Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 2 luglio 2024

ENRICO GALIANO - UNA VITA NON BASTA

 

I'm in love / with my future.

(…)

Just wanna get to know myself.

B. Eilish, My future

 

Una vita non basta è il racconto delle incertezze dell’adolescente Teo, deluso dalla scuola che lo boccia, impacciato nelle relazioni con le ragazze, incompreso dalla sua famiglia complicata. Fanno da sfondo a questo libro i frequenti riferimenti ai romanzi di S. King – di cui Teo è un vorace lettore – e la musica di B. Eilish, che nel testo di My future sintetizza le ansie di una generazione di giovanissimi sopraffatti da un presente ingombrante, proiettati ansiosamente verso il futuro e in cerca di sé stessi.

Una vita non basta descrive lo smarrimento che travolge i giovani, ma ha un forte impianto propositivo: è un romanzo sulla solitudine e sui modi per superarla, analizza le tensioni relazionali, ma anche le possibilità concrete di (ri)costruire legami nonostante le barriere che la vita innalza, scruta i silenzi che ci separano, però nello stesso tempo suggerisce una via d’uscita dall’afasia nella capacità di restituire valore alla parola, al dialogo.

Incontro, parola, cura sono i tre concetti-chiave su cui Galiano punta per costruire un libro in grado di far virare la letteratura italiana contemporanea dal naufragio postmoderno verso la proposta di un senso possibile, nonostante il caos della Storia, delle nostre storie. Come scriveva Calvino, non si tratta di negare il labirinto, ma di sfidarlo.

Di fronte alla caduta delle solide verità, la letteratura ha risposto finora con il racconto di grandi disorientamenti, di insuperabili solitudini, dell’incomunicabilità senza riparazione.

Dalla lontananza affettiva dei verghiani Gesualdo Motta e Isabella, al solipsismo dei personaggi pirandelliani, dal bacio impossibile tra Gli amanti di Magritte, all’incontro mancato tra Baudelaire e la sua memorabile passante dalla bellezza fuggitiva, fulminea e inafferrabile, fino alla ben nota solitudine dei numeri primi, l’incontro con l’altro difficilmente ha superato lo stadio del conato, del tentativo, del passo frenato e abbiamo assistito di fatto alla sua evaporazione piuttosto che alla sua realizzazione.

Anche laddove l’incontro sia riuscito a trovare una strada (N. Ammaniti, Io e te), raramente è diventato – per circostanze certo non riconducibili alla volontà dei protagonisti – un rapporto concreto, è rimasto piuttosto un’epifanica rivelazione, un illuminante suggerimento su possibili alternative alle prospettive consolidate, ma rimane comunque un incontro che finisce. Non ha futuro. Forse lascia un segno, ma non dura nel tempo. E quello che resta al lettore, dell’incontro, è solo il bisogno, la triste conseguenza della sua mancanza, la nostalgia per un vuoto non colmato.

E invece, con una storia apparentemente semplice, vicina al vissuto quotidiano di molti adolescenti,  Galiano inverte la rotta.

In Una vita non basta non solo l’incontro è possibile, ma diventa il vero protagonista della vicenda narrata, si realizza, e con la sua forza costruttiva è in grado di imprimere una svolta decisiva alla vita di Teo.

L’incontro che costituisce il fulcro del romanzo, avviene in un parco pubblico tra il giovane Teo - addetto a lavori di pulizia socialmente utili per effetto di una sanzione disciplinare - e il professor Bove, un uomo dal passato oscuro, misterioso, certamente doloroso.

Tra coinvolgenti conversazioni e dialoghi di stampo maieutico, in perfetto stile socratico, il giovane Teo è gradualmente condotto dal prof. Bove alla scoperta di sé.

