Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

lunedì 4 luglio 2016

Il colore del vetro


FRANCESCO CARINGELLA
Il colore del vetro

Il colore del vetro è costruito sulle storie parallele del barese Maurizio Salinaro - un serio giudice penale detto Cristo per via della somiglianza con il Redentore di certi crocifissi lignei - e del lucano Nicola Morgese, un brillante Pubblico Ministero, tuttavia provato dalla vita, con un matrimonio fallito alle spalle. Il loro primo fulmineo incontro avviene durante le prove scritte di un concorso in magistratura che cambierà i loro destini. Tra vite complesse e amori difficili – Maurizio ha una relazione sospesa con Roberta e Nicola tenta una svolta sentimentale con Giovanna - i due si rivedranno in circostanze impreviste solo dopo dieci anni, durante i quali nelle loro esistenze, come in quelle di ogni uomo, scorrono gioie, dolori, speranze.



Interpretare un testo significa muoversi su un terreno accidentato. Interpretare  è come camminare inter petras, tra le pietre. Scegliere i sentieri giusti, però, consente di allargare gli orizzonti, di scoprire il mondo, di arricchire le prospettive.
La chiave di lettura de Il colore del vetro non è, certamente, univoca, perché i risvolti di significato e le interpretazioni di un libro sono infinite, tante quante sono i lettori, visto che sosteneva Alfieri -  leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare.

Il titolo scelto dall’autore si presenta suggestivo: Il colore del vetro allude al mutevole filtro cromatico del vetro attraverso il quale la realtà e la verità possono assumere diverse sfumature. La genesi del titolo si rintraccia in una frase di Duque de Rivas, un intellettuale del Romanticismo spagnolo:
In questo mondo traditore non c’è verità né menzogna.
Tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda. 



