Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

domenica 15 dicembre 2019

LA LINGUA DISONESTA

Viviamo in un'epoca in cui il discorso politico è diventato propaganda: non si comunicano idee, ma slogan, non si dimostra ciò che si è, ma si "posta" ciò che si mangia. Ne consegue che anche il linguaggio politico sta subendo una metamorfosi: non trasmette più un'idea di mondo, ma tende a suggestionare, a condizionare un numero crescente di potenziali elettori, fino addirittura a manipolarne la libertà di scelta. Perciò il modo di esprimersi della attuale classe politica tende a imitare i procedimenti comunicativi propri della pubblicità, assumendo i tratti di una vera e propria perenne propaganda. Questo è in buona sostanza il messaggio del significativo saggio di Edoardo Lombardi Vallauri, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione.


Le strategie comunicative individuate dall'autore sono varie. Per esempio, Lombardi Vallauri fa riferimento alla creazione di frames, "cornici concettuali entro cui le cose prendono il senso voluto dall'emittente": se si vuole, per esempio, indirizzare l'opinione pubblica verso una maggiore severità contro gli immigrati, sarà utile a tale scopo costruire e diffondere il frame in cui gli immigrati sono anche delinquenti. 
Lombardi Vallauri si concentra poi sulle strategie linguistiche atte alla persuasione. Constata prima di tutto che suoni e immagini sono più immediati, e perciò più convincenti, delle parole: associare la calda atmosfera di una serata tra amici che brindano con il brandy Vecchia Romagna, accompagnati dall'avvolgente sottofondo musicale della Romanza n.2 di Beethoven, suggerisce, senza spiegarla, un'idea di armonia, solennità e benessere in maniera molto più efficace, e quindi credibile, di qualunque esplicitazione affidata a concetti espressi con parole. Oltretutto la musica emoziona, tocca le corde della sensibilità. Immagini e musica procedono per stimoli impliciti: ogni esplicitazione linguistica risulterebbe una deminutio in termini di immediatezza ed efficacia. 
Ne deriva che per ottenere effetti persuasivi e addirittura manipolativi ai fini della  conquista di consensi politici, anche la lingua deve adeguarsi a questi standard suggestivi tipici della musica e delle immagini. Deve, dunque, ricorrere a messaggi impliciti e sottilmente incisivi. Lo sottolinea chiaramente l'autore: quando siamo espliciti, siamo noi a informare; quando siamo impliciti, invece, lasciamo che sia il destinatario a estrarre una data informazione dal contesto. Rubando procedimenti propri della poesia, figure del suono come onomatopee, fonosimbolismi e rime, giocando con il fascino delle lingue straniere, la raffinatezza del francese, l'incisività dell'inglese, la comunicazione manipolativa e propagandistica svia l'attenzione del destinatario verso lo scopo che l'emittente si propone di raggiungere.