Nell’era del dominio tecnologico che non risparmia neanche la scuola, Bove riesce a tener desta l’attenzione di Teo con strumenti infallibili e intramontabili: la parola, l’ascolto, il confronto, il dialogo. Attraverso l’esempio di Bove, Galiano dimostra chiaramente che senza le parole, la lezione è vuota, come scrive G. Zagrebelsky non suo agile saggio La lezione.

C’è nello stile di Galiano una sensibile impronta classica, che non si limita ai miti che Bove attualizza nelle sue anticonvenzionali conversazioni con Teo. La didattica di Bove è una vera e propria sintesi del socratismo, racchiude l’essenza del percorso che ognuno di noi dovrebbe compiere – come recentemente ha dimostrato Goleman nello studio da lui condotto sull’intelligenza emotiva degli esseri umani – per la costruzione del proprio rapporto con la vita e con gli altri. I punti che Galiano nel suo libro affronta sono riassumibili in pochi, ma fondamentali imperativi:

-    - conosci te stesso, per imprimere alla vita la direzione che tu intendi darle;

- - ascolta il tuo daimon, quella cosa che ti urla dentro, che ha un potenziale enorme e che, se ben indirizzata, diventa fonte di creatività;

-   - vivi secondo misura, imparando a conoscere le tue capacità, i tuoi limiti, i sogni veramente tuoi, senza farti catturare da quelli spacciati da una società che adesca e distrugge;

 - non pretendere di avere sempre tutte le risposte: una vita non basta a trovarle...

Galiano attraverso Teo si rivolge al pubblico giovanile, invitandolo ad affrontare la vita con il coraggio che nasce dalla forza di affrontare anche i propri lati fragili. L’esortazione è quella di abbandonare l’abitudine a volare basso per paura di cadere, di non adattarsi mai alle sirene del quieto vivere, di non aver timore, dunque, di nutrire sogni, di impegnarsi a realizzarli, anche se questo implicherà il rischio di errori o insuccessi.

Galiano, però, dando vita al personaggio di Bove, si rivolge anche a un pubblico di adulti, ai genitori, ai docenti, a coloro che hanno responsabilità educative e compie un’azione di coraggiosa emancipazione dal mito didattico del mentore carismatico, sul modello del prof. Keating, protagonista del noto film americano L’attimo fuggente.

Bove è l’evoluzione di Keating, rappresenta il suo volto migliore: liberato dal narcisismo che attraverso il motto “capitano, mio capitano”, trovava in Keating una perfetta incarnazione, Bove è invece un uomo che ha fatto dei propri errori un’occasione di crescita, di presa di coscienza. Bove con la sua vita dimostra che la saggezza si conquista sbagliando.

Keating si è spinto dove non doveva, troppo oltre: ha alterato in giovani ancora impreparati alla vita, equilibri fragili e instabili, ha finito con l’avere sulla coscienza il suicidio di uno studente, ha forse generato in lui l’ansia di raggiungere la meta, privandolo così del piacere del viaggio. Bove, invece, sa bene che un docente può trasformarsi nell’inferno per qualcuno se con le sue parole non calibrate si spinge verso limiti che non vanno valicati. È perfettamente consapevole del fatto che insegnare è un terreno scivoloso e che il confine tra carisma e manipolazione è sempre molto labile. Keating probabilmente questo confine l’ha oltrepassato, infondendo nei suoi studenti una vorace ansia di esperienze senza fornire loro i mezzi per la gradualità necessaria a viverle. Bove, al contrario, ha saputo individuare la giusta misura, insegnando al suo Teo, sulla scia di Orazio, che la vita è un eterno ritmo tra salite e discese: non, si male nunc, et olim sic erit,  "se adesso va male non sarà così anche in futuro". E diversamente da Keating, per Bove carpe diem non vuol dire premere l’acceleratore sulla vita, ma saper eternare quell’attimo che davvero conta.