E, in effetti, la verità stessa sembra essere poliedrica.
Ma questa è un’acquisizione solo graduale da parte di Maurizio, l’alter ego letterario dell’autore.
Da un lato, infatti, emerge la convinzione del giudice protagonista, Maurizio, secondo cui la giustizia è frutto di regole ben precise: prima la colpa e poi la penala legge è uguale per tutti, un “intuitus personae” abbinato all’esatta conoscenza e ad un’esperta pratica del diritto, la capacità di decidere bene, ma anche di farlo presto. Decidere bene significa decidere presto: se la sentenza giunge in ritardo è già sbagliata.
Maurizio è convinto che esistano strade percorribili per poter giungere a punti fermi, a verità possibili: basta agire con metodo, sfuggire la fretta ed evitare lo spreco di minuti che proprio la fretta  porta con sé. (p. 134); l’importante è non girare a vuoto: se non si disperdono energie in movimenti e pensieri senza costrutto, c’è sempre modo di fare tutto. (p. 133). Rispetto per le norme, metodo e competenza sono fondamenti imprescindibili per il successo.
Nel contempo, però, si fa strada in Maurizio, progressivamente, la presa d’atto della complessità del reale e della problematicità delle scelte, delle decisioni, delle verità.
Perché - si chiese -  a un certo punto della vita, ciò che prima era così semplice diventa terribilmente complicato. Perché si perde la leggerezza? (p.174)
Le cose non erano bianche o nere, ma si coloravano di un grigio opaco che rendeva maledettamente difficile distinguere la verità dall’apparenza. (p. 164)
No, la verità non è mai come sembra, si convinse Maurizio. Cambia a seconda degli occhi con cui la si guarda. (166)
Mutano le prospettive e i punti di vista, si moltiplicano le possibilità e le spiegazioni: il confine tra vero e falso, giusto e ingiusto, bene e male diventa sempre più labile.
Risulta, quindi, quanto mai vera e appropriata la frase di Duque de Rivas, posta dall’autore in epigrafe al romanzo e ripresa a pagina 114: tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda. Non ci sono verità nette e definitive, ma solo prospettive e angolazioni opportune da cui guardare. Bisogna solo capire quale sia quella giusta.
Va notato che a Caringella non interessa il relativismo delle verità interscambiabili, frutto di mode postmoderne: quella condotta dall’autore  è un’obiettiva indagine sulla forza del dubbio come strumento di progresso intellettuale, come sprone verso mete sempre nuove e non, invece, come paralizzante scepsi.
Brecht scriveva Sia lode al dubbioMa pure ammoniva
Con coloro che non riflettono e mai dubitano
si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
per schivare la decisione. Le teste
le usano solo per scuoterle. (…)
La loro attività consiste nell’oscillare.
Il loro motto preferito è: l’istruttoria continua.
Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
I personaggi di Caringella, e in particolare il giudice Maurizio, non sono vittime di una pietrificante ipertrofia del dubbio. Maurizio riflette e sa tradurre in azione proficua ed efficace le sue esplorazioni interiori.
Un elemento significativo che caratterizza Il colore del vetro è il contrasto – già pirandelliano - tra “maschera” e vita interiore, quella forza che urge alle porte dell’animo e che rivendica dignità. La maschera è il ruolo che i soggetti si autoimpongono,  come  quello di Pubblico Ministero assunto da Nicola; la maschera è anche il ruolo pubblico  che viene, invece, attribuito dalla società, come quello di giudice responsabile rivestito da Maurizio. Ma accanto ai ruoli codificati si fanno strada, in modo dirompente, varie istanze interiori: mondo pulsionale, dimensione affettiva, desiderio di ritrovare se stessi. Per questo Maurizio si trasferisce da Milano nella sua città d’origine, Bari, ancora a misura d’uomo e non persa nel caos metropolitano che sopprime nella frenesia quotidiana ogni barlume di autenticità.
Ne consegue che l’identità dell’uomo sembra moltiplicarsi come i riflessi della luce che sfiorano la superficie del vetro: schiacciato da una realtà inappagante e costretto a recitare parti imposte dal copione dell’esistenza, l’individuo non è più in-dividuus, ancorato, cioè, ad un’identità in cui si riconosca. I protagonisti del romanzo sono oppressi da ruoli che li ingabbiano. Maurizio è il giudice onesto, garantista e convinto della buona fede dell’imputato fino a prova contraria, ma, tuttavia, sente il peso dei suoi verdetti da cui dipende il corso della vita altrui:  tutti, amici e colleghi lo chiamavano Cristo non solo per la somiglianza con il Salvatore ma anche per l’eccessiva sensibilità. Maurizio vive lacerato da molteplici contraddizioni: le sue certezze razionali si scontrano con inevitabili emozioni.
Perciò, se è vero che il processo non deve mai confondersi con una vicenda umana e ci vuole un sano distacco per essere sereni e, quindi, giusti (p. 91), è anche vero che nella storia di chi delinque ci sono povertà, ignoranza, cattivi esempi. Non si sceglie la strada della criminalità.(p. 89). Freddezza tecnica e umana compassione: i conflitti convivono nell’animo umano.
Nicola, poi, si presenta come un aitante Pubblico Ministero, ma dietro brillanti apparenze, un inquietante destino fa di lui un uomo “ombra”, un’immagine, cara a Caringella e utile a costruire intorno a Nicola un alone di mistero che rende problematica la sua personalità. Lo dimostra il brano a pagina 170.
Scorse un’ombra dileguarsi fulminea. Come se qualcuno, sorpreso dai suoi occhi, fosse arretrato bruscamente per non farsi vedere. Fu solo un  attimo. Giovanna cercò di convincersi che la sua fosse stata soltanto un’impressione. Forse il desiderio di vedere Nicola, tanto forte da farlo comparire dietro quella finestra. O il riflesso del sole sul vetro. O, più semplicemente, un attimo di stanchezza.
Quella di Nicola Morgese è una presenza? È un’assenza?
Subentra nella fanciulla il tentativo di autoconvincersi:
Era un’impressione. Solo un’impressione.
Ma non c’è alcuna spiegazione. Resta il dubbio: qual è la verità?