L'autore precisa: procedere per messaggi impliciti, spesso approssimativi e indefiniti, deresponsabilizza l'emittente, nel senso che, in fondo, è il destinatario a "cooperare" nella costruzione e nel completamento del significato: quanto più il messaggio è vago, generico, ovvio, tanto più il completamento finale ad opera del destinatario lo carica del significato che l'emittente vuole trasmettere. Scrivere, ad esempio, su una manifesto elettorale "Più tasse sulla tua casa? No grazie!" è un'affermazione scontata e vaga, (chi vorrebbe mai pagare più tasse sugli immobili?) che non promette niente di preciso, cioè non dice nulla sul COME raggiungere l'obiettivo proclamato; tuttavia associare il "No grazie" all'immagine del rappresentante politico in corsa per le elezioni dell'uno o dell'altro partito, farà credere che solo lui si farà garante di un abbassamento della tassazione, impegno invece non assicurato dagli avversari. Tutto è implicito, il contenuto è vago, il significato è stato definito dal destinatario, la cui vigilanza critica è stata indebolita dall'ovvietà e dall'approssimazione del messaggio, la cui vaghezza fa sì che non possa essere falso o opinabile (infatti chi potrebbe rispondere "Sì, grazie" alla domanda "Più tasse sulla casa?"), e l'emittente ha così raggiunto il suo scopo: conquistare il probabile consenso per vincere le elezioni!
C'è infine un'affermazione dal valore fondamentale nel saggio di Lombardi Vallauri: "i ritmi attuali della comunicazione e della vita stessa, e i canali attraverso cui si attua la comunicazione, fanno sì che nella nostra civiltà i messaggi veramente importanti, quelli che influiscono in maniera determinante, siano diventati quelli brevissimi e semplificati, non certo quelli complessi e articolati": insomma, in una competizione politica avrà maggiori chances il candidato dall'eloquio sloganistico, icastico, pubblicitario, rispetto a quello che si affanna a trovare argomentazioni logiche e pensieri articolati a supporto delle proprie proposte. Così hanno infatti vinto i giovani e rampanti rottamatori! Agire sulle emozioni paga di più che non, invece, usare argomenti razionali, consequenziali e coerenti, operazione che richiede tempo e contraddice il diktat della nostra società: rapidità, brevità. Una comunicazione veloce diventa sinonimo di efficienza e se si associa al look dell'uomo in gamba, sempre al lavoro, con maniche di camicia arrotolate per facilitare i movimenti di chi è pronto a "dare una mano" al proprio Paese e, per questo, non bada all'eleganza, ma sceglie abiti ordinari, come uno di noi, il gioco è fatto!
Altre strategie sono poi ricordate: procedere usando stereotipi del linguaggio (negro invece di nero; terrone invece di meridionale...), per condizionare il giudizio su qualcuno;  utilizzare l'argomentum ad populum ( se lo dicono tutti, allora è vero..., vox populi, vox Dei).
In definitiva, chiarisce Lombardi Vallauri, per elevare il livello di consapevolezza di noi tutti, destinatari di una politica sempre più strategica, bisogna alzare la guardia nei confronti delle strutture proprie del linguaggio: non basta, dunque, badare solo ai contenuti.
Una vera democrazia si regge sui livelli di consapevolezza dei cittadini: se questi mancano, i cittadini si trasformano in burattini manipolati, ergo in sudditi.
La conclusione di Lombardi Vallauri è chiara: il compito della scuola in termini di educazione linguistica, di cura e selezione delle parole, è fondamentale non solo per i risultati attesi dal sistema di istruzione italiano, ma principalmente per la sopravvivenza della democrazia nel nostro Paese.

