“Alle città servono più sentimenti che sindaci, basterebbe sentirle davvero nostre per proteggerle come si fa con una storia d’amore”: è questa la tesi di fondo del nuovo romanzo di D. Grittani, Il gregge (Alter Ego, 2024). Si coglie in maniera evidente il filo rosso con A. Gramsci che, in un famoso articolo del 1917 intitolato Politici Inetti – Una verità che sembra un paradosso, sottolineava come più che tecnica o strategia, a chi fa politica sia necessario avere fantasia, profondità spirituale, sensibilità, simpatia umana: “perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere”.
Ebbene Grittani dimostra che al
ceto politico attuale la fantasia manca: non ce l’hanno né Matteo
Migliore né Michele Ametrano - avversari politici che nel libro Il gregge affrontano
la competizione elettorale per la candidatura a sindaco di una grande città del
Nord Italia, probabilmente Milano, ma forse una qualunque nostra città. Si
scontrano su poli opposti, però hanno le stesse finalità e modalità operative, cercano consensi, non hanno scrupoli, vogliono potere: “l’ossessione per il
consenso ha disperso i confini della ragione”. Quella forza distruttiva che inabissò la res
publica romana preparando il terreno al regime augusteo, la cupido imperi
– come la definisce Sallustio, mettendo in evidenza che allora come oggi si accompagna
a una pericolosissima cupido pecuniae - non è mai morta, anzi, continua senza
sosta a inquinare l’idea di politica. Matteo Migliore, infatti, fagocitato dall’ambizione,
è la sintesi perfetta della peggiore corruzione mista a retorica razzista e tentazioni superomistiche: non esita a ricorrere alla violenza per sbarazzarsi di
chi, indagando sul suo passato, rischia di far emergere i loschi affari di cui
è stato artefice. Inizia così una storia di omertà e complicità dalle disastrose
conseguenze. Michele Ametrano non ha remore a cavalcare la tragica sventura in
cui incorre il suo avversario e a fare del trasformismo, del clientelismo, le regole del gioco politico. Davanti al suo comitato elettorale si raduna
gente “disposta a qualunque cosa pur di essere ricevuta” e Ametrano elabora tattiche per arrivare dove forse neanche Migliore si è spinto: “alla brutalità del bene”.
Cavalcare il disagio sociale, speculare sulla condizione di bisogno
delle persone impoverite da un sistema che da anni tutela i privilegi e calpesta
i diritti: è questo il modus operandi dei politici sempre a galla. Non è
il male che si nasconde dietro il volto dell’uomo perbene, non è, cioè, la banalità
del male che oggi spaventa, ma piuttosto la brutalità del bene, scrive
Grittani, quello cioè che il politico scaltro mefistofelicamente promette per
chiederti poi, insieme con il voto, l’anima in cambio.
Non importa a quali politici l’autore
si stia in realtà riferendo, sono chiaramente riconoscibili. Tutti cogliamo
dietro le sue ironiche descrizioni, il profondo disgusto per una fase storica
come la nostra in cui abbiamo permesso “alla mediocrità di occupare il posto
della democrazia. Di occupare tutti i posti”. Abbiamo, noi, costruito l’ultranulla,
lo svuotamento dell’idea stessa di politica, la caduta degli ideali, e ci siamo
assuefatti, non abbiamo cercato alternative, abbiamo accettato tutto, “come un
gregge qualsiasi”. Noi “abbiamo imparato a escludere l’etica dai nostri sistemi
operativi”, considerando normale, parte del gioco, il fatto che i mediocri
senza idee, ma abbastanza furbi da usare “una lingua chiara e comprensibile”
adatta a “concetti elementari”, abbiano saputo farsi strada tra la disperazione delle folle, perché “nessun
altro ha saputo interpretare quel disagio”. L’ultranulla siamo noi con
la nostra antipolitica, con la nostra indignazione solo urlata, noi che
ci siamo sottratti alle nostre scelte, noi con il nostro astensionismo nichilista: “sono state le nostre rinunce a incoraggiare l’emersione di questo
nulla”.
La voce narrante è quella del
compagno di classe di Matteo Migliore, il politico che recluta i vecchi amici del
Liceo Pasolini nello staff degli organizzatori della sua campagna elettorale. I
nomignoli con cui tra loro si identificano sono rimasti gli stessi con cui si
chiamavano ai tempi del liceo, nessuna variazione, come nella loro incoscienza: “è
stato strano lasciarli immaturi e ritrovarli immutati”, commenta l’io narrante.