La dicotomia tra essere e apparire amplifica e arricchisce la sostanza tematica de Il colore del vetro.
In gioco non c’è solo il carattere multiprospettico della verità che deve scontrarsi con le interpretazioni e i conflitti interiori di chi la cerca. Gradualmente diventa preponderante la riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo, sospeso tra essere e dover essere, tra forma e vita, tra bisogno di ancoraggi e perenne ricerca, tra l’obbligo di approdare a verità – almeno processuali – e la costante erosione dell’animo a causa del dubbio.

La complessa materia del romanzo di Caringella prende corpo nella struttura del giallo giudiziario, di cui Il colore del vetro possiede tutti gli ingredienti: reati, processo, tormento interiore dell’errore giudiziario, indagini, tensione verso la ricerca della verità, suspance, shock finale.
La traccia fondamentale de Il colore del vetro è costituita dal tema dominante della ricerca della verità. La “quête” è un archetipo narrativo antico, addirittura di matrice epica. È una “quête” quella di Ulisse che cerca Itaca, quella dei cavalieri arturiani che cercano il Santo Graal, quella di Orlando – nel Furioso di Ariosto – che cerca Angelica e quella di Renzo – ne I Promessi Sposi – che cerca Lucia. A ben guardare, tutti questi eroi cercatori affrontano un viaggio metaforico e svolgono un percorso alla ricerca di se stessi. Anche Maurizio intraprende un cammino di formazione: la sua ricerca affannosa della verità è un banco di prova. Maurizio vuole dimostrare prima di tutto a se stesso che in questo mondo traditore, per usare le parole di Duque de Rivas, c’è ancora spazio per la giustizia, c’è ancora spazio per la verità.
Il colore del vetro ruota intorno all’accertamento delle circostanze di reati concatenati, tende alla raccolta di dati, indizi e prove, si fonda sulla ricerca dell’identità dell’autore di alcune rapine, visto che sulla colpevolezza di quello incriminato e condannato Maurizio nutre seri dubbi, corroborati da una fitta rette di incongruenze, aporie, superficialità procedimentali da parte, soprattutto, del commissario responsabile delle indagini. Resta forte nel magistrato il tormento dell’errore giudiziario, il senso di colpa di aver emesso un verdetto sbrigativo, drammi interiori che nascono da una presa d’atto di aver inchiodato il destino di un uomo ad “una” verità – la più facile, la più ovvia – senza però accertare fino in fondo “la” verità, che, a questo punto inizia un duello ideale con la sua vittima, Maurizio.
La verità lo guardava severa. Aveva la forma di quel soffitto che, con occhi freddi e labbra serrate, stava accendendo con una luce sinistra il buio pesto della notte. (p. 122)
La verità viene antropomorfizzata, assume le fattezze di un mostro umano, prende corpo in un freddo soffitto, tormenta l’uomo tutto d’un pezzo, quello con la toga dentro, lo guarda con occhi che gelano e labbra che non parlano, non aiutano, non suggeriscono. È questa la solitudine più profonda di chi capisce con terrore di aver guardato il processo con la lente sbagliata: la lente del pregiudizio.
Cristo si soffermò sulle rivoluzioni dell’animo umano: un’ora prima, in tribunale, era sicurissimo della colpevolezza dell’imputato più d’ogni cosa al mondo; dopo quindici minuti era salito sulla metropolitana già tormentato dal dubbio; ora stava per tornare all’aperto animato dalla certezza dell’errore. (p.114)
Il climax ascendente delle emozioni di Maurizio rivela il suo dramma interiore: il peso della sentenza (…), il senso di colpa (…).
Si tratta di un dolore morale che produce effetti anche fisici.
Maurizio era dominato da un’inquietudine impalpabile. Un nodo alla gola, un brivido freddo nelle ossa: era la raggelante ombra dell’errore giudiziario. (p.92)
Nella coscienza di Maurizio, allora, insegnamenti remoti dei suoi maestri, dei suoi modelli professionali e anche etici, l’esperienza, lo spettro di un tragico evento del passato – un disperato suicidio, forse evitabile - si intrecciano fino a diventare il motore, l’elemento propulsivo di una ricerca personale, di un’istanza morale - oltre che psicologica - di revisione e cambiamento, non solo di fatti processuali e di atti giudiziari, ma, soprattutto, di consistenza biografica.
Caringella lascia intendere che  l’abusato  brocardo in claris non fit interpretatio - tipico del linguaggio giuridico -  rispecchia un semplicistico atteggiamento liquidatorio nei confronti di accadimenti che non sono, affatto chiari, logici, lineari, ma, al contrario, si presentano multiformi, aggrovigliati, labirintici, come ben sapevano intellettuali del calibro di Borges, Gadda, Calvino, di cui, in particolare, aleggia lo spirito culturale.
Per questo è difficile ascrivere Il colore del vetro  solo al genere del giallo giudiziario, componente, certo, prevalente nella struttura dell’opera.
Il romanzo di Caringella è stratificato e soprattutto si arricchisce di autoinvestigazioni da parte di Maurizio e di Nicola, che fanno assumere a Il colore del vetro il profilo di un romanzo psicologico. L’esplorazione nei meandri emotivi, l’incessante insinuazione di necessari ed efficaci dubbi come stimoli costanti al cammino verso l’accertamento della verità, i ricordi che affiorano come spiegazione dei comportamenti del presente, il dramma di Maurizio dimidiato tra ineludibili responsabilità professionali e profonde esigenze affettive; le ambiguità comportamentali di Nicola, la sua frustrazione per l’insuccesso, il bisogno di una stabilità sentimentale che spera di concretizzare con Giovanna, l’equilibrio precario tra reticoli di bugie, menzogne, colpe, istanze di riscatto morale e personale: si tratta di indagini, certo, ma non processuali.
