Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 18 aprile 2017

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO/ PERLE AI PORCI

Che cosa può mai unire Il sogno di un uomo ridicolo (1877) di Dostoevskij e Perle ai porci (1965) di Vonnegut?
A un primo sguardo nulla. Si tratta di due opere nate in  momenti storici diversi, scritte da autori che davvero non hanno niente in comune. Accostare questi due scritti sembrerebbe una forzatura.
Diverso è lo stile: accorato e visionario il racconto di Dostoevskij, ironico e paradossale il breve romanzo di Vonnegut.
Diversi sono i protagonisti: il personaggio dostoevskijano si autodefinisce un uomo semplicemente ridicolo e il lettore non conosce nessun aspetto della sua vita; invece di Eliot Rosewater si sa che è l’erede di un enorme patrimonio e che tutti, a cominciare dal padre, lo ritengono incapace di intendere e di volere. Egli, pertanto, viene giudicato inabile ad amministrare l’incommensurabile ricchezza di cui è titolare.
Certamente diverse sono le ambientazioni delle due vicende: un novembre cupo e piovoso fa da sfondo alle strade probabilmente pietroburghesi, forse le stesse del sognatore delle Notti bianche, e gli spazi intergalattici lontani dalla Terra e vicini alla stella Sirio, costituiscono lo scenario in cui l’uomo ridicolo ha la visione di un Eden che è l’esatta inversione delle dinamiche esistenziali terrene.
Perle ai porci, invece, si svolge in una piccola città dell’Indiana, da cui ha avuto origine la fortuna dei Rosewater. 
La città dei Rosewater, che da loro prende il nome, è il centro dell’azione di Eliot, stravagante presidente della Fondazione Rosewater, un uomo completamente in antitesi con l’individualismo americano, incarnato dal padre, il senatore Rosewater, fedele cultore del “Sistema della Libera Impresa”, quello in cui i veri nuotatori restano a galla, mentre quelli che vanno a fondo si sistemano da sé. Amen!
Eppure, nonostante questa evidente lontananza, i due scritti hanno molto in comune.
Cominciamo dai protagonisti: sono pazzi.
Nell’incipit del racconto dostoevskijano l’uomo ridicolo si presenta: Sono un uomo ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo.

Su Eliot Rosewater non ci sono affatto dubbi: la scena finale si svolge in una clinica psichiatrica.
Perché, a distanza di circa un secolo, Dostoeevskij e Vonnegut danno voce a personaggi pazzi? La risposta è semplice: come già Erasmo da Rotterdam chiariva a suo tempo, la follia è solo il modo di vedere le cose da una diversa prospettiva. I personaggi delle due opere in esame sono “diversi”: il loro modo di vedere il mondo e la realtà “diverge” dal senso comune.

L’uomo ridicolo, per quanto creda di essere completamente anestetizzato ai sentimenti, sebbene sia convinto che ormai nulla al mondo abbia importanza, al punto che niente sembra poterlo trattenere dal proposito del suicidio, improvvisamente è richiamato alla vita dal pianto disperato di una bambina. Lui prima la allontana da sé, poi, tornato a casa, ripensando a quella bambina prova un inusuale senso di pietà che lo distoglie dal suo progetto autodistruttivo.
L’uomo ridicolo capisce, allora, che qualcosa nella sua coscienza si muove e forse resta un sottile filo che lo lega al mondo e probabilmente proprio in quel mondo c’è ancora un posto per lui. Improvvisamente fa un sogno: si immagina morto, trasportato da un ignoto compagno di viaggio lontano dalla Terra. Insieme giungono in un regno felice,  incontaminato, fondato sull’amore fino all’arrivo dell’uomo ridicolo che contagia quell’Eden: a causa sua si diffondono la menzogna, la prepotenza, le discordie e le contese. Schiacciato dal senso di colpa egli vorrebbe uccidersi, ma nessuno lo capisce, tutti lo scambiano per un folle: in fondo quella gente ha ricevuto da lui solo ciò che desiderava, quella dose di egoismo che è diventato il presupposto, il motore dell’esistenza.
Al risveglio l’uomo ridicolo ha una certezza: ha conosciuto la Verità e vuole realizzarla, ha capito che tutto dipende da noi, dai nostri comportamenti. Sceglie di vivere, si rifiuta di credere che il male per gli uomini sia la normalità e decide, perciò, di far rinascere l’Eden che ha sperimentato, vuole restituire senso e vigore a una verità scomoda e sottovalutata: ama il prossimo tuo come te stesso. E diventa felice. Questo gli ha insegnato la bambina disperata: in noi c'è la compassione e, quindi, è possibile un’umanità diversa e la chiave di volta consiste nella capacità di amare e di distinguersi dai più in virtù della propria apertura all’amore.