ALMARINA


Elisabetta Maiorano, vedova, insegnante di Matematica, la scelta di accettare l’incarico nel carcere minorile di Nisida, l’incontro con la giovane detenuta Almarina, una ragazza dal passato difficile, pesante: pochi, ma essenziali, sono i tratti selezionati da Valeria Parrella, nel suo romanzo Almarina, per costruire uno spaccato di mondo, per suggerire un’idea di vita, per spiegare che bisogna avere un ideale, e tocca a noi nobilitarlo in quest’unica vita che abbiamo, per orientarne il corso: devi puntare il compasso da qualche parte, per capire quanto ampio vuoi disegnare il cerchio. È questione di scelte. Possiamo adagiarci e lamentarci oppure capire che il futuro comincia adesso.
L’analisi esistenziale è una componente rilevante di Almarina, ma quello che emerge è una riflessione sulla scuola e sul senso dell’educazione.
Elisabetta Maiorano è una donna smarrita e nel contatto con i giovani di Nisida recupera lo slancio propulsivo verso la vita. E questo è un aspetto, certo importante, del libro, ma solo relativo.

Il punto nevralgico del racconto di Valeria Parrella sta nell’aver saputo delineare in modo autentico ed efficace, sentito e incisivo, il valore profondo dell’atto di “insegnare”, nel senso etimologico del termine: lasciare un segno, che può salvare, che fa sperare, che cambia le prospettive, che induce a pensare.
Si tratta di un messaggio estremamente significativo in un momento storico come quello attuale in cui la figura dei “maestri” è demonizzata, è svilita in favore di metodologie che ne riducono la funzione a quella di meri coordinatori di dinamiche di apprendimento presunte come semoventi, solo facilitatori, semplificatori. Il “maestro” è oggi ridotto, nell’immaginario collettivo, a una caricatura del suo ruolo – un po’ come il Pangloss di Voltaire – “sfigato” e certamente inferiore, quanto a carica carismatica, rispetto a figure ritenute più incisive, come gli influencer e gli altri divi del web, comunicatori d’effetto.
Un tempo i “maestri” erano rispettati, si teneva conto del senso delle parole: “maestro” deriva dal latino “magister”, colui che vale “magis”, di più, non certo perché sia superiore, ma perché studiando ha acquisito ed è diventato capace di trasmettere quelle chiavi di interpretazione del mondo, altrimenti irraggiungibili. Un onore e una responsabilità.
Il problema ai giorni nostri è serio: nella scuola contemporanea il “maestro” è schiacciato da una burocrazia soverchiante, da  norme e circolari ministeriali, frutto di una mania legiferante solo italiana, da diktat pseudopedagogici che impongono metodi “nuovi”, spesso tecnocratici, ludocentrici, e ipocritamente democratici, di cui, per ora, si ignorano gli esiti. E se qualcuno osa dissentire in merito alla loro efficacia – comunque tutta ancora da dimostrare – oppure avanza dubbi, esprime qualche perplessità, è accusato di “vanverismo pedagogico” o di nostalgie gentiliane. E, invece, semplicemente si interroga sugli ingranaggi di un enorme meccanismo che non può fare esclusivamente del “nuovo”, dell’avanguardia didattica, il sinonimo del “buono”, liquidando tout court quello che, invece, della tradizione va, seppure in parte, assunto e custodito. Le nuove didattiche si basano tutte sull’idea del “fare” in sé, (come del resto le recenti politiche rottamatrici), sulla celebrazione dell’attivismo operativo di cui i ragazzi dovrebbero essere assoluti protagonisti  e sul conseguente svilimento del tradizionale “fare lezione”: riportando un’esperienza personale, ad esempio, Paolo Fasce scrive: in carriera mi è capitato di avere studenti che mi chiedevano di “fare lezione”. Il motivo era ovvio: così potevano distrarsi, dormire, farsi i fatti loro, mentre nei gruppi di lavoro erano costretti a lavorare. Al di là delle scelte stilistiche fondate sull’uso – se spontaneo o consapevole, non sappiamo – della figura etimologica “gruppo di lavoro/lavorare”, che rende comunque incisiva la volontà da parte dell’autore di sostenere il senso delle nuove procedure di insegnamento, incentrate sull’azione concreta e non sulle “chiacchiere” dei maestri, si tratta di una demonizzazione evidente della tanto aggredita “lezione frontale”, considerata anacronistica e ormai inadeguata alle nuove generazioni, cresciute con i social e abituate alla rapidità delle immagini tipiche della comunicazione del web: insomma gli alunni avrebbero bisogno di “fare”, di essere operativi, non riflessivi.