L’asse narrativo si muove, dunque, su un doppio binario: giallo giudiziario e romanzo psicologico. I fatti giudiziari, i crimini da esaminare, la ricerca del vero colpevole e la scarcerazione di quello presunto si intrecciano con le vite, le emozioni, le sofferenze, le speranze di Maurizio e Nicola.
Tutto nel romanzo di Caringella si rivela duplice: la verità processuale non è quella che appare, le vite dei due protagonisti non sono quelle che loro vorrebbero. Non è un caso, allora, che la struttura binaria sia uno schema compositivo iterato: due sono i protagonisti del romanzo e ogni capitolo è  una tranche de vie di ognuno; ciascuno di loro fa riferimento a due donne che hanno segnato la loro vita; due sono i profili che emergono di Nicola Morgese, sospeso tra rispettabilità apparente e inquietanti ombre morali; due sono, infine, gli incontri tra Maurizio e Nicola e che costituiscono la chiave di lettura del romanzo nella sua interezza.
Giallo giudiziario e romanzo psicologico si fondono, come pure i piani temporali che si dipanano tra un presente in precario equilibrio, polverizzato in emozioni contrastanti – insoddisfazione, frustrazione, speranza – e un passato pure percepito dai protagonisti come un groviglio di errori, rimpianti, rimorsi cui fa da contraltare il bisogno di porvi rimedio e di chiedere alla vita un’altra chance.
A questo punto i livelli tematici compresenti si moltiplicano.
Campeggia la dimensione della ricerca della verità che faccia luce sulla misteriosa identità del recidivo rapinatore dai tratti inconfondibili e dalle tecniche collaudate. Ne deriva un’ombra di forte sospetto sugli esiti del processo conclusosi con la condanna di un innocente e con un errore giudiziario da parte del collegio giudicante, composto anche da Maurizio. Se l’errore persistesse, Maurizio, il giudice onesto e coscienzioso, sarebbe dannato all’inferno in terra. Si mette in moto, allora, la macchina della ricerca, l’inseguimento della verità.
Non è affatto secondario, poi, il tema della solitudine e del vuoto esistenziale di uomini divorati dal lavoro, provati dalle insoddisfazioni, bisognosi di un altrove, alla ricerca di nuove possibilità di autorealizzazione.
Profonda è, poi, l’analisi condotta sulle relazioni interumane, sul loro spessore, sulla loro incidenza nella vita di ognuno, sul valore degli incontri.
L’amore – lascia intendere l’autore -  rafforza  e muove la vita, attribuendole un senso che altrimenti sfuggirebbe in modo angoscioso. Si spiega così il cospicuo numero di pagine dedicato da Caringella ai percorsi sentimentali di Maurizio e Roberta, di Nicola e Giovanna.
La complessita strutturale e tematica del testo di Caringella si incanala in un tessuto narrativo condotto con il brio e l’ironia che solo la “baresità” può consentire.
Il colore del vetro è scritto, infatti, all’insegna della “baresità”, quella sana, saggia capacità di burlarsi del mondo intero, senza prendere troppo sul serio la sua schiacciante assurdità: battuta facile, fare scherzoso, periodi agili ed efficaci, dialoghi immediati e comunicativi, incursioni di un dialetto icastico stemperano, a tratti, la serietà dei temi.
Esemplificativo è, a questo proposito, il brano relativo alla “debacle” della capacità seduttiva femminile nel corso di una lunga relazione coniugale.
A un certo punto, a metà strada tra Bari e Monopoli, più o meno all’altezza dello svincolo per Mola, Gianni aveva iniziato a parlare del matrimonio. Serio. Compunto. Un impegno importante da assumere con attenzione, un vincolo per la vita … mica uno scherzo. Poi, sempre con lo stesso tono grave, aveva cominciato a spiegare i cambiamenti che il matrimonio, anche il più felice, produce nel ménage di coppia. Cambiamenti, soprattutto per le mogli, rese diverse dal peso della responsabilità che assumono mettendo al mondo dei figli. Aveva puntualizzato, dopo una pausa strategica, che il tormento più grande che registra i mutamenti delle donne dopo le nozze è il pigiama. Dopo l’ennesima pausa aveva chiarito il concetto. Con tono sempre grave. Da fidanzata ti entra nel letto una tigre assetata di sesso, dalle movenze felpate e dallo sguardo feroce, fasciata da una vestaglietta stretta e corta, di pizzo trasparente, vedo e non vedo, che lascia balenare un perizoma nero da infarto. Dopo dieci giorni di matrimonio sparisce il perizoma, sostituito da una dignitosa mutandina di seta mentre la vestaglietta resta corta ma diventa meno trasparente: i movimenti sono già stanchi mentre lo sguardo è tra l’assente e l’annoiato. Dopo una mesata entra in scena una bella mutandona bianca modello Nonna Papera coperta alla vista da una vestaglia lunga e scura. Ancora qualche altra settimana ed ecco il segno della fine: esce dal bagno, dove si è preparata per la notte un essere di sesso incerto, dagli occhi spenti e dalle movenze claudicanti, che si perde in un pigiamone sovrastato dal faccione di uno dei sette nani: in genere Pisolo, giusto per ricordare che alla vecchia predatrice il letto, ormai, serve solo per dormire. Il pigiama antisesso, che fa passare ogni fantasia.