Con una maggiore concretezza e prendendo le distanze dal sogno visionario dell’uomo ridicolo, Vonnegut racconta una storia simile.

Eliot si presenta definendosi molto vicino all’Amleto di Shakespeare, anzi si sente peggio di Amleto: è confuso più di lui. Amleto aveva almeno lo spettro del padre a suggerirgli cosa fare. Eliot sa di avere una missione importante da compiere, ma non ha un libretto di istruzioni da consultare! C’è una cosa che, però, lo disgusta con certezza: il fatto che il governo avrebbe dovuto dividere equamente le ricchezze del paese, invece di permettere che certa gente avesse più del necessario, mentre altri non avevano niente. È esattamente la stessa cosa che denunciava l’uomo ridicolo: nell’Eden contagiato dalla sua misera umanità,  ciò che fa degenerare l’armonia in caos è la lotta per la divisione, per il mio e il tuo, la divinizzazione del proprio infinito desiderio.
E come l’uomo ridicolo prende una decisione coraggiosa – decide di continuare a vivere per farsi testimone della legge dell’amore e dare in questa maniera il proprio contributo al mondo– così Eliot Rosewater attua un progetto eroico, dona tutti i sui averi ai bisognosi: voglio amare questi americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte. E non dona solo soldi, Eliot offre qualcosa di ancora più prezioso dei soldi: il suo tempo, la sua capacità di ascolto, la sua umanità. E quando il cinico avvocato  Norman Mushari cerca di farlo interdire per trasferire il controllo della Fondazione Rosewater ad un altro ramo della famiglia, con la speranza di trarre profitti dall’affare, prontamente Eliot reagisce con una trovata geniale e infinitamente generosa, scegliendo, invece, per sé, la via dell’essenzialità: Aveva una camicia sola. Aveva un vestito solo. Aveva un solo paio di scarpe.
Eliot è malato di utopia? Ama il prossimo tuo è una vecchia verità che non ha messo radici, come nota l’uomo ridicolo?
Forse. Certo è, però, che i protagonisti de due scritti appaiono pazzi, ma sono felici: in una società travolta dagli odi e dagli egoismi, loro scoprono la gioia, la gioia del donare se stessi, il proprio amore, i propri averi e questo li avvicina, nonostante gli anni di distanza.

Sì, niente uguaglia la gioia di donare

a coloro che sono più poveri,
e gaiamente, con liete mani
spargere ovunque i bei doni.

Sì, nessuna rosa è più bella
del volto dei beneficati,
quando ricolme, o gioia immensa,
si abbassano le loro mani.

Sì, nulla rende così sereno
dell’aiuto per tutti gli altri!
Se non rinuncio a quello che possiedo
nessuna gioia potrà darmi.
(Bertolt Brecht, Sulla gioia del dare, “Poesia e canzoni dalle opere teatrali”, in “Poesie”, Einaudi, 2014