L’ingenuità di tale impostazione sta nel dato particolare che così facendo i giovani si disabitueranno ad un’attitudine fondamentale a vivere: la capacità di ascolto, di prestare attenzione anche per tempi prolungati. E appunto nella vita questo ha ripercussioni gravissime: molti dei mali attuali – quelli di una società sempre più individualistica, egoistica – risiedono proprio nel nuovo costume diffuso: il deficit di ascolto. Le nuove didattiche costruttivistiche ne sono complici. A nulla vale correggere il problema celebrando formalmente il lavoro cooperativo, l’azione di squadra, il passaggio dal banco all’isola … i ragazzi non ascoltano e non sono messi nelle condizioni per farlo: e così avremo adulti che non sapranno ascoltare nel senso più ampio del termine, non solo non comprenderanno i nuclei fondamentali di un discorso, ma soprattutto non sapranno mettersi nei panni degli altri, “ascoltando” e sentendo”  le loro esigenze, i loro punti di vista. Stiamo creando classi di ragazzi aggregati, ma non  certo capaci di ascoltare e di comprendere empaticamente gli altri, mere monadi che stanno insieme come un gregge, ciascuna chiusa nel proprio microcosmo “operativo”. Nella scuola costruttivistica quello che conta sono processi, procedure e prodotti finali; mancano solide finalità culturali, restano quelle economiche dell’autoimprenditorialità, dell’imparare a imparare senza fine, per accettare passivamente l’eterna flessibilità di un lavoro precarizzato programmaticamente e svuotato di ogni certezza. Funzionale a questa ideologia risulta quindi il sistema di “istruzione” (dal latino INstruo): termine in cui il prefisso IN evoca l’immagine di un’azione prepotente di costruzione dall’esterno (sistema) verso l’interno (studente ritenuto tabula rasa e perciò un semplice contenitore di nozioni da inserire). Si ha quasi paura di parlare di “educazione”: evocherebbe memorie rétro. E invece esprime il senso più proprio della libertà di apprendimento. Il prefisso E, infatti, di E-ducazione,  indica – in opposizione a IN di istruzione – la libera emersione di ciò che è già presente in potenza nell’allievo e che la scuola amorevolmente e maieuticamente lascia che si esprima, si sviluppi.
Ebbene, Valeria Parrella rispetto alle nuove mode didattiche suggerisce un’alternativa di cui bisognerebbe tener conto nelle discussioni pedagogiche.
In un contesto degradato socialmente e culturalmente – un carcere – Elisabetta Maiorano – la protagonista di Almarina –  docente di Matematica, non crea “isole” di lavoro – Nisida lo è già abbastanza – né si limita a insegnare il Teorema di Pitagora. Un giorno porta in classe le lettere di Gramsci. Un ragazzo le chiede il motivo, aspettandosi da un’insegnante di matematica ovvie spiegazioni di matematica. Invece la professoressa risponde ai suoi alunni detenuti in carcere: Gramsci era un carcerato, e queste sono le lettere di un carcerato.
A scuola, al di là dei teoremi e delle equazioni c’è l’esperienza umana: l’atto di “ascoltare” il mondo, le ragioni, i sentimenti di un essere umano, imparare a vedere che cosa ci unisce, visto che è così semplice, facile, attaccarsi a ciò che ci divide.
Il tecnicismo didattico (flipped classroom, peer education, cooperative learning…) è un’illusione: perché crescano uomini, donne, persone, ci vuole senso umano. E le prove standardizzate, i test a risposta multipla che stanno invadendo il mondo della scuola e che rincorrono il grande sogno della “valutazione oggettiva”, sono invece solo un amaro inganno sull’esistenza, in cui non esiste mai la risposta univoca e perciò giusta. Scrive la Parrella, infatti, che nella vita …non esiste nessuna preferenza ma solo il grande caso ci sovrasta, e tutto ciò su cui avremo messo una ics si rivelerà sbagliato se saremo tristi, e giusto se saremo felici.
Certo oggi trovare una soluzione a una dimensione complicata come quella della scuola è davvero un rompicapo e – a cominciare dai Ministri che si stanno alternando alla guida di una realtà che sembrano ignorare – nessuno pare all’altezza del compito. Tuttavia impostare la discussione fossilizzandosi solo sui metodi ne impoverisce il senso, soprattutto se si parte da un idealtipo di metodo che, a partire dalla 107/2015, valorizza l’innovazione – secondo l’equazione nuovo=buono – e azzera l’apporto creativo individuale, la libertà sancita dell’articolo 33 della Costituzione e il valore della tradizione non certo considerata in senso assoluto, ma nei suoi aspetti di volta in volta sperimentati come efficaci.
Una scuola che punta solo ai metodi è una scuola senza calibro, espressione di una società senza spessore. Diceva Camus: quando non si ha un carattere bisogna pur darsi un metodo.

Articolo pubblicato sul sito glistatigenerali.com:
https://www.glistatigenerali.com/letteratura_scuola/almarina-il-futuro-comincia-adesso/


domenica 29 settembre 2019

ACATI



    Un viaggio, amori che s’intrecciano, tentazioni vissute e allontanate, la nostalgia di casa e degli affetti, il ritorno: una storia antica.
    L’Odissea era il racconto di un eroe sofferente, ma  invincibile e forte. Che cosa accadrebbe se cambiasse il punto di vista, se l’Odissea diventasse il viaggio non di Ulisse, ma di Laura, non di un eroe, ma di una donna qualsiasi; decisa, ma fragile; volitiva, ma umana? L’Odissea si trasformerebbe in Acati, anagramma di Itaca,  e Alfonso d’Errico diventerebbe il tessitore di un nuovo canto d’amore e d’avventura.

