IL DIO DEL MASSACRO
Genitori e figli: finzione letteraria e realtà.
Hoc patrium est, potius consuefacere filium
sua sponte recte facere quam alieno metu.
Traduzione
“Questo è il compito di un padre, abituare il figlio ad agire rettamente per scelta autonoma, piuttosto che per paura di ricevere una punizione da altri.”
Nel II secolo a. C. Terenzio pone una questione di stringente attualità: come vanno educati i ragazzi? Si tratta di un problema che assilla molto il commediografo latino, visto che lo affronta in numerose opere. Ne parla, però, in modo specifico in una commedia intitolata Adelphoe. Protagonisti della commedia sono, due fratelli, Demea e Micione che Terenzio ritrae alle prese con l’educazione dei figli, due intemperanti giovanotti: vogliono divertirsi, amare, ritirarsi tardi la notte, avere vestiti con cui far colpo… Terenzio è consapevole del fatto che non ci sono ricette assolute, perciò propone allo spettatore due modelli antitetici: Demea è fautore di metodi fondati sulla severità, sul valore dei famosi NO che aiutano i figli a crescere e ad affrontare la vita; Micione crede, invece, nella forza del dialogo: si sbaglia di grosso, secondo me, chi crede che l’autorità imposta con la forza sia più efficace e più sicura di quella che si conquista con l’affetto. (Adelphoe, atto I, vv.65-67).
Naturalmente Terenzio scrive commedie e l’happy end è assicurato. Alla fine, infatti, trionfa l’amore, gli affetti non sono messi in discussione, gli equilibri sono ristabiliti; i figli restano figli, i genitori sono sempre i genitori. C’è un confine ben netto che marca la giusta distanza tra i ruoli. E anche se Terenzio resta affascinato dall’humanitas di Micione, in conclusione lascia la parola a Demea, che afferma, dunque, rivolto ai ragazzi vivaci e ribelli: ci sono cose che per la vostra giovinezza voi vedete di meno, desiderate con troppo ardore e non sapete valutare abbastanza: se volete che io vi ammonisca e vi corregga e ceda solo quando è opportuno, eccomi, sono a vostra disposizione.(Adelphoe, atto V, vv 92-95).
Terenzio lascia emergere la nobiltà della funzione dei genitori che non rivendicano l’autorità del padre-padrone, ma ammoniscono e correggono, per il bene dei figli. Demea, infatti, dice: sono a vostra disposizione. L’obiettivo di un genitore è aiutare i figli nel duro compito di costruire la vita, darle forma .
Da Terenzio ai giorni nostri l’idea non è cambiata. Educare significa, infatti, guidare, testimoniare con l’esempio come vanno affrontate le vicende della vita: le sfide con coraggio, il successo con senso della misura e i fallimenti come esperienze inevitabili da cui imparare a risollevarsi. Essere genitori vuol dire insegnare ai figli a raggiungere la giusta distanza dal turbinio dell’esistenza senza, però, mai mettere da parte la forza dei sentimenti. Kipling spiega bene questo concetto nella nota poesia If
Una cosa è chiara: al di là dell’opposizione fra i metodi contrastanti, Demea e Micione sono accomunati dal medesimo spirito: hanno a cuore i loro figli, tanto da interrogarsi sulla validità dei metodi che adottano per educarli.
E oggi?
