Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 10 aprile 2018

PAROLE DISARMATE

Parole disarmate (Edizioni del Rosone, Foggia) è un libro coraggioso, perché dice la verità sull'uso che noi facciamo delle parole. Gli autori, Andrea Prandin (consulente pedagogico e formatore) e Antonia Chiara Scardicchio (ricercatrice in Pedagogia sperimentale), spiegano che  noi viviamo nell'illusione di scegliere le parole e, invece, sono le parole che scelgono noi: hanno un potere rivelativo e dicono molto sul nostro modo di essere, ci definiscono nel nostro rapporto con noi stessi, con il mondo, con gli altri. Sosteneva, infatti, Wittgenstein che le parole sono come la pellicola superficiale su un'acqua profonda.
La parola ha una natura duplice, è sempre in bilico tra potenza e impotenza. Da un lato è l'espressione della grandezza umana, è il λóγος che vince il caos, è la forza in cui si è riconosciuto il sistema di pensiero occidentale da Socrate a Hegel, è la quidditas che distingue l'uomo dall'animale.
Eppure questa forza può facilmente slittare nell'arroganza, quella di chi pretende, appunto, di avere sempre "l'ultima parola". Le parole possono addirittura  trasformarsi in vere e proprie armi che feriscono. E il modo in cui noi le usiamo è la spia che fa emergere le nostre intenzioni, il nostro volto più autentico.
D'altra parte, le parole possono esprimere anche la nostra fragilità: spesso ci mancano, vengono meno, non le troviamo. E non è per colpa di un lessico povero o di ignoranza, ma, piuttosto, della difficoltà di costringere entro gli angusti limiti del λóγος, il magma di emozioni che si agitano nel nostro cuore. Così sperimentiamo la debolezza del presunto potere definitorio della parola: un problema ben chiaro a Montale, quando scriveva non chiederci la parola che squadri da ogni lato/
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari.
Dalla lettura di Parole disarmate si esce arricchiti di una consapevolezza nuova: le parole - scrive A.C. Scardicchio - sono povere e potenti, sono il confine sempre mobile tra potenza e percezione di incisione.
Riflettere sul valore della parola nel mondo contemporaneo è un atto quasi doveroso. In tempi di deliberata e strumentale manomissione delle parole - per usare un'espressione di G. Carofiglio, peraltro citato nella ricca bibliografia cui fanno riferimento gli autori di questo saggio - anzi, in un'epoca di vera e propria espulsione della parola, costretta a competere con forme di comunicazione digitale e di scambio virtuale, spesso affidato a emoticon e sms, risulta senza dubbio incisivo il monito di A. Prandin di restituire alla lingua il potere generativo dei significati e di sperimentare, così, logiche inesplorate, dando voce a ciò che è represso, inesprimibile o forse ancora sconosciuto. Si tratta di un inesauribile lavoro di ricerca che ha un intento pragmatico: aprire possibilità, innescare possibili fili di comunicazione. Le parole prive di ricerca sono parole sterili: inutili nelle relazioni, inutili nell'educazione, inutili nella cura. E il frutto della ricerca sono, per Prandin, i neologismi sincretici  che per certi aspetti e in modo originale richiamano alla mente i binomi fantastici inventati da Gianni Rodari, parole liberate dagli schemi usuranti delle ordinarie catene verbali e accostate in modo surreale, giocoso e molto, davvero molto, rivelativo. 
Parole disarmate lancia un messaggio di alto valore morale: organizzare la Resistenza della parola detta, pronunciata, "parlata", accompagnata dalla fisicità di chi la usa: gesti, sguardi, voce, tono, corposità vissuta. La Resistenza della parola contro la non-parola del digitale.
Emerge, infine, da questo libro un preciso dato: la deriva della parola sta producendo rischi enormi, facilmente riconoscibili.
- La pretesa di dare alle parole il potere dell'esattezza oggettiva: oggi le parole vengono rese salde da test, griglie, misurazioni, quantofrenia. Si tratta di una patologia ben presente, per esempio, nel mondo della scuolaE, invece, deve essere chiaro che ingabbiare le parole è il primo passo verso la censura.
- L'ambiguità ideologica del linguaggio politico: orwellianamente vengono chiamate "missioni di pace" vere e proprie spedizioni di guerra o si definisce apoditticamente "Buona Scuola" una legge che, a ben guardare, è stata la causa del peggioramento repressivo di ogni libertà d'insegnamento e di qualsivoglia spirito critico negli apprendimenti.
- La paura della polisemia e della Babele linguistica, l'illusione della reductio ad unum dei significati come sinonimo di stabilità e di sicurezza. L'uomo - scrive A.C. Scardicchio - ha sempre cercato di estinguere la parte di sé umbratile. Il suo sforzo è sempre stato quello di aspirare alla costruzione di un discorso ordinato. E, invece, il più chiaro e ordinato dei discorsi, sebbene rassicurante, può diventare la più pericolosa delle illusioni. Pensare che dire equivalga a conoscere e parlare a sapere (...) impedisce al parlante di vedersi mentre parla, impedisce alle parole di farsi osservare per quello che sono: parole, solo parole.
Eppure noi viviamo di parole, con le parole, grazie alle parole e dal loro uso dipende la qualità della nostra vita associata: come chiarisce anche G. Zabrebelsky, il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quindi, più parole, più democrazia; più parole, più confronto; più parole, più umanità. Però a far da guida ai nostri discorsi deve essere - suggeriscono gli autori del saggio - la consapevolezza costante della potenza e della fragilità delle parole.
Proprio perché sopravvivano la democrazia, il confronto e l'umanità occorre, dunque, DISARMARE le parole. Trovare un equilibrio possibile tra potenza e fragilità è un'impresa nobile: "spuntare" le parole per disarmarle e renderle un fecondo terreno di incontro significa non "puntarle" mai come armi contro l'altro.       
Loro, le parole, sono tutto quello che possiamo. E, contemporaneamente, tutto quello che non possiamo, nota A. C. Scardicchio. Sceglierle bene vuol dire impegnarsi a costruire un mondo migliore, intervallandole, semmai, talvolta, con opportuni silenzi, necessari a placare le emozioni negative e a lasciar emergere quelle positive. Lasciare che siano le parole a scegliere noi significa salvaguardare la profonda autenticità del nostro dire, la genuinità delle nostre emozioni, abbassare la soglia delle mediazioni.
Parole disarmate è un libro che insegna a liberare le parole dalle loro incrostazioni e pietrificazioni abitudinarie che si insinuano nelle mode linguistiche, negli stereotipi, nelle convenzioni.
Gli autori consigliano un lavoro di lento disapprendimento che consiste nello scardinare i presupposti delle nostre parole storiche per mutarle, per evitare il sempre-detto e il sempre-detto-così. Forse bisogna lasciar spazio alla fantasia, che, come ricordava Rodari, ha una sua grammatica, diversa, però, dagli schemi convenzionali: è libertà.
Imparare a disfare le parole, innescare processi di tras/de-formazione delle parole, giocare con i significati per scoprire nuove letture del mondo è un processo che comincia da bambini.
Può sembrare un esercizio difficile, invece è un'avventura in cui è in gioco il nostro modo di stare tra gli uomini e di coltivare la nostra umanità: dum inter homines sumus, colamus humanitatem (Seneca)

