione della società industriale, si chiude con il trionfo del privato e cita Pascoli, vate della poetica del nido e modello di asocialità, può ancora la letteratura rivendicare un ruolo o deve ammettere di essere un mero osservatorio? 



sabato 23 luglio 2016

L'immoralista

ANDRÈ GIDE
L'immoralista

L’immoralista è Michel, un uomo, un  intellettuale, dimidiato interiormente,  tra anima e corpo, spirito e sensi. Michel racconta in prima persona ad alcuni amici l’infelice storia del suo matrimonio. Sposa Marceline senza amarla, si sforza di essere un buon marito, è spiazzato dalla gentilezza di lei, che lo cura con abnegazione e devozione quando si ammala di tubercolosi. La malattia, è, però, per Michel un risveglio: fino ad allora mi ero lasciato vivere, afferma il protagonista, quasi “aggredito” dalla vita e dal suo sapore. Il suo passato di filologo, trascorso fra carte e fatto di cerebralismi, gli appare ora come una morte, un’esistenza inautentica: sì, i miei sensi risvegliati, scoprivano una loro storia … Vivevano! … Mi affidai con voluttà a me stesso, alle cose, al tutto, che mi apparve divino.
Nelle scoperte di Michel, nella sua sensualità panica c’è l’eco di D’Annunzio e c’è l’amor fati di Nietzsche: ero guidato da una fatalità esaltante. È forte la presa di coscienza, dopo la guarigione: da quel momento fu lui che io volli scoprire: l’essere autentico, il “vecchio uomo” in noi, quello che il Vangelo aveva rifiutato. Michel rifiuta la morale cristiana quella che Nietzsche chiama la morale dei deboli, quella della sottomissione, della sofferenza, del senso di colpa.  La vita piatta e programmata del passato lascia ora il posto al caos e alle delizie di una nuova felicità, nonostante la certezza di abbandonare a un destino di infelicità e di morte Marceline.
Marceline perde un bambino, si ammala di tubercolosi e il marito, fingendo di voler ripercorrere con lei le tappe del loro viaggio di nozze in Tunisia, la porta dalla Svizzera a Tunisi, verso un sud assolato e verso un clima umido a causa del quale, ovviamente, Marceline si aggrava fino a morire tra fiotti di sangue.
Con Marceline se ne va quella parte di Michel che è sottomissione alle convenzioni ipocrite della società dei benpensanti, la maschera. Libero dalla schiavitù delle forme sociali Michel potrà dare sfogo alle sue fantasie sessuali, alle sue brame per i ragazzi tunisini, alle voglie dei suoi sensi affamati di vita e di piacere.
È illuminante il dialogo con l’amico Ménalque, il quale gli rivela una verità profonda: i più pensano di poter ottenere qualcosa di buono da se stessi solo con la costrizione; si accettano solo contraffatti. Ognuno desidera assomigliare il meno possibile a se stesso; ognuno si costruisce un modello poi lo imita; accetta addirittura un modello già scelto. Si dovrebbero cercare altre cose nell’uomo, io credo. Ma non si osa farlo. Non si osa voltare pagina. Io le chiamo leggi dell’imitazione, leggi della paura. Hanno paura di essere soli e così non si trovano mai. (…) Quello che sentiamo in noi di diverso, è la cosa più preziosa, quella che determina il valore di ciascuno, eppure si cerca di sopprimerla. Si ricorre all’imitazione, pretendendo così di amare la vita. Quella di Ménalque vuole essere un’esortazione a vivere in modo autentico, senza mentire a se stessi: bisogna scegliere, l’importante è sapere ciò che si vuole.
La morte di Marceline resta, però, lo spettro della scelta di Michel. Si fa strada un dubbio atroce che Gide non risolve: può il diritto dell’ego spingersi al punto da arrecare danno a chi si ama?
Nella mente di Michel, alla fine del romanzo riecheggiano le parole di Cristo a Pietro, che Michel ha letto casualmente tra le pagine della Bibbia, una notte, non riuscendo a dormire e non sapendo che fare; ne ricorda solo una parte: “Adesso tu ti cingi da solo e vai dove vuoi andare …”. Michel si chiede: dove vado? Dove voglio andare? Nel ricordo della frase biblica Michel ha omesso una parte. Le parole di Cristo che lui ha letto  quella notte insonne, chino al chiarore della luna continuavano così: “ … ma quando sarai vecchio, tenderai le mani … tenderai le mani …”. In segno di pietà, di perdono, di aiuto?
Arriva un momento, nella vita di ognuno, in cui la libertà tanto cercata prenderà il nome di solitudine; il dominio dell’ego e dei sensi cederà, e quella mani tese che non hanno raccolto nulla, attesteranno il bisogno di solidarietà, di attesa, aspetteranno di essere colmate, di essere prese da qualcuno.
Michel ha conosciuto l’aiuto, l’amore, ma non ha saputo darlo, ha concesso solo, nei momenti migliori, una tiepida gentilezza,  ha certamente inferto una terribile morte, non per odio verso la moglie, ma per troppo amore di sé, per cieco egoismo.
Gide non esprime giudizi, descrive un fatto, racconta una vita, dà voce a una ricerca interiore, a una conclusione che Ménalque sintetizza così: dei mille modi possibili di vita, ognuno di noi può conoscerne uno soltanto, certamente quello che sceglie; e non c’è spazio per rimpianti, seconde opzioni, passi indietro.
Scegliere totalmente se stessi significa, per Michel, abbattere l’esistenza dell’altro; fare della propria vita il terreno d’azione di una sfrenata libertà, dell’arbitrio assoluto, non ammette remore tardive o rimorsi irreparabili.