Attraverso il personaggio di Bove, Galiano restituisce alla figura del docente la funzione di Maestro: in quel venite con me che rivolge agli studenti, nella sua scuola a cielo aperto, senza voti e senza registri, Bove dimostra che nella parola c’è qualcosa di salvifico che nessuna Intelligenza Artificiale o sofisticata, avanguardistica, tecnologia didattica potrà mai riprodurre. Cristo, che con la parola si è sempre identificato, con il suo venite con me ha incoraggiato i discepoli a usare la parola per curare anime, lenire dolori, riscattare quanto di umano c’è nella vita.

La parola è cura dell’Altro, con la parola si costruiscono i legami di humanitas su cui si reggono le democrazie migliori, perché, scrive Galiano, non esiste persona senza il sostegno di un’altra persona. Lo diceva anche Terenzio nel I secolo a. C.: homo sum, humani nihil a me alienum puto, “sono un essere umano, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me”. In fondo la scuola proprio questo deve insegnare.

                        Teresa D'Errico 

(Cfr.: https://www.glistatigenerali.com/letteratura/enrico-galiano-una-vita-non-basta/)


giovedì 13 giugno 2024

FRANCESCO CAROFIGLIO - LA STAGIONE BELLA

 

La stagione bella è un romanzo intenso e propositivo: pur senza sottrarre nulla alla profondità del dolore che attraversa l’esistenza umana, F. Carofiglio suggerisce che esiste comunque un altrove possibile, una stagione bella, una frontiera dell’oltre che, certo, sta a noi saper raggiungere.


La protagonista, una giovane donna, Viola, nel suo laboratorio crea fragranze che sono per lei qualcosa di più che semplici profumi: lei le definisce una strategia terapeutica, aprono le stanze segrete dell’inconscio, raccontano le emozioni senza passare attraverso le regole dell’intelletto. Infatti Viola, laureata in psicologia, consente ai suoi clienti di recuperare le loro memorie olfattive: attraverso le fragranze li riconnette con il loro mondo interiore, con il loro passato, liberando dal rimosso emozioni nascoste.

Viola ha perso recentemente la madre, Barbara. Perciò è prostrata dal lutto, ma trova momenti di sospensione alla sua amarezza nuotando: l’acqua è la sua libertà.

Mentre riordina la casa materna, un giorno, per caso, trova una scatola che contiene lettere e fotografie della madre, persino registrazioni della voce di Barbara, ancora ragazza, studentessa alla Sorbona di Parigi. La sua voce allegra, il suo volto sorridente, portano Viola a una presa di coscienza: lei della madre non sa niente, così felice non l’ha mai vista. C’è un pezzo di vita di Barbara che a Viola è ignoto e che però la riguarda. Viola comprende che senza memoria c’è il buio, anche sulla sua vita, anche sul suo presente.

A questo punto inizia la quête di Viola, un percorso di ricostruzione del passato della madre e soprattutto di ricerca di quel padre che a Viola è sempre mancato, che lei non ha mai conosciuto e di cui la madre non ha mai voluto parlare. Da questo viaggio a Parigi alla ricerca di risposte, da questo percorso di autocoscienza, per Viola nasceranno nuove prospettive su di sé e sul senso del dolore.

La scelta di intersecare il lavoro di olfattivista con quello di psicologa trova nel romanzo un input letterario. La protagonista dichiara di essersi ispirata, infatti, a un racconto di Calvino, Il nome, il naso (che fa parte della breve raccolta Sotto il sole giaguaro): come il personaggio di Calvino, anche Viola cerca di dare un nome a una commozione dell’olfatto. E si tratta di un impegno nobilissimo. Oggi siamo terribilmente dipendenti dalla dimensione visiva e in cerca di visibilità, che è  stata ormai messa da parte la capacità orientativa dell'olfatto. Calvino scriveva che abbiamo dimenticato l’alfabeto dell’olfatto e così i profumi resteranno senza parola, inarticolati, illeggibili e con loro anche le emozioni ad essi collegate. Rischiamo di diventare analfabeti emotivi. Calvino nel suo racconto nota che in passato, quando noi esseri umani non eravamo ancora completamente evoluti e vivevamo a contatto con la terra, tutto quello che dovevamo capire lo capivamo col naso prima che con gli occhi … il cibo il non cibo il nostro nemico la caverna il pericolo tutto lo si sente prima col naso, tutto è nel naso, il mondo è nel naso … l’odore subito ti dice senza sbagli quel che ti serve sapere. La storia umana invece ha ridotto il nostro “rapporto olfattivo” con la realtà, nell’era dell’homo videns, il naso ormai conta poco. E invece per Viola il profumo funziona come una madeleine proustiana, attiva memorie e emozioni.

