Nel suo agile saggio, La lezione (Einaudi – Gli Struzzi, 2022), G. Zagrebelsky ha fornito un’analisi del mondo scolastico senza cedere alla lamentela per tutto quello non va, per le palesi disfunzioni e la caotica disorganizzazione che penalizza gli studenti, ma senza neppure proporre modelli didattici ideali o, peggio, retrotopici e anacronistici.
Due sono le parole-chiave attorno alle quali si concentra l’analisi dell’autore: parola e piacere.
Contro le didattiche semplificanti che marginalizzano il docente riducendone la funzione a quella di mero “facilitatore” e contro le illusorie promesse di metodi ludocentrici e tecnocentrati, l’autore coraggiosamente rilancia la centralità di uno strumento immortale per la sua indiscutibile efficacia: la parola, un mezzo che da Socrate in poi non ha mai deluso.
- La lezione è parola.
"Senza le parole, la lezione è vuota". Quello di Zagrebelsky non è un retorico elogio della parola, è un’analisi necessaria a ricostruire il legame tra la scuola e la forza generativa della parola.
Che il nesso parola-ascolto abbia nella vita scolastica un ruolo determinante è dimostrato da Zagrebelsky anche attraverso la ricostruzione etimologica del termine che indica il luogo privilegiato in cui la lezione avviene: l’aula. La parola “aula”, sottolinea l’autore, deriva dal greco aulós, flauto, e allude alle onde sonore della musica che si diffondono in uno spazio deputato all’ascolto. Ebbene, la parola avvolge le coscienze, è come l’aria: cultura e scuola non possono farne a meno.
Immagini, input digitali di varia natura possono integrare, accompagnare l’azione d’insegnamento, ma il nesso parola-ascolto non può essere sostituito da nessuna innovazione tecnologica spacciata per avanguardia didattica. Gli uomini e le donne del futuro hanno bisogno di acquisire la consapevolezza necessaria per muoversi nel mondo e "se non si hanno le parole, le cose, di qualunque genere siano, fisiche o metafisiche, materiali o immateriali, non si possono afferrare e trattenere, cioè non si possono acquisire". Sono infatti le parole che permettono di "pensare il mondo".
Viviamo in un’epoca di forte mistificazione o, addirittura, come ricorda G. Carofiglio, di evidente, orwelliana, "manipolazione delle parole". Perciò la scuola e la lezione hanno un dovere preciso: liberare la parola dal "veleno dell’equivoco". Solo "attraverso la vita e la storia della parola possiamo portare alla luce le esperienze dell’umanità". Zagrebelsky fa riferimento al macabro esperimento messo in atto da Federico II: sottratti alcuni bambini all’affetto delle loro madri, l’imperatore li fece allevare senza la tenerezza delle parole che accudiscono e fanno crescere, limitandosi a farli nutrire da balie. I bambini morirono tutti, perché – è questo che Zagrebelsky vuol dimostrare – la parola è vitale: una vita senza parole è solo mera esistenza (zoé), non esperienza di relazione (bíos). La democrazia, che è relazione continua, infatti, si nutre di parole. I Greci chiamavano agorá lo spazio pubblico atto al confronto e al dialogo politico. L’agorá era il luogo dell’agoréuein, del dire, del parlare per trovare la chiave utile al benessere della vita collettiva. Infatti è solo parlando che ci definiamo. Oggi più che mai, in un momento storico in cui tutti si appropriano, per esempio, di parole come libertà e democrazia, facendosene paladini proprio mentre le negano o ne alterano il senso, bisogna recuperare il rapporto tra le parole e le cose, per evitare il rischio di tenere soltanto nomina nuda.
- La lezione è piacere
Zagrebelsky, poi, mette l’accento su un altro aspetto che dovrebbe connotare la lezione e che è strettamente legato all’uso efficace e sapiente della parola: il piacere. L’autore parte dalla critica esplicita contro i due punti estremi della deriva didattica: da un lato, la pratica riduttiva e semplificante dei test standardizzati, che sembrano pensati per “umiliare l’etica dell’apprendimento”; dall’altro il narcisismo della seduzione intellettuale di docenti che suggestionano con il loro carisma manipolatorio e non grazie al fascino delle materie che insegnano. Zagrebelsky cita, a questo proposito, tra i cattivi maestri, il prof. Keating, il noto trascinatore di studenti nel film L’attimo fuggente, in cui affronta una rivoluzione che finisce per sfuggirgli di mano e che si conclude, per uno dei suoi allievi, in modo disastroso.
Ma, allora, che cos’è una lezione? Zagrebelsky lo spiega attraverso la metafora di P. Florenskij, filosofo e matematico fucilato nel 1937 all’epoca delle purghe staliniane. "La lezione è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale, una meta… Per chi passeggia è importante camminare, non solo arrivare". Florenskij pone l’accento sul piacere di imparare osservando, guardandosi intorno, parlando, scambiandosi sguardi, idee e opinioni, inoltrandosi in sentieri secondari. È questo il piacere della lezione: il piacere digressivo, il piacere della domanda, la scoperta della complessità delle cose che sfuggono alle gabbie dei programmi prestabiliti, dei tempi programmati, delle scansioni pianificate. La lezione è libertà.
Educare o istruire sono false alternative. La lezione è il piacere di camminare insieme.
- Perché riflettere sul senso della lezione
Con La lezione, Zagrebelsky offre lo spunto per una riflessione sul mondo della scuola in un preciso momento storico come il nostro, che la vede travolta da riforme, circolari ministeriali che confondono invece di chiarire, ordinanze gattopardesche che cambiano tutto per non cambiare niente. Accusata – in molti casi a buon diritto – di perpetuare le disuguaglianze invece di eliminarle e distorta nelle sue finalità – soprattutto se le si attribuisce il compito di premiare il merito senza però far nulla per garantire a tutti gli studenti pari opportunità e omogenee condizioni di partenza rispetto alle quali osservare se ci sia o meno un merito da premiare – annegata tra miriadi di progetti e naufragata nel mare della burocrazia, la scuola oggi non è più un centro culturale.
Separazioni sempre più dicotomiche tra saperi scientifici e discipline umanistiche, reiterati tentativi di svilimento e continui attacchi ideologici diretti contro i saperi definiti “inutili” – perché considerati non immediatamente spendibili sul mercato del lavoro – celebrazioni neoavanguardisitiche del “nuovo” e di tutto ciò che abbia a che fare con la dimensione tecno-pratica, hanno appiattito la scuola a ente certificatore di mai ben definite “competenze” illusoriamente misurabili attraverso prove ritenute oggettive, sul modello INVALSI.
È vero, il mondo è cambiato e la società si trasforma rapidamente, tuttavia non sempre in meglio. Forse solo la scuola può costituire il baluardo estremo di quella cultura che ci mette di fronte ai nostri limiti e ci ricorda che in fondo "siamo nani sulle spalle di giganti".
La lezione insegna ai nostri giovani proprio questo: a raccogliere (“lezione”, ricorda Zagrebelsky, deriva dal greco lego, che oltre a “parlare” vuol dire appunto “raccogliere”), a selezionare e a scegliere dal passato ciò che può servire a interpretare il presente.
Teresa D'Errico