Resta, però, incancellabile, il timore degli spettri della coscienza: a volte temo che quello che io ho soppresso si vendichi. Aver rinunciato all’amore di una donna, all'affetto e al calore di una vita condivisa lascia un vuoto incolmabile, il baratro di una libertà senza frutto: sapersi liberare non è niente; il difficile è saper essere liberi.

venerdì 15 luglio 2016

Il colombre





DINO BUZZATI    
Il colombre


Il racconto più pregnante è quello che dà il titolo alla raccolta. Il protagonista è Stefano Roi, un uomo che passa la vita a scappare dal colombre, mostro marino e squalo terribile che in realtà, alla fine, si rivela un compassionevole compagno di viaggio. Incontra finalmente Stefano Roi e gli fa un insolito, inaspettato regalo.
Nel racconto, incentrato sull'archetipo narrativo del viaggio, come percorso di autocoscienza e formazione, Roi passa dalla fuga all'incontro. E nel riconoscimento del colombre semplicemente come "altro", e non come pericolo, consiste la modernità di questo testo.
Stefano Roi si apparenta ai numerosi eroi della tradizione che hanno affrontato il viaggio per mare. Ulisse dopo il naufragio è approdato a Itaca, riappropriandosi della propria identità di re, padre e marito. Il feroce capitano Achab ha sfidato i mari spinto dal demone della vendetta contro la Balena Bianca e ha trovato la morte. L'assurdo vagare per mare di Stefano Roi - che non ha nulla della sfida propulsiva e conoscitiva dell'Odissea né del vendicativo inseguimento di Achab - si conclude non con uno scontro, ma con un incontro fatto di comprensione e di reciproco riconoscimento.
L'incontro tra l'uomo e il mostro è di stringente attualità: in un'epoca dilaniata da disumani conflitti, solo nel superamento di ogni autoreferenzialità etica e culturale, solo nel dialogo si annidano le speranze di pace e di convivenza civile.
Molti si sono interrogati sul senso di questo racconto e sul significato del mostro che Stefano ha sempre cercato di evitare, temendolo, per poi, forse troppo tardi, scoprirne la bellezza.
Il colombre potrebbe essere il destino, sarà forse la felicità che noi non abbiamo il coraggio di abbracciare, che non sappiamo riconoscere, cui non riusciamo ad abbandonarci con fiducia e semplicità. Sarà. Forse.



mercoledì 13 luglio 2016

Venti di grecale

l'immagine del profilo di Paolo LabombardaPAOLO LABOMBARDA
Venti di Grecale 

VENTI DI GRECALE, IL TRENO E GLI OLIVI
I venti di grecale spazzano via le nubi della storia, sono intensi e freddi come il dolore consolidato di chi ha perso molto per colpa di una guerra che ha rubato una parte della vita, ma pure rendono limpido il cielo per lasciare spazio alle corse della speranza. La speranza di sopravvivere alla guerra e di proteggere il piccolo Paolo, porta Bianca da Roma a Peschici, sulla “garganica: la famiglia dei suoceri, i Laberi, la accoglierà. La speranza di riappropriarsi della vita, di sé e degli affetti, riconduce, poi, a Roma Bianca, Paolo e Gino, reduce dal campo di prigionia degli inglesi e reso maturo dalle esperienze di sofferenza e di morte, quelle della guerra voluta dagli altri – Hitler e Mussolini – ma subita da tutti.
E il trenino che li trasporta corre sul filo della speranza, attraversa la vita e assapora la pace recuperata. La simbologia del treno, che, con struttura ad anello, ricorre nell’incipit e nell’excipit dell’opera, e quella degli olivi, tradizionalmente associati all’idea di pace, sintetizzano gli obiettivi profondi per cui Paolo Labombarda ha scritto di sé e della propria famiglia. Una generazione che ha vissuto il caos, i lutti e gli abbandoni causati da una guerra estrema, può imboccare solo due strade: la disperazione o la sfida al dolore.
Labombarda percorre quest’ultima: la pace conquistata (gli olivi) spiana la strada alle speranze (treno in corsa). Nonostante tutto – sembra voler dire lo scrittore – la vita è ancora possibile.
Dei tanti romanzi storici, dunque, quello di Paolo Labombarda ha un tratto distintivo: una fiducia progressista che non nasce da fedi o convinzioni metafisiche di manzoniana memoria, bensì da una forza umana, solo umana, quella degli affetti che minuziosamente e con dovizia di particolari, l’autore ricostruisce.
Il fatalismo pessimista di Verga fa naufragare la religione della famiglia in un desolato addio del giovane ‘Ntoni ad Aci Trezza; lo sguardo di De Roberto, disincantato verso i meccanismi del potere corrotto dal trasformismo e verso gli affetti corrosi dall’interesse venale, non lascia spazio ad alcun ottimismo; l’immobilismo di una storia senza orizzonti torna anche in Tomasi di Lampedusa nel noto se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi.
Non mancano pure in Venti di grecale amare riflessioni e disilluse interpretazioni della storia, come quelle di Zio Raffaele sulla “generosità” degli americani, che, secondo lui, incentivano la guerra civile in Italia per annientare i nemici storici, i fascisti, ma senza dar troppo spazio a quelli nuovi, i comunisti: anche le idee di Stalin, a loro, non piacciono, come non piacciono quelle di Hitler e Mussolini. Ecco perché la guerra è finita ma le armi, loro, non smettono di far male!
Invece, nella visione del mondo di Paolo Labombarda due forze si intersecano e agiscono di continuo: gli affetti e la speranza. Certo, c’è da chiedersi se questa netta chiusura nel privato, se questa fede solo in una salvezza intima, quella del nido, della famiglia, non nasconda, per converso, la sfiducia verso altre possibili fonti di salvezza (Dio, gli ideali e i valori). D’altra parte il secolo che E. Hobsbawm ha definito breve per la sua luttuosa intensità, per i suoi due deflagranti conflitti, lascia ben poco spazio a forti ideali e ad assolute certezze. Comunque – questo sembra suggerire Labombarda – la speranza di costruire un futuro migliore non può essere annullata, è un carattere strutturale dell’uomo e, secondo l’autore, si costruisce nel lento, paziente lavoro di recupero delle memorie, del passato, degli affetti. Si spiega così la dedica dello scrittore ai figli perché possano ritrovare radici del loro futuro. Non si tratta di un mero discorso di appartenenze e/o di ricerche identitarie, ma anzi di recupero dei vincoli affettivi, della forza delle relazioni interumane, della loro intensità antica, che, forse, ora sfugge ai giovani immersi nelle dinamiche veloci e spersonalizzanti dell’ipertecnologia.