Al di là dello studio che Viola conduce sulla dimensione interiore delle persone che frequentano il suo laboratorio, il tema dominante del libro di F. Carofiglio è il rapporto tra Barbara e Viola, madre e figlia: un legame strettissimo, fatto, sì, di profondo amore, ma anche di ombre. Con Barbara Viola ammette ossimoricamente di aver avuto un legame insano e perfetto. Il loro è un rapporto caratterizzato da parole dette e svanite, da molti silenzi. La giovane donna sul letto di morte di Barbara riflette sul suo legame con la madre: penso alla sua vita, alla mia, così annodate. ANNODATE è un aggettivo ambiguo: indica due vite unite, sì, ma pure non lineari, fatte cioè di nodi non sciolti che pesano. 

Se del padre Viola ha subito l’assenza, della madre invece dice, con un peso sul cuore, non riesco a ricordare quasi nulla che non contempli la sua presenza. Barbara è stata una madre forte, lei ha imposto alla figlia il nuoto (certo poi Viola lo ha amato, è diventata la sua passione, ma si è trattato in origine di una scelta della madre) anche nei momenti più delicati: Viola ricorda con terrore il giorno in cui ha detto a Barbara di non sentirsi bene, ma la madre senza dare peso alle parole della figlia, l’ha spinta a nuotare ugualmente, non l’ha ascoltata, e nella memoria della ragazza ora c’è solo una piscina allagata di sangue. Quello ricordato da Viola è il giorno del suo primo ciclo mestruale. E ora, dopo anni, questo trauma non si cancella: ti odio, mamma, ti odierò per sempre.

Barbara ha tenuto stretta a sé Viola, non ha fatto entrare nessuno nella loro vita: non abbiamo bisogno di nessuno, tu e io, ha sempre ripetutoUn microcosmo, una prigione? Il lettore scoprirà che Barbara ha solo cercato, per tutta la vita, di proteggere sua figlia, per infinito amore, da un infinito dolore. Ma Viola ancora non lo sa. Lo capirà dopo e rivolgendosi idealmente alla madre morta, ammetterà: mi hai protetta ferocemente.

M. Recalcati nel saggio Le mani della madre, scrive che l’eredità materna riguarda il sentimento della vita. Dalla relazione con la madre deriva il nostro rapporto con la vita. E quella che Barbara ha trasmesso a Viola è un’eredità emotiva complessa, che ha lasciato segni, cicatrici, insieme a un profondo amore.

L’anatomia del dolore di Viola condotta dall’autore rende La stagione bella un romanzo profondamente ovidiano. A Ovidio, infatti, ci sono riferimenti espliciti: viene citato chiaramente l’Ovidio delle Metamorfosi. Ma il libro di F. Carofiglio è ovidiano per un particolare meno esplicito, eppure, forse, più importante, per una frase che condensa il senso di questo romanzo. Quando Viola si reca a Bari per incontrare l’amico Matteo, poliziotto, da cui spera di avere aiuto nella ricerca del padre, Viola dice a se stessa, stanca di soffrire: questo momento passerà e questa sofferenza mi sarà utile.

Questa sofferenza mi sarà utile è la traduzione di un verso degli Amores di Ovidio: dolor hic tibi proderit olim, “un giorno questo dolore ti sarà utile”.