domenica 1 aprile 2018

REALISMO CAPITALISTA


Mark Fisher inizia il suo libro, Realismo capitalista, con un capitolo dal titolo emblematico e riassuntivo della sua tesi di fondo: È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
Di capitalismo la nostra società è intrisa. E il fatto che il tachteriano modello T.I.N.A. (There Is No Alternative) sia considerato a tal punto radicato da abbattere ogni possibilità di immaginare mondi diversi, ha fatto sì che il Capitale sia diventato sinonimo esclusivo della realtà. Il realismo capitalista è intriso di luoghi comuni che ne traducono l’immodificabilità: certo, la nostra democrazia non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. E inoculare il germe del male minore genera la pandemia della rassegnazione all’esistente come unica e sola realtà.
Fisher va oltre: analizza i mali gravi a cui si accompagna il realismo capitalista. Sono tutti riconoscibilissimi.
a)      Desacralizzazione della cultura, considerata inutile, perché non produce utili.
b)      Smantellamento delle tutele del diritto del lavoro.
c)       Inconsapevole cooperazione di ognuno di noi, voraci consumatori, alla impersonale iperastratta struttura del Capitale.
d)      Crescita esponenziale dei casi di depressione e ansia; Fisher ne è una vittima (è morto suicida il 14 gennaio 2017, a quarantotto anni). Il Capitalismo tende a scaricare sui singoli il problema della malattia (fenomeno della privatizzazione dello stress), riducendo i sintomi da stress a una questione di emotività incontrollata, di disagio personale, di problemi chimico-biologici individuali, alla percezione di sé come falliti e incapaci di inserirsi nella struggle for life, insomma, buoni a nulla. Invece, osserva Fisher, il dato è lampante: tante persone, anche giovani, malate e depresse sono un vantaggio enorme per il capitalismo: atomizza la società (controllare delle monadi isolate è più facile che render conto a masse organizzate e consapevoli) e crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti.
e)      Elaborazione ingegneristica di una macchina “triturauomini” capace di degradare in maniera irrimediabile la dignità umana: la burocrazia. Verticismo, inefficienza generalizzata, sclerosi istituzionale sono gli ingredienti di questo meccanismo che schiaccia i cittadini riducendoli a meri ingranaggi di un sistema asfissiante e labirintico.
f)       Ideazione e programmazione di un laboratorio in cui testare le riforme neoliberistiche: una scuola sempre più piegata a imperativi di mercato, i cosiddetti target da raggiungere. Questo modello di scuola è così rappresentato da Fisher: un luogo popolato da studenti persi in un’inerzia edonistica, annoiati e sempre troppo connessi per poter prestare attenzione alle lezioni, prede di qualcosa di più che una semplice demotivazione. I giovani sono affetti da una sempre crescente incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché, dipendenza da flusso digitale continuo, stordimento. Non migliore è il ritratto degli insegnanti: intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori che assicurino il più alto numero di promozioni, e quello di disciplinatori autoritari, nel momento stesso in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi, cosa che, naturalmente, toglie loro ogni credibilità. Peggio: mentre le famiglie cedono alle pressioni di un capitalismo che obbliga entrambi i genitori a lavorare, agli insegnanti viene chiesto di comportarsi come surrogati dell’istituzione familiare.
g)      Costruzione del nuovo dogma di controllo delle coscienze: be smart! La nuova pretesa delle aziende asservite al Capitale è che i lavoratori profondano un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo: ciò che si vuole è un contributo affettivo che moltiplichi i risultati. Sistemi di valutazione interni ed esterni monitorano l’efficienza delle prestazioni lavorative. Tuttavia non sempre tutto si può calcolare: una buona didattica, ad esempio, come si misura? Insomma, la metastasi burocratica dello spettro valutativo fagocita gli obiettivi culturali cui la scuola dovrebbe mirare.