Impropriamente si definisce romanzo Venti di grecale; è piuttosto una ricostruzione documentaria di fatti, tradizioni e spaccati di vita filtrati dagli occhi di Bianca a cui appartiene la voce narrante. E’ facile comprendere che la prospettiva di Bianca coincide con quella dell’autore e ogni aspetto della vita peschiciana è da lei analizzato, studiato, quasi sezionato (come la grafica in neretto evidenzia) con lo scrupolo di chi vive i fatti per farne tesoro e tramandarli, affinché ogni esperienza lasci una traccia.
Così la vita del borgo diventa espressione di autenticità e di spontaneità e tutto, gesti e parole, abitudini familiari e usanze collettive, ha un’efficacia diretta e incisiva e le relazioni tra persone si connotano per la loro intensità, sconosciuta, oggi, alle nuove generazioni per cui la solitudine è risolta nelle virtualità di incontri immaginari. Ne è un esempio il funerale di Ettore, zio paterno dell’autore, a cui partecipa tutto il paese. Persino il pastore Mariuccio Orsitti  si  accoda al corteo seguito dalle pecore e dai cani, dopo averli raccolti con un mesto Oa! Oa! O!. Nel cimitero la gente e il gregge restano intorno alla cappellina della sepoltura o vicino al cancello del cimitero fino alle ultime luci del giorno. Non è solo una tradizionale veglia funebre, è partecipazione corale, collettiva a un dolore familiare, segno che nel paese i singoli sono ancora parte di un organismo sociale. La modernità, dunque, pure rappresentata dal treno in corsa, non ha ancora cancellato la forza viva delle relazioni sincere e non ha annullato il carattere boccaccesco di alcune tradizioni come lo svuotamento dei canteri presso la rupe dello Scalandrone, dove il Castello si affaccia sulla scogliera a picco sul mare.

Anche a Peschici, apparentemente un Eden di pace, la bufera del secondo conflitto mondiale, miete le sue vittime e pure la famiglia Laberi ne è colpita: Gino e Peppinillo sono prigionieri degli inglesi. L’autore focalizza l’attenzione sul padre Gino, sul suo dolore nel vedere i compagni feriti in battaglia; il racconto si sofferma sulla sofferenza di Gino costretto a lasciare sulla sabbia gli amici ormai morti; infine, lo scrittore sottolinea la disperazione del padre soldato nel  dover dare ai commilitoni caduti l’estremo saluto col segno di croce.
Ma il dolore della guerra vissuta da Gino in modo diretto e che si riflette su Bianca costretta – anche se ben accolta – ad adattarsi ad un paese e ad una famiglia – quella dei suoceri Laberi – che lei conosce poco, diventa occasione di riflessione esistenziale.
La conclusione del testo di Paolo Labombarda solo gradualmente conquista l’equilibrio tra la percezione del non senso della storia e la speranza di guardare al futuro con forza nuova: la domanda che Bianca si pone (tutto quello che è accaduto in questi anni che senso ha ?) porta ad un’amara risposta: la guerra a noi ha rubato una parte di vita, di giovinezza. E dalla sfera individuale, familiare, Bianca passa ad una dimensione universale: l’insensatezza della guerra, sempre e per tutti. Sembra di rileggere Pavese, quando ne La casa in collina scrive: ogni guerra è una guerra civile.
E’ fuori discussione il devastante non senso della storia. Nonostante tutto, però, il treno corre. Tra olivi, olivi, e olivi.

martedì 12 luglio 2016

Candido








VOLTAIRE
Candido

Candido è un racconto filosofico, ma anche un racconto di formazione. Candido  - come spiega il nome – è un ingenuo ragazzo dal dolcissimo carattere e dallo spirito molto semplice, educato dall’ottimista e leibniziano precettore Pangloss, professore di cosmoscemologia, un tuttologo aproblematico, che nonostante i fallimenti e i dolori non esita mai a celebrare l’armonia prestabilita che governa la storia e l’assetto universale delle cose.