RAYUELA. IL GIOCO DEL MONDO

Dicono che somigli all’Ulisse di Joyce. Invece Rayuela ha pathos. Leopold Bloom si perde nei meandri e nei labirinti della sua psiche, vaga nella sua Dublino, così come erra nel cerebralismo dei suoi pensieri. Horacio Oliveira, invece, ama, soffre, si interroga, dialoga, e parla al lettore. Joyce fa conto che non esista un lettore e costruisce un personaggio che vive solo del dettato automatico della sua psiche.
Cortázar plasma Oliveira dandogli un’anima pulsante. Noi lo capiamo quando dice: finisco sempre coll’alludere al centro senza la minima garanzia di sapere quel che dico, cedo al facile tranello della geometria con cui si pretende di far ordine nella nostra vita.
Cortázar comunica al lettore lo smarrimento umano del suo personaggio e il lettore sente l’incertezza di Oliveira, la vive con lui e la riconosce come sua.
Cercare un centro, avvertire l’insufficienza del Logos (pensiero e parola) nella storia è ciò che inchioda Oliveira al suo male di vivere: quel che non mi va giù è la mania delle spiegazioni, il Logos inteso esclusivamente come verbo. Intellettuale e amante, in entrambi i casi è imperfetto e incompiuto.
Cercare un centro, aspirare alla conquista di un’identità, tendere all’assoluto, forse, significa perdersi e smarrire per sempre anche il senso della bellezza. Quando la sua donna, detta la Maga, gli chiede che cos’è l’assoluto? Horacio le risponde che è il momento in cui qualcosa raggiunge il massimo della sua profondità, il massimo della sua portata, il massimo del suo significato, e smette completamente di essere interessante.
Oliveira avverte il peso di vivere in un mondo in cui si è sempre meno uomini, legati alle etichette di una società che definisce e che, definendo, svilisce. La società riduce la libertà a un gioco estetico o morale, la vita a una scacchiera in cui sei alfiere o cavallo. Questa è la libertà che si insegna nelle scuole, esattamente nelle scuole dove mai si è insegnato e mai s’insegnerà ai bambini il primo tempo di un ragtime e la prima frase di un blues… Emerge il rimpianto per la "vita", che non si situa mai nelle geometrie razionali; è forte il desiderio di terra, di cose vive. E le cose vive si vivono, non si indagano, non si esaminano. Non bisogna togliere loro il mistero che le anima. Anche nell’amore è così: c’è un gioco di nomi, in Rayuela, che lo chiarisce. La donna di Oliveira si chiama Lucia, ma vuole essere chiamata la Maga. Lucia evoca la luce: far troppa luce sulla realtà significa toglierle il mistero. L’uomo, con il suo Logos, di questo è colpevole: ha tolto l’incanto e la magia alle cose. Questo scontro di prospettive si chiarisce in un dialogo tra Horacio e la Maga che riflettono sui loro incontri senza appuntamento tra i labirinti delle strade di Parigi. Horacio  si abbandona all’analisi delle probabilità, la Maga alla bellezza del fato. E alla domanda di Oliveira: e se non ti avessi incontrato? prontamente la Maga risponde con un non so, comunque sei qui. Quello che conta è l’attimo di bellezza che rivela il volto dozzinale degli strumenti logici, degli interrogativi, dei perché e dei se.
Rayuela ha un sottotitolo emblematico: Il gioco del mondo. Non si può incasellare l’esistenza in uno schema precostituito fatto di convenzioni o di formule dal potere definitorio. Bisogna saper preservare la sua natura di “gioco”, di avventura, la sua irriducibilità a gabbie e regole che finirebbero solo con l’incapsularla in un grigio susseguirsi di giorni. Forse un centro non c’è. È perdente, quindi, la fatica di ridurre la vita e la realtà in termini di metodo. Perciò è nostro il grido di Horacio che chiede alla Maga, la implora: lasciami vedere un giorno come vedono i tuoi occhi.
La struttura del romanzo è sperimentale, è personale. L’autore stesso ne parla all’inizio dell’opera. Ma non è questo l’aspetto più alto del romanzo, ne è solo l’aspetto più insolito. Su tutto aleggia un senso di confuso smarrimento e di profonda solitudine: in fondo non esiste otherness … la vera alterià non poteva realizzarsi con un solo termine, alla mano tesa doveva corrispondere un’altra mano da fuori, dall’altro.

La vita mette alla prova: sospetti, dolori, incomprensioni soffocano i sentimenti, indeboliscono i desideri. Restano i ricordi e la certezza di incolmabili distanze, mancanze.