Il colore del vetro non nasce da un atto creativo improvvisato. Sono ben dichiarati, infatti, dall’autore i modelli di riferimento culturale e ideologico: Italo Calvino e Milan Kundera che nelle loro opere riproducono i tratti di un’esistenza umana labirintica e ingabbiante.
Anche il mondo descritto da Caringella è desertificato e senza ancoraggi: la certezza del diritto è vacillante e presenta nelle sue applicazioni ampi margini di errore; la cattedrale barese, offre solo un momentaneo sollievo a Maurizio stanco e desideroso solo di sedersi sulle scale di S. Nicola, non di cercare, invece, rifugio nella fede e nella preghiera; la famiglia di Nicola è disgregata e paralizzata da ricatti coniugali, figli contesi, verità nascoste e inaspettatamente emerse; l’amicizia non è eterna, la morte sottrae volti alla vita e li confina nei ricordi.
Si capisce, allora, che la “baresità” sottesa allo stile di Caringella non è affatto una vis comica fine a se stessa, ma nasconde un fondo di amarezza e evoca l’umorismo pirandelliano, quel sottile “sentimento del contrario”  - come amava definirlo Pirandello - che dietro il sorriso cela un dolore malinconico, non urlato, ma persistente; si tratta della capacità di vedere una cosa da prospettive diverse e di cogliere la duplicità di ogni dato: anche ciò che fa sorridere nasconde una sofferenza silenziosa.
Per poter suscitare allegria bisogna conoscere bene il suo contrario, la tristezza: solo così si riesce a esorcizzarla con un gesto, una battuta o anche solo uno sguardo. (p. 247)
Su tutto aleggia, poi, una imperscrutabile forza del destino, che catapulta il lettore verso un’inaspettata conclusione. È un implicito tributo al macromodello letterario di riferimento dei Caringella, lo spagnolo Duque de Rivas, che ha immortalato nella sua più nota opera, Don Álvaro o la fuerza del sino, l’energia distruttiva e travolgente di una fatalità incombente, fatta di incontrollabili circostanze contro cui il calcolo previsionale, la forza della ragione, la “virtù” machiavellica, possono ben poco e contro cui è inutile e vano opporre resistenza.
Nel labirintico naufragare dell’esperienza esistenziale gravata, peraltro, dalla inevitabile forza del destino sono possibili due atteggiamenti: la resa o la sfida al labirinto.
Kundera ha ben descritto la condizione di scacco e di disfatta nel romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere: il crollo dei fondamenti genera un’euforico senso di libertà dalle ideologie ingabbianti; tuttavia lascia all’uomo un forte senso di responsabilità e di solitudine che nasce dalla consapevolezza di non avere più alcun punto di riferimento, nessuna fede, nessuna consolazione: la leggerezza diventa, allora, un peso insostenibile, fatto di vuoto, vertigine, disorientamento. La sensazione di Maurizio che nelle serate trascorse a Milano con gli amici ci sia sempre una punta d’inutilità e che tutto avvenga senza un perché segna lo spaesamento dell’uomo contemporaneo. La percezione conclusiva provata da Nicola di aver vissuto una vita inutile, il dileguarsi di ogni sogno, di ogni speranza, la presa d’atto di un’incontrovertibilità assoluta, di un per sempre irrevocabile sono l’emblema di una generazione che ormai convive con un ospite inquietante  - per usare la nota espressione di Galimberti - che si chiama nichilismo.
Italo Calvino, invece, nota che perdersi nel labirinto e l’assenza di vie d’uscita sono, sì, le condizioni esistenziali più proprie dell’uomo, tuttavia afferma pure che quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. (…)
     Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto. (…)
     Oggi cominciamo a richiedere dalla letteratura qualcosa in più d’una conoscenza dell’epoca o d’una mimesi degli aspetti esterni degli oggetti o di quelli interni dell’animo umano. (…)
     Quel che conta per noi è la sua incidenza nella storia degli uomini.
     (La sfida al labirinto, 1962)
     Non basta, insomma, una letteratura fatta di mimesi fotografica di un mondo desertificato; non è sufficiente neanche una letteratura che sia solo mera introspezione: occorre una letteratura all’altezza della problematicità e della complessità dell’oggi, capace di sfidare il labirinto e di fare proposte, nonostante tutto.