Cacciati a pedate dal castello del barone di Westfalia, per aver trasgredito le norme ipocrite del buon costume, entrambi  partono all’avventura, affrontano la guerra, le devestazioni, le torture dell’Inquisizione, si separano.
Candido ha perso tutto, gli manca l'amata Cunegonda e la speranza di rivederla è il motore del suo viaggio. Il racconto recupera l’archetipo narrativo del viaggio – che sin dai tempi dell’Ulisse omerico è sinonimo di ricerca di sé – e si fonda sul valore dell’avventura come sfida agli ostacoli e come percorso di formazione dell’identità. Due sono le tappe particolarmente significative del complesso cammino di Candido. La prima è costituita dalla sosta nel paese dell’Eldorado, una specie di paradiso in terra dove tutti sono felici, non c’è mai la guerra; è il paese dove tutto va bene. Eppure Candido lo lascia e riprende il viaggio, non certo per il piacere del rischio, ma semplicemente perché nel paese dell’Eldorado non c’è Cunegonda, non c’è l’amore. Nella vita puoi avere tutto, sembra suggerire Voltaire, ma se ti manca la persona che ami, è la fine! E Candido l’ha capito: come un nuovo Lancillotto, egli cerca la sua donna, correndo rischi e pericoli per raggiungerla. Un’altra tappa importante nel cammino di Candido è l’arrivo nel paese del senatore Pococurante, un nobile veneziano annoiato dalla vita per saturazione di esperienze. Donne, quadri, concerti, libri: Pococurante ha tutto e a Candido pare il più felice degli uomini. Subito il suo amico Martino, saggio, ma pessimista - esattamente l’opposto di Pangloss - gli fa notare che Pococurante è disgustato da tutto, non è in grado di scorgere la bellezza in niente, nulla lo meraviglia. Candido capisce, allora, che non è certo nei beni materiali che consiste la felicità.

Infine c’è un incontro che colpisce Candido, quello con Paquette e  fra Giroflé, che appaiono felici agli occhi dell’ingenuo ragazzo, ma, in effetti le loro storie sono tristissime: Paquette è costretta a prostituirsi per povertà e fra Giroflé odia l’abito monacale che è stato costretto a indossare in ossequio alle leggi del suo tempo: i miei genitori mi obbligarono a quindici anni a indossare questo detestabile abito, per lasciare un più grande patrimonio a un maledetto fratello maggiore … La gelosia, la discordia, l’ira regnano nel convento. Non sempre la felicità apparente degli altri, spesso persino invidiata da occhi superficiali, corrisponde a un a realtà; nasconde, invece, sofferenze indicibili.

Al termine del suo viaggio Candido ritrova Cunegonda e il suo precettore Pangloss. Insieme ai suoi amici va a vivere in una fattoria nei pressi di Costantinopoli. Lì un derviscio turco spiega alla brigata i segreti della felicità: tra tutti spicca un monito, quello di imparare a coltivare il proprio giardino. Si tratta di una frase che è stata variamente interpretata e spesso anche mistificata come invito all’individualismo. A ben guardare si tratta di una saggia affermazione: coltivare il nostro giardino equivale a occuparci con cura e pazienza di quella parte di mondo che ci viene affidata. Noi non possiamo cambiare la storia, ma possiamo contribuire a rendere un po’ meno infernali il tempo e lo spazio in cui viviamo, allenare il nostro sguardo a cogliere la bellezza e sforzarci di comunicarne il fascino e l’essenza. I greci chiamavano il giardino “paradeisos”, paradiso. Ecco, dice Voltaire, tocca a noi trasformare in un paradiso l’angolo di terra che dovremo imparare a coltivare.


L'INTERPRETAZIONE DI FRANCESCO TANINI



sabato 9 luglio 2016

La cena

HERMAN KOCH
La cena

La cena è la storia che potrebbe capitare a me, a te, caro lettore.

Due coppie apparentemente stabili e felici si incontrano in un lussuoso ristorante.                     Chiacchiere, banalità, il lavoro, i figli.
I figli. Appunto.
Herman Koch:  "Siamo tutti borghesi annoiati,  perciò diventiamo cattivi"Vite tranquille vengono sconvolte da un evento di incomprensibile, assurda violenza: al ritorno da una festa, due sedicenni - i figli delle due coppie a cena - ragazzi, cioè, di “buona famiglia”, ammazzano una clochard e le danno fuoco. Le immagini riprese dalla videocamera della cabina di un bancomat vengono trasmesse in TV e fanno il giro del web. Non teppisti che incendiano le macchine per far scattare una faida tra gruppi di etnie diverse. Soldi a sufficienza, genitori benestanti. Ragazzi come ne conosciamo tutti. Come nostro nipote. Come nostro figlio.
L’interrogativo è inquietante: che fare? Ancora più grave è la domanda: perché è accaduto?
L’azione efferata dei due sedicenni è la dimostrazione del fallimento della famiglia, della scuola, della società, vittime di  nichilismi irreparabili.

Herman Koch ci inchioda alla lettura, ci fa entrare nei meandri del senso di colpa come genitori, ci fa provare una forte sensazione di impotenza come insegnanti, di inadeguatezza come adulti incapaci di costituire modelli esemplari per i giovani che ci lanciano messaggi, ma noi, ormai, non siamo più in grado di decifrarli, travolti dall’ansia del lavoro, del successo, del denaro, dell’autoaffermazione. Non ascoltiamo, viviamo distrattamente le tappe della crescita dei nostri ragazzi cui diamo tutto, tranne ciò di cui hanno davvero bisogno: attenzione, considerazione, tempo. 
Sì, la quantità del nostro tempo. Non basta la qualità.