h)      Strettamente connessa al punto precedente è l’aleggiante presenza di una struttura simbolica supercollettiva da tutti presupposta e da nessuno conosciuta: il Grande Altro che non si può incontrare direttamente, inarrivabile come la massima autorità dell'assurdo caso di Josef K. nel Processo di Kafka. Direttive, norme, leggi farraginose e volutamente ambigue sono il magma entro il quale le certezze si disperdono e trionfano l'insicurezza, il senso di colpa, la percezione dell'errore perenne e dell'incombente sanzione, al punto che i soggetti introiettano l’apparato di controllo comportandosi come se fossero perennemente sotto osservazione. E alla fine ad essere valutata non sarà la competenza professionale, la bravura, insomma, del lavoratore, ma solo la sua diligenza burocratica. In assenza di certezze, spesso l’obiettivo a cui puntano i dirigenti – confusi esattamente come i loro dipendenti – non è tanto lavorare di più, ma lavorare in maniera più smart. Chi davvero potrebbe mai essere in grado di definire il Grande Altro? Aziende, banche, centri finanziari, il centro imprenditoriale degli interessi politici, l’intera macchina governativa: chi è il Grande Altro? Intuiamo che dietro i grossi interessi che sembrano guidare le nostre vite ci sia qualcosa, qualcuno, ma definire tale potere occulto non è impresa possibile. È chiaro che il principio generativo di questo stato di cose, la massima causa, non è un soggetto, ma una struttura impersonale: il Capitale.
i)        Accettazione incondizionata di tutto ciò che è nuovo,  conseguente rottamazione del passato, riduzione della memoria a mero fattore formale. Si pensi alla proliferazione di rituali dedicati al ricordo celebrativo e commemorativo di eventi nell’ottica esclusiva della loro commercializzazione. Viene meno completamente il calibro della sostanzialità storica: si pensi alla Giornate della memoria oggi spogliata di effettiva consistenza documentaria e ridotta al fenomeno della pop shoah..
j)        Nascita dell’idea di uno Stato-balia che vive sulle ceneri dell’idea di democrazia: si tratta di uno Stato che si manifesta nelle sempre più pressanti funzioni militari e di polizia e nelle sue pseudosoluzioni assistenziali per cittadini di fatto messi nelle condizioni di non poter progettare autonomamente la propria vita. Dell’idea di Stato resta solo il potere di controllo, ma non l’essenza di una democratica partecipazione, spesso, quest’ultima, ridotta semplicemente alla disintermediazione tecnologica, mero simulacro di libertà.
Fisher conclude il suo saggio con una definizione precisa e amara del nostro tempo, la lunga e tenebrosa notte della storia. Tuttavia non chiude il cuore alla speranza, quella che a lui purtroppo è mancata: opportunità, barlume di una anche piccola possibile alternativa politica ed economica, urgenza di ritagliare un buco nella grigia cortina del presente sono espressioni che suggeriscono la spinta a una reazione.
Pochi, ma lapidari sono i suggerimenti: ridurre la burocrazia, restituire garanzie, diritti e dignità al lavoro, ricostruire nuove forme di lotta e di protesta, erodere dall’interno gli ingranaggi dell’automonitoraggio e dell’ossessione autovalutativa cioè liberare i servizi pubblici dall’ontologia aziendale: se nemmeno le aziende riescono ad essere gestite come aziende, perché mai dovrebbero farlo i pubblici servizi?
Si tratta di avere a cuore l’umanità. Seneca in latino diceva: dum inter homines sumus, colamus humanitatem. Bisogna avere il coraggio di restare umani. E CORaggio non significa forza, la sua radice etimologica è CUORE. Il compito è sforzarsi di trovarlo, in un momento in cui il coraggio è confuso con l’audacia, la competizione, la prepotenza, la sopraffazione, la logica del vincente a tutti i costi, l’egotica autoaffermazione anche al prezzo della cannibalizzazione del prossimo.