Viola sta capendo che con il dolore bisogna imparare a convivere per rinascere: è questa la lezione che F. Carofiglio ricava anche dal KINTSUGI, l’arte giapponese che ripara i vasi rotti lasciando in evidenza le crepe, decorate con oro, affinché si vedano. Il vaso riparato è però un vaso nuovo.

Nella vita è così, tutto si trasforma: è il principio ovidiano delle Metamorfosi, omnia mutantur, tutto cambia, anche il dolore. Le ferite a un certo punto smettono di sanguinare e diventano cicatrici.

Dopo aver svuotato la casa della madre e riverniciato le pareti di bianco, Viola dice non so ancora cosa ne farò, ma adesso è una casa vuota, e piena di luce. La stagione bella è quella del cambiamento, della speranza, che non cancella il dolore, ma lascia spazio alla luce, se si impara a perdersi nei propri desideri, se si riesce a riconoscerli e ad ascoltarli. E questa è una delle eredità emotive che Barbara ha lasciato a Viola: se ci perdiamo scopriamo i segreti delle città. Nella nostra vita dobbiamo imparare ad attraversare le strade dei nostri desideri, al di là degli schemi razionali.

Inoltrarsi nella lettura de La stagione bella significa incontrare numerosi e stimolanti riferimenti letterari. In particolare colpiscono le molteplici citazioni di Virginia Woolf, tratte da Mrs Dalloway, da Orlando. Il romanzo si apre in esergo con una frase del più sperimentale dei libri di V. Woolf, Le onde: e se finisse qui la storia?/ Con una specie di sospiro?

Le onde è il romanzo di V. Woolf che meglio ritrae la mutevolezza della vita, la sua mancanza di linearità, la molteplicità delle prospettive che la connotano, il flusso ininterrotto con cui l’esistenza si manifesta e scorre, la sua atomizzazione in frammenti dispersi che non si lasciano ricomporre in un quadro definito e completo. E Viola se ne rende conto, gradualmente: niente somiglia a quello che è stato. La vita scorre, le cose cambiano, omnia mutantur.

Sospeso tra Ovidio e V. Woolf, la stagione bella sembra suggerire che la chiave interpretativa delle nostre vite sta proprio nel deporre la pretesa di definire tutto, di definirci. Forse è questo che va accettato: essere un po’ flaneur dentro la propria vita e avere la forza di vivere come Ginevra, un personaggio secondario de La stagione bella, ma a cui F. Carofiglio riserva uno spazio fondamentale. Ginevra è una donna anziana, libera da formalismi e ipocrisie, ha avuto amanti e un passato abbastanza spregiudicato. In Ginevra, nel suo essere senza filtri, nell’aver capito che non esiste un modello di vita ideale, assoluto, giusto, cui attenersi, Viola vede un punto di riferimento. C’è una frase dal valore epifanico con cui Ginevra assolve il padre che a lungo ha disprezzato: ognuno è quello che riesce ad essere. E questa è la profondissima rivelazione che colpisce Viola e forse la cambia per sempre. È in questo momento che inizia la svolta di Viola verso la speranza che un’altra vita è possibile e che bisogna accettare anche l’imperfezione, l’indefinitezza, le asimmetrie dell’esistenza.

In definitiva potremmo considerare La stagione bella un romanzo sulla ricerca della felicità. Sei felice? è la domanda che Viola rivolge all’amica Valeria, ma più probabilmente a sé stessa.

Verso la fine del libro di F. Carofiglio c’è un’immagine che monopolizza l’attenzione di Viola, giunta in Bretagna per le sue ricerche: l’oceano è di piombo, le onde si infrangono sulla scogliera, un paio di uccelli marini si lanciano a precipizio sott’acqua, riemergendo subito…

Nel dolore si precipita, dal dolore si riemerge.

Omnia mutantur, πάντα ῥεῖ.