Una questione privata

BEPPE FENOGLIO
Una questione privata

Una questione privata è il racconto della Resistenza, narrata senza toni epici: Fenoglio dimostra che la guerra è guerra. Tutto mira a rendere palpabile l’orrore: uccidere è normale, per difesa, per paura; i partigiani non sono eroi, ma soldati; la lotta contro i fascisti e per la libertà vede intrecciate la nobiltà dell’ideale con la corsa umana per la sopravvivenza; accanto agli orrori dei fascisti che ammazzano turpemente il giovane Riccio, un partigiano adolescente che fa la guerra per sentirsi un eroe e trova solo la morte, si situano – non meno raccapriccianti – le azioni violente dei partigiani che a loro volta non esitano a rasare con un certo macabro compiacimento, la testa di una maestra, una di quelle che sognavano di avere un figlio con Mussolini: un gesto violento, di vendetta, compiuto davanti agli occhi tormentati dei genitori della donna.
La Resistenza non è solo la guerra partigiana; c’è, accanto alla storia, una Resistenza privata, quella dell’amore di Milton, il protagonista, per Fulvia. Si tratta di un amore che resiste al tempo, alla separazione, al dubbio atroce del tradimento. E la questione privata è proprio questa: arrivare alla verità su quell’amore, accertare se tra Fulvia e Giorgio, l’amico di entrambi, c’è stato davvero qualcosa e che cosa e fino a che punto. Allora Milton inizia la sua caccia all’uomo: anche Giorgio è un partigiano, Milton deve cercarlo. Li unisce l’amicizia, la lotta antifascista e …l’amore per Fulvia. Non poteva più vivere senza sapere: cercare la verità diventa il primo motore delle scelte e delle azioni di Milton. E la sua è una ricerca eroica, come la quête del Furioso, nel fango e nella pioggia, tra gli spari e i pericoli. In effetti, il tratto epico del romanzo di Fenoglio sta proprio nel nome del protagonista: Milton, come l’autore del Paradiso perduto. Infatti, per Milton sembra perduta la felicità dei sogni di una vita con Fulvia. Eppure il giovane partigiano non si dà per vinto.
Si alterna al rumore dell’artiglieria il suono delle canzoni del passato, dei balli a casa di Fulvia: Over the rainbow è la colonna sonora dell’Eden perduto e delle speranze infrante. Fino alla fine Fenoglio accompagna il lettore nella folle corsa di Milton verso una possibile, incerta, labile felicità.
La Resistenza raccontata in Una questione privata è la Resistenza della dignità contro le miserie umane (tradimenti nell’amicizia, nell’amore) e contro una Storia decisa dai potenti, ma che miete vittime  tra la gente comune.
Da qualunque parte sia l’uomo di Fenoglio è sempre sconfitto.
Il tenente fascista che ha comandato al plotone di esecuzione di uccidere Riccio, che ha visto il ragazzo andare da solo, dignitosamente e orgogliosamente, a farsi giustiziare, non è un vincitore, rimane pietrificato, sente su di sé il peso della Storia che fagocita le volontà dei singoli: restò fermo un attimo solo … si calcò una mano sui capelli che gli si erano tutti rizzati e lentamente, spossatamene camminò …

Il Male non è stare dalla parte sbagliata: il Male è la guerra in sé, il fango dell’orrore, l’esplosione della violenza, la persecuzione del dubbio, la paura del tradimento, la certezza che il passato non torna e che la vita potrebbe non bastare per ricostruire la speranza.