    Acati si snoda lungo un percorso che inizia con un’improvvisa partenza verso New York e che si conclude con il ritorno ad Acati, non solo un luogo, ma una dimensione esistenziale.
    Acati è la storia di ordinarie crisi coniugali, di sfide tra sessi, di scontri ideologici, ma è anche  la narrazione di una generazione stanca del viaggio senza meta, consapevole del fatto che il naufragio non può essere affrontato solo da passivo spettatore, perché, per chi lo vive, è una tragedia.
    Acati è un romanzo che suggerisce l’idea del ritorno non come immobile ripetizione di schemi antichi e anacronistici, ma come capacità di recuperare l’essenziale, ciò che conta davvero.
    Il progetto di d’Errico è duplice: da un lato c’è il deliberato intento di rivisitare l’Odissea invertendone la prospettiva e conservandone alcuni aspetti, dall’altro c’è il desiderio di dar voce alla propria idea di mondo, quella con cui ogni scrittore cerca di contribuire a costruire il mosaico della storia.
    La strategia di inversione del poema omerico si sviluppa attraverso precisi rimandi: Laura è certamente Ulisse e anche lei ha la sua Circe al maschile in George Sketton; Andrea è Penelope e come lei è assediato da seducenti Proci al femminile (Brigida, Lucia); Telemaco si trasforma in Marta e anche la Telemachia di questa intraprendente fanciulla si conclude con un prezioso incontro e con affetti rinsaldati.
    E, come Omero, anche d’Errico ritrova nell’epica del ritorno il messaggio fondamentale da trasmettere ai suoi lettori.
    Nel corso del Novecento, alla luce dei suoi esistenzialismi e nichilismi sfumati da tendenze postmoderniste, Ulisse è stato variamente riletto come eroe del naufragio o del vagabondaggio senza approdo, un uomo perso in labirintici mari senza rotte, simbolo della condizione esistenziale contemporanea.
    Scriveva Saba in Ulisse,  identificandosi nell’eroe omerico e dando voce al senso di smarrimento nel labirinto dell’esistenza, ma pure al fascino del viaggio verso ignoti orizzonti, tutti da scoprire: Oggi il mio regno/ è quella terra di nessuno. Il porto/ accende ad altri i suoi lumi; me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito,/ e della vita il doloroso amore.
    Al rifiuto delle certezze e alla vitalistica spinta verso il caos dell’esistenza, d’Errico oppone, invece, il mito antico e rinnovato del ritorno: senza nulla togliere al valore delle esperienze che arricchiscono e all’energia delle sfide necessarie a sfaldare impalcature millenarie (maschilismo, sessismo, subordinazione della donna ancora imprigionata in ruoli subalterni, in società solo apparentemente evolute, ma di fatto ancorate a tradizioni androcratiche), Acati individua nel nostos la sola via verso l’autenticità.
    Non si tratta certo di un ritorno all’antico che azzera le conquiste sociali e culturali, ma, piuttosto, di un ritorno all’essenziale, nel segno del più autentico Ulisse omerico, che tornando a Itaca recupera quello che per lui conta davvero, esattamente come Laura. Certo, ribadire che il nostos consiste nel riappropriarsi degli affetti, della vita familiare, delle piccole cose di ordinaria semplicità, sembra quasi un voler ingabbiare l’uomo entro orizzonti riduttivi: che ne è della polis, della vita attiva, dell’impegno e delle lotte verso quelle tanto agognate magnifiche sorti e progressive?
