Solo parole, Amica.
Niente
sguardi, niente strette di mano.
Niente
saluti, niente abbracci
di ritrovata nel tempo
anima
allora incrociata,
sfiorata
e perduta
nel gioco di vita tessuta
da
divinità ignota.
Solo orecchie, Amica.
Solo
orecchie ho io per te.
Per
ascoltare, leggendo,
parole
che dici scrivendo di te.
Non
ho fiori per i tuoi capelli,
non ho vino per le tue labbra.
Forse
musica ho io per te?
Solo
parole, solo silenzi,
parole
non dette,
ho
io per te, Amica mia.
Antonio Caione
Ut pictura poësis,
sosteneva Orazio. Eppure, scrivere della mancanza, rappresentare ciò che non
c’è e non c’è stato, rendere tangibile il desiderio, dare forma a una realtà
immateriale, significa forzare i mezzi linguistici, trasformare l’affermazione
in negazione. Plotino parlava di teologia negativa: è più facile dire ciò che
Dio non è, piuttosto che definire l’ineffabile. Questo principio, però, non
dovrebbe valere anche per i sentimenti. Loro non ci eccedono, ci abitano; d’altra
parte non sappiamo più definirli. O forse è lo spirito dei tempi che ci ha resi
disarmati rispetto ai nostri sentimenti. Nell’era del videor ergo sum, guardarsi dentro è difficile.
Solo
parole, Amica è un testo fondato interamente sul
senso della perdita e della dimensione residuale: la possibilità di ascolto che
pure Antonio Caione pare inizialmente lasciare aperta (solo parole, ho io per te …
solo orecchie ho io per te), si converte presto in occasione mancata, in incontro
negato. Restano parole non dette; la quadruplice anafora del niente (vv. 3-4) sottrae le attese di un contatto fisico ad ogni ipotesi di
concretezza; e la duplicazione del non
(vv. 14-15) ne è un’ulteriore conferma: prevale, nella selezione linguistica operata
dal poeta, la dimensione negativa, la più appropriata per spiegare il senso
della privazione. Anche la domanda introdotta dal dubitativo forse (v. 16), che pure sembrerebbe aprire un
varco alla speranza, si trasforma in rapida, amara frustrazione: le parole,
l’ascolto, la musica diventano
sostanze evanescenti e lasciano il posto a ciò che propriamente rimane, solo silenzi (v. 17).
Eppure la donna proprio
in virtù dell’assenza si accampa come protagonista dei versi; con la sua
fisicità non posseduta dal soggetto lirico, diventa il pensiero dominante. Di lei immaginiamo i capelli (v.14) e le labbra
(v.15) in una vaghezza petrarchesca che evoca e suggerisce: un’anima incrociata, sfiorata e perduta ha
inciso con forza impalpabile, ma incancellabile, la propria esistenza e la propria
permanenza nella memoria di chi scrive. La donna che fornisce all’autore il
pretesto per parlare d’altro, non è descritta nei suoi tratti plastici, ma è
proprio la sua evanescenza che dà corpo e forma agli stati interiori del poeta.
È impossibile non
riconoscere nel testo di Antonio Caione, la risonanza poetica della bellezza fuggitiva che Baudelaire
attribuisce alla protagonista del noto componimento A una passante.
La modernità disorienta, attesta l’incapacità di controllo sull’esistenza che si fa anarchica e sfugge rispetto ad ogni progettualità. Perciò l’incontro si smaterializza, lascia gli effetti di un’incontrollabile e sentita vis attractiva, ma non si attua. Il contatto mancato non è, però, un dato biografico e individuale: è la metafora di un’epoca. Questo è il non detto di A. Caione. Nel gioco di vita tessuta /da divinità ignota si situano la chiave di lettura e l’origine del rimpianto. L’arcano mistero della vita, una partita che l’uomo gioca a dadi con il destino, è uno scacco: circostanze, casualità, imprevisti, imponderabili incroci di ombre che si sfiorano e non comunicano, non possono essere decriptati. Siamo sopraffatti dall’esistente che come una valanga travolge corpi, emozioni, sentimenti, non abbiamo il tempo e l’attenzione necessari a riconoscere ciò che si agita nell’animo. Ci lasciamo sfuggire le emozioni, non sappiamo forse neanche più nominarle, scriviamo emoticon invece di poesie. È la modernità, appunto: percepire e non accorgersene.
Quello che resta da
fare ai poeti, tuttavia, è dare voce ai
silenzi, ritrovare nel tempo attimi
di una felicità mancata e chiamarli con il loro nome: desiderio.
In fondo è
dalla mancanza che nasce l’eros.
I versi sono polvere
chiusa
di un mio tormento
d’amore
(A. Merini, da La Terra Santa, 1984)