BEPPE FENOGLIO DA PARTIGIANO A SCRITTORE

giovedì 7 luglio 2016

Notti bianche

FEDOR DOSTOEVSKIJ
Notti bianche

Il protagonista delle Notti bianche è un ragazzo, uno studente: non ha un nome. Dostoevskij in tutto il romanzo lo chiama il sognatore. Il giovane salva per caso, da un'aggressione in strada, una fanciulla, Nasten'ka. Da questo momento il sognatore e Nasten'ka trascorrono insieme, le loro notti bianche, fatte di parole, di racconti, di confessioni. I due giovani scoprono che oltre il buio dell'esistenza c'è un cielo stellato: basta avere il coraggio di alzare lo sguardo per ammirarlo. La sofferenza fa parte dell'esistenza umana, ma non bisogna  lasciarsi fagocitare dal dolore. Il sognatore grazie a Nasten'ka e alla sua vitalità comprende di non aver mai vissuto, si scopre un cittadino malaticcio, semisoffocato dalle mura della città, un ragazzo incapace di cogliere la bellezza fuggitiva delle cose, che pure brilla davanti ad occhi spesso disabituati o non esercitati a scorgerla. In Nasten'ka il giovane sognatore vede la vita, sente che la felicità esiste e le dice: sognerò di voi tutta la notte, tutta la settimana, tutto l'anno.
Nasen'ka invita il sognatore a parlare di sé: non è solo per gratitudine, è per puro desiderio di creare un contatto umano, in una società in cui le relazioni sono fugaci e impermeabili. Un ragazzo l'ha salvata in un momento di pericolo e Nasten'ka si accorge di non sapere niente di lui! Non conosce nessuno che possa darle informazioni su questo generoso benefattore e, allora, con semplicità gli dice: dovete essere proprio voi a raccontarmi tutto, vita, morte e miracoli. Insomma che persona siete? Suvvia, incominciate a raccontarmi la vostra storia.
Il sognatore rimane spiazzato da questa domanda, da questo strano invito: a chi potrebbe mai interessare una vita di studio e solitudine come la sua? inizialmente reagisce con un certo disagio, Dostoevskij lo definisce addirittura spavento: chi ha detto che ho una storia? Non ho una storia ...
Il giovane percepisce in questo momento, durante questo incontro che la sua fino ad ora non è stata "vita". Estraneo al mondo e chiuso nelle sue fantasticherie o nei suoi cerebralismi astratti che lo hanno portato lontano dalla realtà, solo adesso scopre che quanto più semplicemente si fanno le cose, tanto meglio!
Nasten'ka non gli crede e con semplicità, con calma, con umana partecipazione riesce a far emergere la parte migliore del sognatore, riesce a trasformare i suoi sogni in desideri e lo esorta a parlare, lo invita a raccontarsi e a superare lo scoglio dell'incomunicabilità che paralizza le relazioni umane: ... c'è una panchina; sediamoci! ... non ci sentirà nessuno, incominciate pure la vostra storia! Perché ne sono convinta, voi avete una storia...
Le storie attraggono, creano affinità e presto anche Nasten'ka inizia a raccontare la sua vita, la sua delusione per un amore finito, l'amarezza di giorni sempre uguali.
Van Gogh, Notte stellata sul Rodano
I due scoprono la bellezza delle parole, della comunicazione: perché non dire subito, apertamente quello che si ha nel cuore, se le proprie parole non sono gettate al vento? Ognuno si mostra molto più duro di quanto non sia realmente, come se temesse di offendere i propri sentimenti rivelandoli troppo presto ... 
Dostoevskij è un maestro nella conoscenza delle emozioni umane: spesso ci lasciamo sopraffare dal pudore, dalla diffidenza e non ci rendiamo conto che proprio nella capacità di ascolto e nel bisogno di raccontarsi si fa strada l'umanità. Perché Boccaccio fa allontanare da una Firenze distrutta dalla peste i dieci giovani e dà loro lo statuto di "novellatori"? Per questo: per raccontare la possibilità di un mondo migliore, per costruire, attraverso le storie, l'impalcatura di un'umanità più bella.
Raccontare, parlare, scambiarsi emozioni sono atti semplici che rendono l'esistenza più umana, consentono di prendere la giusta distanza dagli inferni quotidiani.
Incontro, relazione, comunicazione: ogni possibilità di essere felici è sempre duale.

SAVIANO INTERPRETA LE NOTTI BIANCHE
http://www.robertosaviano.com/amici-il-testo-del-mio-intervento/

D'AVENIA INTERPRETA LE NOTTI BIANCHE
http://www.librimondadori.it/news/dostoevskij-in-classe.-il-prof.-alessandro-d-avenia-a-lezione

lunedì 4 luglio 2016

L'eleganza del riccio



MURIEL BARBERY

L'eleganza del riccio                                  





Non vediamo mai al di là delle nostre certezze

e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro,

non facciamo che incontrare noi stessi

in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci.




L'eleganza del riccio è la storia di un incontro che trasforma la vita delle due protagoniste. Renée, portinaia di un lussuoso appartamento parigino, sembra sciatta e trascurata, ma in realtà è una donna dalla profonda sensibilità: la portinaia che legge Tolstoj e ascolta Mozart, è l'unica a cogliere il disagio della giovane Paloma, adolescente colta e inquieta che vive con disgusto e con distacco la mediocrità del mondo che la circonda. Paloma ha deciso di uccidersi e di dar fuoco al suo appartamento per cancellare ogni traccia della sua esistenza e questa sua determinazione sembra irrevocabile. Sarà proprio l'incontro con Renée e con l'amico giapponese Kakuro Ozu a cambiare le prospettive della giovane Paloma.
L'eleganza del riccio è un romanzo sulla forza dell'amicizia, sulla potenza dell'ascolto, sul bisogno di cercare con pazienza la bellezza della vita, nonostante il dolore e la tristezza.


UN VIAGGIO NEI VALORI: IL RICCIO E LA COLOMBA
L'incontro tra Renée e Paloma dimostra che la vera amicizia guarda oltre le barriere anagrafiche e sociali. La portinaia è l'unica a cogliere la sofferenza della sua giovane amica, costretta a vivere a contatto con quella che la stessa Paloma definisce  stupida vacuità borghese, in una società tesa solo al raggiungimento di obiettivi materiali e impegnata nella triste aggressività dei giochi di potere.
Non è un caso che la fanciulla porti il nome di Colomba (in spagnolo "paloma"), con chiaro riferimento al suo animo puro, innocente, dolce, nascosto dietro un carattere difficile, polemico e critico.
A sua volta Paloma è la sola a capire la vera natura di Renée, sintetizzata nell'espressione l'eleganza del riccio:

Madame Michel ha l'eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti.

Renée e Paloma sono accomunate dalla medesima profondità che consente loro di guardare il mondo con ironia e disincanto, ma di conoscere anche la vera essenza della felicità.


 Io credo che ci sia una sola cosa da fare:
scoprire il compito per il quale siamo nati
e portarlo a termine il meglio possibile.

