Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

sabato 23 luglio 2016

L'immoralista

ANDRÈ GIDE
L'immoralista

L’immoralista è Michel, un uomo, un  intellettuale, dimidiato interiormente,  tra anima e corpo, spirito e sensi. Michel racconta in prima persona ad alcuni amici l’infelice storia del suo matrimonio. Sposa Marceline senza amarla, si sforza di essere un buon marito, è spiazzato dalla gentilezza di lei, che lo cura con abnegazione e devozione quando si ammala di tubercolosi. La malattia, è, però, per Michel un risveglio: fino ad allora mi ero lasciato vivere, afferma il protagonista, quasi “aggredito” dalla vita e dal suo sapore. Il suo passato di filologo, trascorso fra carte e fatto di cerebralismi, gli appare ora come una morte, un’esistenza inautentica: sì, i miei sensi risvegliati, scoprivano una loro storia … Vivevano! … Mi affidai con voluttà a me stesso, alle cose, al tutto, che mi apparve divino.
Nelle scoperte di Michel, nella sua sensualità panica c’è l’eco di D’Annunzio e c’è l’amor fati di Nietzsche: ero guidato da una fatalità esaltante. È forte la presa di coscienza, dopo la guarigione: da quel momento fu lui che io volli scoprire: l’essere autentico, il “vecchio uomo” in noi, quello che il Vangelo aveva rifiutato. Michel rifiuta la morale cristiana quella che Nietzsche chiama la morale dei deboli, quella della sottomissione, della sofferenza, del senso di colpa.  La vita piatta e programmata del passato lascia ora il posto al caos e alle delizie di una nuova felicità, nonostante la certezza di abbandonare a un destino di infelicità e di morte Marceline.
Marceline perde un bambino, si ammala di tubercolosi e il marito, fingendo di voler ripercorrere con lei le tappe del loro viaggio di nozze in Tunisia, la porta dalla Svizzera a Tunisi, verso un sud assolato e verso un clima umido a causa del quale, ovviamente, Marceline si aggrava fino a morire tra fiotti di sangue.
Con Marceline se ne va quella parte di Michel che è sottomissione alle convenzioni ipocrite della società dei benpensanti, la maschera. Libero dalla schiavitù delle forme sociali Michel potrà dare sfogo alle sue fantasie sessuali, alle sue brame per i ragazzi tunisini, alle voglie dei suoi sensi affamati di vita e di piacere.
È illuminante il dialogo con l’amico Ménalque, il quale gli rivela una verità profonda: i più pensano di poter ottenere qualcosa di buono da se stessi solo con la costrizione; si accettano solo contraffatti. Ognuno desidera assomigliare il meno possibile a se stesso; ognuno si costruisce un modello poi lo imita; accetta addirittura un modello già scelto. Si dovrebbero cercare altre cose nell’uomo, io credo. Ma non si osa farlo. Non si osa voltare pagina. Io le chiamo leggi dell’imitazione, leggi della paura. Hanno paura di essere soli e così non si trovano mai. (…) Quello che sentiamo in noi di diverso, è la cosa più preziosa, quella che determina il valore di ciascuno, eppure si cerca di sopprimerla. Si ricorre all’imitazione, pretendendo così di amare la vita. Quella di Ménalque vuole essere un’esortazione a vivere in modo autentico, senza mentire a se stessi: bisogna scegliere, l’importante è sapere ciò che si vuole.
La morte di Marceline resta, però, lo spettro della scelta di Michel. Si fa strada un dubbio atroce che Gide non risolve: può il diritto dell’ego spingersi al punto da arrecare danno a chi si ama?
Nella mente di Michel, alla fine del romanzo riecheggiano le parole di Cristo a Pietro, che Michel ha letto casualmente tra le pagine della Bibbia, una notte, non riuscendo a dormire e non sapendo che fare; ne ricorda solo una parte: “Adesso tu ti cingi da solo e vai dove vuoi andare …”. Michel si chiede: dove vado? Dove voglio andare? Nel ricordo della frase biblica Michel ha omesso una parte. Le parole di Cristo che lui ha letto  quella notte insonne, chino al chiarore della luna continuavano così: “ … ma quando sarai vecchio, tenderai le mani … tenderai le mani …”. In segno di pietà, di perdono, di aiuto?
Arriva un momento, nella vita di ognuno, in cui la libertà tanto cercata prenderà il nome di solitudine; il dominio dell’ego e dei sensi cederà, e quella mani tese che non hanno raccolto nulla, attesteranno il bisogno di solidarietà, di attesa, aspetteranno di essere colmate, di essere prese da qualcuno.
Michel ha conosciuto l’aiuto, l’amore, ma non ha saputo darlo, ha concesso solo, nei momenti migliori, una tiepida gentilezza,  ha certamente inferto una terribile morte, non per odio verso la moglie, ma per troppo amore di sé, per cieco egoismo.
Gide non esprime giudizi, descrive un fatto, racconta una vita, dà voce a una ricerca interiore, a una conclusione che Ménalque sintetizza così: dei mille modi possibili di vita, ognuno di noi può conoscerne uno soltanto, certamente quello che sceglie; e non c’è spazio per rimpianti, seconde opzioni, passi indietro.
Scegliere totalmente se stessi significa, per Michel, abbattere l’esistenza dell’altro; fare della propria vita il terreno d’azione di una sfrenata libertà, dell’arbitrio assoluto, non ammette remore tardive o rimorsi irreparabili.

Resta, però, incancellabile, il timore degli spettri della coscienza: a volte temo che quello che io ho soppresso si vendichi. Aver rinunciato all’amore di una donna, all'affetto e al calore di una vita condivisa lascia un vuoto incolmabile, il baratro di una libertà senza frutto: sapersi liberare non è niente; il difficile è saper essere liberi.

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