Il protagonista del romanzo affronta invece un percorso di crescita e trasformazione:
inizialmente accetta di collaborare alla campagna elettorale di Migliore, lo fa
non per convinzione, ma per incapacità di dire di no, quella stessa incapacità
che ci rende schiavi del destino e non uomini in rivolta, come direbbe
Camus. L’esperienza di questa folle collaborazione lo renderà consapevole
dell’ultranulla e delle degenerazioni di un ingranaggio che di politico
non ha niente, visto che per politica si deve intendere la nobile cura del bene di tutti.
L’ultranulla, sottolinea Grittani, non è però solo l’inadeguatezza,
l’incompetenza, il vuoto valoriale e l’inanismo di un’intera classe dirigente nata
dalle macerie di uno Stato aggredito dallo stragismo, morto con il
delitto Moro, deturpato dalla solitudine immensa alla quale sono stati condannati
i grandi Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino.
L’ultranulla è una
nuova forma di terribile nichilismo. In passato il nichilismo è stato attivo,
generativo. Camus nel suo più doloroso romanzo, La peste, spiega che se nella
sua Orano dominano orrore e desolazione, chi è uomo deve “restare”. Padre
Paneloux di fronte all’irrazionalità del male che uccide i bambini, ammette lo
scandalo di non avere risposte, ma la sua reazione non è certo la fuga, bensì
lo scatto umano, la responsabilità di continuare a “camminare nelle tenebre e
tentare di fare del bene. “Bisogna essere colui che resta”, gli fa dire Camus: questo significa essere uomini.
Grittani fa coincidere l’ultranulla
con una grave patologia del corpo sociale, l’indifferenza, “il peso morto della storia” la chiamava Gramsci nel
suo famoso Odio gli indifferenti; l’ultranulla è il cinismo che vanifica
lo sforzo di chi si batte per la giustizia. Gramsci con la sua vigile
lungimiranza scriveva: “ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni
vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua
volontà, lascia fare”.
Al protagonista del romanzo di
Grittani, però, il coraggio arriva, e arriva insieme alla decisione di prendere le distanze da una politica ridotta a
Risiko.
C’è un episodio molto
significativo nel libro Il gregge: il protagonista del romanzo si reca sulla tomba
del suo amico Mario, detto Bulldog, stroncato da un'ignobile
vendetta politica ordita come ritorsione per le sue indagini su un colossale
caso di evasione fiscale che avrebbe rischiato di travolgere intoccabili vertici:
una morte causata, un omicidio programmato, un delitto, però, capace di scuotere le coscienze. È sulla tomba dell’amico che Grittani
fa pronunciare al suo personaggio l’atto di autoaccusa: “anch’io galleggio come
tutti, come tutti sono finito a fare cose per cui ci si odia”. È doloroso
ammettere che “qualcosa abbiamo sbagliato se la rivoluzione in cui credevamo è
finita tra questi fiori ammalorati”. Ebbene al termine della visita sulla tomba
di Bulldog, il protagonista gli chiede aiuto, “vienimi in sogno. Vienimi
incontro. Ovunque possa capire cosa fare di questo tormento”.
La riflessione sulla tomba di chi
si stima, sulla lapide della persona di cui si vorrebbe raccogliere l’eredità morale, il bisogno di
richiamarsi a un “fratello” maggiore, a un modello di riferimento, è un omaggio
che Grittani fa a Gomorra: nel romanzo di Saviano, infatti, la voce
narrante si reca a Casarsa, presso la tomba di Pasolini, per recitare quello
che definisce L’io so del mio tempo, allusione esplicita al celebre articolo
di Pasolini Che cos’è questo golpe?.
E risalendo lungo la scala dei
rimandi letterari evocati da Grittani, non si può non riconoscere il riferimento
a Pasolini stesso, al componimento Le Ceneri di Gramsci, in cui
il poeta dialoga con le spoglie del politico e pensatore sardo, in un maggio
pesante, nel cui grigiore sembra naufragare “lo sforzo di rifare la vita”.
Il pregevole lavoro di Grittani,
carico di tensione civile, parte da una denuncia amara sulle derive del nostro
presente, ci mostra il grave rischio che tutti stiamo correndo: accettando l’ultranulla “diventiamo gli spazi che abitiamo”. Se lasciamo che le nostre città si
facciano prede dell’ignoranza, sarà così. Tocca a noi, dunque, cominciare a “proteggerle” “come si fa con una storia d’amore”, consapevoli del fatto che,
come diceva ancora Camus, “la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma
viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”.
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