Con una scrittura limpida e briosa Caringella indica una via praticabile: l’amore come sfida possibile all’annichilimento.
Calvino scriveva, nel romanzo La giornata di uno scrutatore, che l’umano arriva dove arriva l’amore: non ha confini se non quelli che gli diamo. La scelta appassionata che avvicina Roberta a Maurizio, pur tra rinunce e sacrifici, ne è la chiara dimostrazione.
Parlando di Maurizio e della sua incerta relazione con Roberta, l’autore scrive: non capiva se il suo amore per Roberta era diventato un amore difficile o, più semplicemente un amore finito.(p.36). Citando il Calvino de Gli amori difficili, Maurizio si interroga inizialmente sulla consistenza del suo rapporto con Roberta: distacco, ricomposizione, passione, comunione sono le tappe della riscoperta dell’amore. Maurizio avverte infine la sensazione rara di un’armonia assoluta con il mondo: Maurizio capì con una chiarezza che mai aveva avuto, quanto fosse innamorato di Roberta. L’amava alla follia. Più del primo giorno. La salita era veramente finita e una lunga discesa li aspettava con impazienza. (pp.256-257)
Del resto questa è la stessa filosofia di Nicola: anche per lui l’amore è la sostanza dell’esistere. Rivolgendosi a Giovanna le confida: non ho mai creduto alle persone sole per scelta. La solitudine è una condizione innaturale per l’uomo (…) Da qualche parte ho letto che nessuno si salva da solo. (…) Cerchiamo, dalla mattina alla sera, una scialuppa che ci salvi dalle onde e ci tracci la rotta da seguire. (p. 27)
Citando Margaret Mazzantini (Nessuno si salva da solo), Nicola si spinge oltre Maurizio: conta l’amore, sì, ma nutrito di reciprocità, di cura per l’altro, di empatia e solidarietà. L’uomo postmoderno pur inebriato dalla cesura netta con una tradizione ingombrante, non riesce a reggere il peso del vuoto e della vertigine, lo spettro della solitudine, e cerca ancoraggi.