    Questione di punti di vista.
    Negli anni dell’Illuminismo e delle inimmaginabili conquiste culturali, del filantropismo e del cosmopolitismo, dell’uguaglianza e della solidarietà, Voltaire, nel Candido dava un messaggio apparentemente controcorrente: un uomo è degno di questo nome solo se impara a “coltivare il proprio giardino”. Un invito all’egoismo? Ovviamente no. Significa che l’uomo deve imparare dai contadini il tempo della paziente attesa, deve saper dissodare l’animo, liberarlo dalle sterpaglie cerebrali e ideologiche che rendono la sua vita un cumulo di ipocrisie, menzogne e falsità condite di perbenismo, per nutrire, invece, quello spazio nel quale solo con una quotidiana, paziente cura potrà far nascere frutti buoni, che saranno, a loro volta, nutrimento per chi vorrà assaporarne il gusto.
    Semplicità, dedizione, attesa, capacità di comprendere verso che cosa vale la pena orientare i propri sforzi nel viaggio dell’esistenza sono gli ingredienti dell’ars vivendi che  d’Errico recupera da Omero e da Voltaire.
    Se, infatti, il soggetto della trama è un’Odissea riletta e adattata ai tempi, lo stile umoristico e a tratti paradossale nelle trovate volutamente da fiction (figli ritrovati dopo decenni, gravidanze inattese e magicamente scomparse, personaggi che ritornano dal passato e indisturbati se ne tornano da dove sono venuti, figli maturi e intraprendenti che diventano consulenti o addirittura guide morali per genitori spesso inadeguati al ruolo che rivestono) richiama alla mente lo stile di Voltaire, esperto nell’inversione dei grandi modelli letterari e filosofici del suo tempo.
   Riscoprendo maestri antichi, Alfonso d’Errico costruisce un romanzo in cui il perfetto equilibrio tra ironia e serietà dà corpo a una “certa idea di mondo”, per usare un’espressione cara ad Alessandro Baricco, che induce ogni lettore a riflettere sulle gerarchie dei valori in base ai quali ha impostato la propria vita.
    Carriera, successo, fama, visibilità: senza escludere il valore delle sperimentazioni utili ad una proficua autoaffermazione, d’Errico sente di ridimensionarne la portata e  sembra rilanciare il monito plotiniano: Fai come lo scultore di una statua che deve diventare bella: toglie questo, raschia quello, rende liscio un certo posto, ne pulisce un altro, fino a fare apparire il bel volto nella statua. Allo stesso modo anche tu togli tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purificando tutto ciò che è tenebroso per renderlo brillante, e non cessare di scolpire la tua propria statua finché non brilli in te la chiarezza divina della virtù (Plotino, Enneadi VI, 7, 10, 27 sgg.).
    Acati insegna questo: a scoprire che cosa togliere per imparare ad aggiungere.
                                                  Teresa D’Errico