Stando al recente delitto commesso da due minorenni a Ferrara – dove uno dei due ha materialmente ammazzato a colpi d’ascia i genitori dell’altro, il quale ha, però, commissionato il crimine – qualche ingranaggio deve essersi inceppato nel complesso meccanismo che regola i rapporti e la comunicazione tra genitori e figli. C’è stato il ’68. È stato annullato il principio d’autorità che, pure, aveva mietuto innumerevoli vittime. Il testo L’epoca delle passioni tristifornisce un efficace esame della situazione contemporanea. Oggi gli adulti si rivolgono ai giovani seducendoli, a scuola con tecnologie innovative ed effetti speciali, in famiglia mostrando spesso atteggiamenti amichevoli o, addirittura, complici: relazioni di simmetria tra soggetti che, però, simmetrici non sono, per età e ruoli sociali. E se seduzione e complicità falliscono, non rimane altra via d’uscita che quella di ricorrere alla coercizione. Paradossalmente, alla crisi del principio di autorità – crollato dopo le contestazioni giovanili sessantottine - non corrisponde affatto una messa in discussione dell’autoritarismo. Anzi, proprio questa crisi apre la strada a varie forme di autoritarismo. Una società in cui i meccanismi di autorità sono indeboliti, lungi dall’inaugurare un’epoca di libertà, entra in un periodo di arbitrarietà e di confusione. E quando un giovane chiede “Perché devo ubbidirti?” molti adulti sono incapaci di rispondere chiaramente: “Perché sono tuo padre …”. Se il giovane non è sedotto o dominato, non vede nessun motivo di ubbidire a questo suo simile che pretende di meritare rispetto. In nome di cosa, di quale principio? (1)
E sebbene Recalcati abbia rilanciato la figura leggendaria di Telemaco (2) che aspetta, senza mollare mai, il ritorno di Ulisse per ristabilire con il padre quel rapporto che gli è mancato, a quanto pare Edipo non è stato completamente dimenticato.
Lo scenario ferrarese dell’efferato omicidio vede un ragazzo stringere un foedus sceleris con un coetaneo perché quest’ultimo commetta l’omicidio che lui non ha il coraggio di compiere, ma che desidera fortemente: odia i genitori e li vuol vedere morti.
Questo evento è però l’anello finale di una complicata relazione che investe non solo il microcosmo familiare, ma l’intero contesto sociale, storico, culturale.
La letteratura contemporanea se ne è occupata, entrando nei meandri della complessa relazione genitori-figli.
Il titolo più eloquente e oggi tristemente attuale, è quello della pièce teatrale scritta nel 2007 da Yasmina Reza, Il dio del massacro.
Il titolo più eloquente e oggi tristemente attuale, è quello della pièce teatrale scritta nel 2007 da Yasmina Reza, Il dio del massacro.
Tuttavia già nel 1928 Irène Némirovsky fa luce sulle controverse dinamiche familiari
e trasferisce su Antoinette, la giovane protagonista del suo romanzo Il ballo, i sentimenti che lei ha sempre provato per la madre: inimicizia, rivalità, ostilità appaiono le parole più proprie per definire un abisso di separazione affettiva.
Antoinette avverte la distanza dei genitori, impegnati in modo ossessivo a lasciarsi alle spalle un passato anonimo e a tentare di affermarsi nella società che conta.
Fa da contraltare al loro arrivismo il totale formalismo nel rapporto con la figlia che
cresce come un’estranea, come un peso. Antoinette ne ha la lampante dimostrazione quando le viene inspiegabilmente vietato di partecipare al ballo che la madre, Rosine, sta preparando. Per stroncare ogni richiesta della figlia, Rosine giustifica il suo divieto dicendo comincio soltanto adesso a vivere io. Antoinette capisce ora chiaramente di essere un ostacolo alla fame di vita della madre. Comincia a odiare i genitori. Sogna la vendetta. E la attua.
Le conseguenze non sono atroci né violente neppure macabre, ma, certo, risultano destabilizzanti. Abilmente, però, la Némirovsky prepara un finale a sorpresa: quella che poteva essere una rottura tragica pare definirsi come possibilità aperta.
La irrisolta questione educativa è anche al centro di una commedia di Yasmina Reza, Il dio del massacro (2007).
Ciascuna coppia, infatti, scopre di vivere in modo evanescente il proprio rapporto coniugale: mogli e mariti tra loro sono estranei e si accorgono che, per gli impegni professionali, sociali, non conoscono affatto i loro figli.
L’incontro che doveva essere chiarificatore finisce nella più pesante incomunicabilità: un vero massacro delle relazioni umane.
Yasmina Reza dimostra che nei rapporti tra ragazzi, tra adulti, ci si sente nemici: non si sa perché, ma ci si aggredisce. Del resto uno dei quattro protagonisti, Alain, lo dichiara apertis verbis: io credo nel dio del massacro. È il solo che governa, in modo assoluto, fin dalla notte dei tempi. Questo rende inutile ogni tentativo di procedere ragionevolmente verso la costruzione di un dialogo umanamente – non solo legalmente - risolutivo.