Anche l’amore, però, come tutte le cose umane, soggiace alla forza del destino, direbbe Duque de Rivas: quelli di Maurizio e Nicola sono – per motivi diversi – amori difficili, di fatto irrealizzati.
… E anche le verità scoperte non garantiscono salvezze e  orizzonti di senso.
La verità si disegnò netta all’improvviso, nella sua strepitosa evidenza (…). La folgorazione rapida di Maurizio che scopre la verità nella sua nuda essenza, si accompagna con la fulminea presa di coscienza dell’assurdità della esistenza umana.
Tutto ha inizio con un errore, un errore giudiziario. Tutto finisce con un errore. E scoprire la verità non fa luce su niente, perché il destino si fa beffe dell’uomo e delle sue verità.
La storia della mia vita aveva avuto origine da un errore (…) da quel caso, da quell’assurdità. E sentii con terrore che le cose nate per errore sono tanto reali quanto le cose nate a ragione e per necessità. (…)
E se la storia scherzasse? (…)
E in quel momento mi resi conto di quanto io stesso e tutta la mia vita eravamo compresi in uno scherzo molto più vasto (…) assolutamente irrevocabile.
(M. Kundera, Lo scherzo)
Ludvik, il protagonista de Lo scherzo, la cui storia comincia con un errore, si pone un’inquietante domanda: E se la storia scherzasse?
Strana la vita! esclama Maurizio, che naufraga tra i giochi e gli errori del destino.
C’è, quindi, un filo rosso che collega Ludvik a Maurizio, Caringella a Kundera: lo scherzo del destino stende un velo sulla storia umana.
Maurizio Salinaro e Nicola Morgese vedono le loro vite giocare una partita con il fato. Ma è una sfida impari: la logica umana che accerta le verità, ricostruisce le cause e gli effetti, è perdente contro l’assurdo.
Il romanzo di Francesco Caringella, dunque, ci riguarda, riguarda il nostro rapporto con il mondo, con la vita, con la storia, con noi stessi.
Marziale diceva che un libro vale se ha il sapore dell’uomo.
Il colore del vetro vale perché ha il sapore dell'uomo.

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