Il segreto di Kàlena

ALFONSO D'ERRICO

Il segreto di Kalena 

Il segreto di Kalena di Alfonso d’Errico (Bastogi, 2006) si presenta come un romanzo nel romanzo: la vicenda di Astolfo e Rachele nel manoscritto di Astolfo stesso, monaco benedettino, si genera dalle vicende-cornice di Filippo e Miglena e dalla incessante brama di verità dell’architetto Zaiana. L’autore ricorre al topos antico del rinvenimento di un manoscritto intorno al quale ruota l’intreccio, ma lo rinnova arricchendolo con giochi d’identità che mescolano piani temporali, sogno e realtà, fantasia e verità.
Dunque Il segreto di Kalena si costruisce su due elementi uno tematico, il tempo e uno tecnico, strutturale, il rapporto tra racconto interno e cornice, che alla fine arrivano a coincidere proprio in virtù dell’azione del tempo che sembra annullare le distanze tra sogno (racconto interno) e verità (cornice).
Filippo dichiara che va progressivamente convincendosi che “il mondo non sia altro che l’immagine dei nostri sogni, un quadro che non stessi dipingiamo”. E l’esplicito richiamo - a pag.13 - a Cervantes chiarisce inequivocabilmente come d’Errico voglia sostenere che il confine tra sogno e realtà sia molto labile. Come don Chisciotte, Filippo vive sul filo della follia, in un equilibrio precario con se stesso e con il mondo, forse disancorato rispetto alla realtà per colpa dei libri, per quella malattia di carta da cui è affetto pure l’hidalgo. Don Chisciotte filtra la realtà attraverso stereotipi letterari che gli servono a nobilitare la dimensione bassa nella quale egli vive, Filippo, invece, arriva a fare coincidere la realtà e le persone che la popolano, con le fantasie di testi antichi, si immerge in una dimensione allucinata come il suo sguardo perso all’orizzonte nella scena finale del libro.
E’ sogno? E’ follia? Invece è solo un altro modo di leggere la realtà, un modo nuovo che affida alla parola scritta l’enorme responsabilità di sfidare il tempo e di attribuire verità agli accadimenti. E allora la malattia di carta, la letteraturazione della vita diventano l’essenza della vita stessa: al monaco Astolfo, preoccupato che la sua relazione con Rachele venga scoperta, la fanciulla dice, con tono rasserenante: “Se nessuno scrive questa storia su un libro, è come se non fosse mai accaduta”. Dunque Astolfo, a pag. 52, conclude che “solo la parola scritta vive in eterno” ed è per questa convinzione che egli decide di affidare allo scritto le sue riflessioni teologiche, pur consapevole del fatto di incorrere nell’accusa di eresia e di lasciare così prove evidenti delle sue deviazioni dottrinali.
La malattia di carta che caratterizza Filippo – e lo differenzia da don Chisciotte – non è la tendenza a filtrare la realtà attraverso modelli letterari che la nobilitino, bensì è l’ossessione di cercare nei testi scritti, nella parola scritta le coordinate necessarie ad orientarsi nel quotidiano.
E allora lo scriptorium, in cui Astolfo finge di tradurre e invece scrive la propria teologia, il proprio vangelo, la propria verità, diviene un emblema avvicinabile alla Biblioteca di Borges e al labirinto di Calvino: luogo d’incontro tra finzione e verità, metafora degli inestricabili e labirintici meandri dell’esistenza in cui non c’è garanzia d’approdo, da cui non è possibile fuggire, nei quali ci si trova a vivere, e saperne accettare il peso è già una grande sfida. La stessa funzione sembra avere il camminamento di Kalena che conduce al luogo del non-incontro tra Astolfo e Rachele, al momento della storia interrotta, alla “nera distesa del mare”, alla spiaggia desolata in cui oltre al rumore delle onde non c’è nessuno se non un’ombra. L’ombra, il flatus vocis, “nomina nuda” cui Eco fa riferimento nel “Il nome della rosa”, sono le cifre dell’esistenza: un inestricabile groviglio di mancanze, di non-sensi dove, dunque, tutto è interscambiabile e possibile e che la ragione questo non se lo spieghi non è cosa affatto importante.
Solo un dato resta inequivocabile: la parola scritta. E’ la parola scritta che giustifica la realtà e fornisce le chiavi di lettura per decodificarla, interpretarla e addirittura completarla nelle sue aporie.
E la parte bianca del libro? Laddove manca la parola scritta, lì allora si apre il baratro della responsabilità: il compito, di “costruire” la verità senza il riferimento scritto, già dato e al massimo solo da interpretare.
Il bianco è, d’altra parte, il vuoto che può essere colmato dalle infinite possibilità delle scelte, dagli infiniti incroci dei tempi, dalle scritture di più mani che s’intrecciano a comporre la storia, le storie.
E lì, nello spazio bianco, Filippo e Astolfo, Rachele, Miglena ed Ela s’incontrano in una sovrapposizione di tempi, in una cronologia dinamica in cui l’aporia tra passato e presente è colmata dall’immaginazione.
E’ questo il senso più profondo del romanzo: “passato, presente e futuro finiscono per intersecarsi in una dimensione unica che ci porta a sovrapporre fatti, ricordi, sogni” Si tratta di una soggettivizzazione estrema del tempo che annulla ogni cronologia matematica ed oggettiva e rende l’uomo veramente artifex sui ipsius, davvero padrone di sé, della propria dimensione interiore che può orientare come meglio crede, a proprio piacimento.
E non si tratta di una semplice questione di naufragio dell’anima di leopardiana memoria, né di rimembranze agostiniane … Se di extensio animi si può parlare, è solo nel senso che la fluttuazione tra i tempi è tale che ogni cronologia sembra falsata come in un gioco di specchi deformanti. Nasce così un tempo indeterminato, sinuoso come un labirinto, “una rete crescente di tempi divergenti, conseguenti e paralleli”, “una trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli”, un tempo che “comprende tutte le possibilità”, un tempo che “si biforca perpetuamente in innumerevoli futuri” tutte immagini care a Borges.
In un tempo siffatto c’è l’attimo, l’eternità, la coincidenza, c’è Eraclito, il divenire, c’è Parmenide, l’immobilità, c’è Ulisse, il ritorno.
Ma soprattutto c’è lo spazio bianco, la storia che ogni uomo, in ogni tempo, scrive nella propria vita, guardando lontano, verso l’orizzonte e talvolta girandosi indietro verso un passato che lo accompagna e vive in lui, sempre, perché “nessuno può vivere senza portarsi dietro il proprio passato”
Ma la quarta categoria del tempo che si biforca è il lampo d’incoscienza, l’immaginazione che ricompone frammenti di verità: finzioni, giochi di specchi, illusioni e allucinazioni che intrecciano trame. E allora, sì, “la vita è sogno”, non tanto perché è breve, evanescente – certo è fatta della stessa materia dei sogni, scriveva Shakespeare – ma soprattutto perché, come i sogni, ha una dimensione multipla, parallela, e perciò è impalpabile il confine tra sogno e realtà … la verità ha i contorni sempre più sfumati, come l’irraggiungibile linea all’orizzonte là dove il profilo di Filippo si confonde con quello di Astolfo.