giovedì 12 settembre 2019

IL SOGNO DELLA MORTE


  Scrive Julio Cortázar, in Lezioni di letteratura: penso che in un racconto (…) l’irruzione di un elemento assolutamente incredibile, assolutamente fantastico in definitiva, renda più reale la realtà, faccia arrivare al lettore quello che, se fosse detto esplicitamente o raccontato letteralmente, sarebbe solo uno dei tanti resoconti sulle cose che accadono.
  Il confine labile tra realtà e dimensione onirica, l’alternanza tra sogni e sequenza diaristica dei giorni costituiscono la struttura narrativa del breve romanzo Il sogno della morte, opera prima della giovanissima Miriam Masiello. La protagonista, Teresa, costretta dalla malattia all’immobilità, rievoca il passato, guarda con disincanto il poco tempo che le resta, cercando di rendere intensi i momenti di pienezza che riesce a vivere grazie agli incontri con i familiari, in particolare con la nipote Miriam. Tuttavia gli affetti e le cure che Teresa riceve non placano mai la consapevolezza dell’imminente fine: io mi avvicinavo ad una totale frantumazione giorno dopo giorno. 

  Questo tragico stato di cose è amplificato da inquietanti sogni che di notte tormentano la donna. Tra sdoppiamenti, atmosfere buie e visioni angoscianti, Teresa sente di essere in una morsa: nel buio che mi avvolge mentre precipito nell’infinito assisto a una nitida scena che risalta nell’oscurità. Una signora anziana si alza dalla sedia e chiede a una donna più giovane di ballare con lei. Le osservo meglio e capisco che quelle donne sono io. (…) Entrambe sono me. Si abbracciano e scompaiono nel nulla, lasciandomi un nodo intricato in gola.
  La danza macabra, l’abbraccio fatale tra l’anziana donna e la ragazza proiettano nell’incubo lo strazio fisico, psicologico e emotivo di Teresa che sente con tutte le sue fibre di essere sul punto di lasciare la vita, i suoi cari, il mondo. Le intersezioni oniriche potenziano con immagini quello che il semplice racconto non potrebbe dire con esattezza.
  Sono sorprendenti – soprattutto in considerazione della giovane età dell’autrice, appena diciottenne – la capacità di immedesimazione nella psiche della protagonista, la forza empatica con cui Miriam Masiello dà voce ai sentimenti e ai ricordi della donna, il tratto vivido delle visioni oniriche che traducono plasticamente i grovigli emotivi di Teresa.
  In particolare due tratti colpiscono di questo romanzo: da un lato la profonda sensibilità che porta l’autrice a soffermarsi sulla materia prima che anima il mondo, l’amore; dall’altro la scelta razionale, coraggiosa di aver affrontato un tema scomodo, quello della malattia e della morte.
  È vero, certo, che la letteratura dal Decadentismo in poi, sovrabbonda di intrecci più o meno tragici tra Eros e Thanatos, ma non è questo il punto focale del romanzo Il sogno della morte.
  Nel libro di Miriam Masiello, la morte è semplicemente quello che è: c’è, non le si sfugge, fa parte della vita e può diventare un’ossessione per chi quella vita la sta perdendo. Con il suo manto scuro, come nei dipinti medievali del Trionfo della Morte, lei, la Nera Signora abbraccia col suo buio mantello tutti indistintamente. L’aspetto interessante è il coraggio di parlarne. In una società che ha espunto la morte da ogni riflessione, in un’epoca che prolunga artificialmente la vita e la spinge oltre ogni limite possibile, per un’umanità misera che pretende di vincere il tempo chirurgicamente e che riduce l’estetica a strategia del camuffamento biologico, Miriam Masiello mette a nudo la verità: con la morte bisogna fare i conti, prima o poi. E saggiamente, da scrittrice accorta, dimostra che per sconfiggerla c’è solo un modo: alimentare quella foscoliana eredità d’affetti nella consapevolezza – come scriveva Shakespeare - che nulla può difenderti dalla falce del Tempo/ se non un  figlio, che gli tenga testa quando lui ti prenda.
  La vita è sogno: breve, evanescente come un sogno e spesso orientata alla ricerca di illusorie tracce di felicità, come ricordano i poeti da Calderón de la Barca a J. Keats, citato in esergo da Miriam Masiello. Teresa lo ha sperimentato e perciò ripercorre la propria esistenza focalizzando l’attenzione sull’essenziale, su ciò che davvero conta e la sua eredità spirituale è raccolta dalla giovane nipote, Miriam, le cui parole chiudono emblematicamente il romanzo.
  Nelle pagine conclusive del testo Miriam tributa alla nonna Teresa tutta la stima e la tenerezza che un cuore umano può contenere e che documentano in modo tangibile un dato chiaro: non tutto si conclude con la morte, c’è sempre qualcosa che di noi resiste nonostante la finitezza della vita. E la lettera finale di Miriam è la risposta ideale alla pungente domanda che Teresa si pone nei giorni di agonia in ospedale: mi avrebbero facilmente dimenticata o avevo veramente lasciato qualcosa di importante in loro?
  L’altro aspetto significativo del romanzo è l’analisi del sentimento misterioso e indefinibile che lega le persone, a volte inspiegabilmente: l’amore. È condotta in modo accurato la ricostruzione del rapporto fra Teresa e Pietro e, al di là degli interrogativi che restano aperti sulle dinamiche che si intrecciano nelle relazioni umane, c’è una frase che M. Masiello ha inserito nel testo e che racchiude una verità profonda, spesso trascurata: non è vero che l’amore è distaccato dalla ragione o il cervello lontano dal cuore. L’amore è solo questo, ragionare su ciò che si dice o si fa per evitare di ferire l’altro.
  In modo aforismatico e lapidario il romanzo Il sogno della morte fornisce la formula più precisa per riuscire a vivere: ragionare su ciò che si dice o si fa per evitare di ferire l’altro.























































































































































































































































































































































































































































































































































 evitare di ferire l’altro.