Eppure, nonostante i loro maldestri comportamenti, questi genitori sono animati da buone intenzioni, si sforzano di arrivare a una conciliazione. Certo, si scoprono deboli, inadeguati, prima come coniugi e poi come educatori. Ma provano a interrogarsi. Ne è una dimostrazione il fatto che la commedia si chiude con una domanda. Poi cala il sipario.
Risulta, invece, più inquietante la lettura delle dinamiche familiari che fornisce l’olandese H. Koch nel romanzo La cena (2009).
Anche in questo caso due coppie apparentemente stabili e felici si incontrano in un lussuoso ristorante: chiacchiere, banalità, il lavoro, i figli.
Improvvisamente, vite tranquille vengono sconvolte da un evento di efferata, incomprensibile, violenza: al ritorno da una festa, due sedicenni, proprio i figli delle due coppie a cena, ragazzi, cioè, di “buona famiglia”, ammazzano una barbona e le danno fuoco. Le immagini riprese dalla videocamera della cabina di un bancomat vengono trasmesse in TV e fanno il giro del web.
Alla violenza non c’è mai un perché. Ma in questo caso l’interrogativo è davvero inquietante.
C’è un crescendo in termini di gravità delle azioni fino ad ora esaminate.
Antoinette nel romanzo della Némirovsky odia i genitori: ferisce, ma la sua vendetta non è fisicamente violenta.
Gli adolescenti nella commedia di Yasmina Reza sono sì aggressivi e rissosi, ma tutto resta nell’ambito dei litigi tra adolescenti non ancora in grado di misurare il rapporto tra emozioni e azioni. Siamo nel campo dei conflitti relazionali ai quali è, comunque, possibile trovare delle spiegazioni e delle soluzioni.
I ragazzi delineati da H. Koch, invece, sono fuori controllo. La loro violenza si traduce in omicidio.
E a questo punto a grandi passi usciamo dalla finzione letteraria e entriamo nella realtà.
Manuel e Riccardo, nella casa dell’orrore a Ferrara, hanno dato un nome più specifico all’omicidio commesso dall’uno e commissionato dall’altro: si tratta di matricidio e parricidio.
Vittorino Andreoli spiega che oggi questo può avvenire perché la morte ha perso pathos: i giovani abituati alla violenza dei videogames ormai credono che ammazzare sia una partita da vincere. La confusione tra virtuale e reale fa perdere consistenza persino ai legami di sangue. Questo è il fatto oggettivo: contro ogni tabù e ogni ancestrale remora, i giovani ferraresi hanno deciso di dare la morte a chi dà la vita.
Ma dare la vita non basta. Bisogna dare forma alla vita. E spesso i genitori non ce la fanno da soli. In una società completamente proiettata verso il profitto, lavorare e guadagnare – soprattutto in tempi di crisi come quelli in cui noi oggi viviamo o cerchiamo di sopravvivere – sono imperativi categorici. E il lavoro è diventato una dimensione invasiva, assorbe energie, sottrae tempo alla vita familiare.
Perciò andrebbe riattivata quella rete che Bauman chiamava communitas (3), un luogo che si allarga dalla famiglia al vicinato, al quartiere, alla città, fatto di aiuto solidale e concreto, di vicinanza fisica, affettiva, amicale. Purtroppo fagocitata dai social network, l’idea stessa di communitas è andata in frantumi, sostituita da legami virtuali.
Ne deriva un nuovo impegno collettivo. Nel nobile e necessario compito di ricostruzione della communitas - soprattutto come comunità educante - siamo coinvolti tutti, non solo in qualità di genitori, ma anche come insegnanti, amici, conoscenti, cittadini di una stessa patria, uomini e donne, persone che appartengono ad una medesima stirpe, quella umana. L’educazione è un processo infinito e ci riguarda tutti.
Resta, dunque, interessante la diatriba tra Demea e Micione negli Adelphoe. Severità (non autoritarismo) e dolcezza (non complice “lasciar fare”) sono false alternative, vanno calibrate: in medio stat virtus.
Il vero punto focale – e Terenzio stesso lo fa capire – è tutto in quel sua sponte recte facere: l’educazione consiste nel saper insegnare ad agire rettamente per scelta autonoma.
1 – M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 2003
2 - M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, 2013
3 - Z. Bauman Communitas, 2013