Esercizi spirituali e filosofia antica

PIERRE HADOT
Esercizi spirituali e filosofia antica

La vera filosofia è esercizio spirituale.


Esercizi spirituali e filosofia antica è un saggio necessario. Non è destinato solo agli addetti ai lavori, ai filosofi e agli intellettuali. Pierre Hadot si rivolge a tutti e propone una nuova interpretazione della filosofia: non un sapere iniziatico né un magma di dottrine onnicomprensive neppure il tarlo della domanda  neanche il cammino della ricerca.
Piuttosto un'arte di vivere, lo strumento utile a vivere una vita umana.
Per Hadot la filosofia ha due precisi compiti:
1) rivelare agli uomini l'utilità dell'inutile 
2) spiegare agli uomini che il filosofo non è un professore o uno scrittore, ma un uomo che ha fatto una certa scelta di vita, che ha adottato uno stile di vita.
Pierre Hadot intende dimostrare che la filosofia coincide con la vita di un uomo cosciente di se stesso, che corregge incessantemente il suo pensiero e la sua azione, consapevole della propria appartenenza all'umanità e al mondo. 
Per troppo tempo considerata il regno della chiacchiera, delle parole, un lusso lontano dalle preoccupazioni della vita quotidiana, dalla gravosa realtà di giorni difficili, la filosofia, nel discorso di Hadot, assume la fisionomia di una cosa sacra, imprescindibile, proprio in quanto legata alla vita stessa. La filosofia è l'arte di vivere da uomo, è la capacità di rapportarsi al mondo con la responsabilità propria di chi sa riconoscere in sé e nell'altro la dignità umana. E questa è una lezione che viene dagli antichi. Non è il frutto di architetture mentali complesse, è il risultato dell'esperienza. Socrate è un uomo della strada. Parla con tutti, va in giro per i mercati. Egli osserva e discute. Non pretende di sapere. Non dà risposte. Interroga soltanto; e coloro che sono interrogati si interrogano a loro volta su se stessi. Si rimettono in discussione. Tutto questo accade solo grazie alla forza del dialogo.
E' questa l'essenza della filosofia. Scoprirsi uomini nella parola che avvicina, riduce le distanze, favorisce incontri.
In questo senso, la filosofia appare non più come una costruzione teorica di cattedrali di idee, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l'uomo.
Appunto, si tratta di un esercizio spirituale. Vuol dire imparare a rovesciare i valori riconosciuti come tradizionalmente vincenti. E' la rinuncia consapevole e matura ai falsi valori, alle ricchezze, agli onori, ai piaceri, per volgersi ai veri valori - la virtù, la vita semplice, la semplice felicità di esistere, il colloquio con gli antichi, la rilettura del passato e dei suoi insegnamenti, la capacità di porsi domande, la rivalutazione dei piccoli piaceri spirituali che ci liberano dalle ossessioni dei beni materiali.
Scriveva Petrarca (Canzoniere, VII):
La gola, e ’l sonno, e l’oziose piume
hanno del mondo ogni virtù sbandita,
ond’è dal corso suo quasi smarrita
nostra natura vinta dal costume;
ed è sì spento ogni benigno lume
del ciel, per cui s’informa umana vita;
che per cosa mirabile s’addita
chi vuol far d’Elicona nascer fiume.
Qual vaghezza di Lauro? qual di Mirto?
Povera, e nuda vai, Filosofia,
dice la turba al vil guadagno intesa.
Pochi compagni avrai per l’altra via;
tanto ti prego più, gentile spirto,
non lassar la magnanima tua impresa.
Quello che per Petrarca è un compianto, in Hadot diventa esortazione. Se il poeta aretino concepisce la filosofia come una magnanima impresa per spiriti gentili, Hadot, invece, propone l'immagine della filosofia come sostegno spirituale per l'azione, uno sforzo comune per diventare umani, un impegno responsabile per non farsi sopraffare dalle passioni politiche, dalle ire, dai rancori, dai pregiudizi. Insomma non si tratta del privilegio intellettuale per pochi, ma di un'azione collettiva, di un'occupazione che riguarda tutti. Non esiste il pensatore solitario, ma un'umanità intera volta verso la costruzione di un mondo migliore.
Qual è, allora, la chiave d'accesso alla felicità? Circoscrivere il presente,  liberarlo dalle catene del rimpianto e della speranza, dalle inquietudini e dalle preoccupazioni inutili.
La felicità consiste nel ritorno all'essenziale, a ciò che è veramente "noi stessi", a ciò che dipende da noi. E la filosofia sa spiegarlo.