                                                                                                                   Teresa D'Errico

(Cfr.: https://www.glistatigenerali.com/letteratura/francesco-carofiglio-la-stagione-bella/ )

 

venerdì 17 maggio 2024

L'ARCO NASCOSTO - POESIA INEDITA DI IDA LUCIA MUSCI

 

Poesia, dal nulla salvami

dalla droga del vacuo

e dell’effimero.

Ridammi l’anima…

(Ida Lucia Musci, Poesia)

Nell’era del digitale, della tirannide mercatista che definisce valori solo quelli funzionali all’economia, in un presente travolto dalle seduzioni della società dello spettacolo, dai vantaggi di uno sviluppo che si rinnova senza soste lasciando però macerie dietro di sé, in una società sul punto di implodere per il cumulo di errori che la sopita memoria storica non ha saputo riconoscere, forse, come già presagiva Montale, non c’è più spazio per la poesia: in un mondo del genere, diceva il poeta ligure ritirando il Nobel, che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo.

Senza dubbio è vero, oggi l’attenzione per la poesia è ridotta. 

La poesia è arte difficile, richiede tempo … e la lentezza è un principio che confligge profondamente con la cultura fast che connota il nostro tempo. Tuttavia scrivere versi resta una delle inclinazioni più profonde dell’animo umano, per alcuni è quasi un’esigenza e forse in un’epoca di profonda crisi dei fondamenti come la nostra, proprio i dubbi dei poeti, i loro slanci propositivi, il loro dolore così vicino a noi, le loro speranze, labili, sì, ma pure espresse, ci salveranno dal vacuo e dall’effimero cui la Storia ci sta consegnando.

Sono i versi dei poeti, la loro voce, la forza della parola scritta che consentono – come nota J. Cortázar - di trovare strade che ci aiutino ad andare avanti quando ci sentiamo frenati da circostanze e fattori negativi che oggi il presente purtroppo non lesina. Sono i poeti che ci donano quello che Borges chiamava il miracolo segreto, la porosità cioè di un tempo che dietro l’apparente suo svolgersi ciclico e cronologico, è fatto di epifanie, dilatazioni, soste, varchi, lampi e miraggi: è lì che si annida la Poesia a cui I. L. Musci si appella e che con apostrofe diretta chiama in causa: dal nulla salvami, ridammi l’anima.

A questo serve la Poesia, forza irrinunciabile anche nei tempi in cui sembra più facile appendere le cetre alle fronde dei salici: a restituire l’anima al nostro tempo del disamore.

Nella silloge ancora inedita di I.L. Musci, intitolata Ascolterò le sinfonie delle stagioni, gli spunti di riflessione sono molteplici. Tra rimandi montaliani e baudelairiani, accanto a una personale rivisitazione della migliore tradizione lirica, c’è in particolare un componimento, (L’arco nascosto) che con originalità, delicatezza e acuta lucidità riesce a cogliere quello che l’essere umano da sempre cerca: un varco – lo chiamerebbe così Montale – che consenta a ciò che conta di avere spazio.

L’ ARCO NASCOSTO

Maria dalle mani gonfie per l’artrite

quella che abitava all’arco nascosto

ha passato i suoi giorni

a cuocere verdure e sciorinare bucati.

Ha visto e curato figli e nipoti

ed ha parlato con le vicine del tempo

e della processione del patrono,

né mai ha svelato Orione all’orizzonte

e il sole che cade nel mare della sera;

né ha pensato con Cartesio

pianto con Leopardi

provato il brivido

dell’ Eterno Ritorno

che, solo, poteva consolarla

nel momento di andare.

Pure è stata felice

in un giorno, in un’ora;

ha riso alla vita

e al nuovo sole

senza chiedersi se fosse il suo.

Ma io che vedo

che conosco e so

conto costellazioni

leggo poeti

cerco auspici di voli

vorrei lasciare tracce

e possedere silenzi e aperti cieli,

non riesco a trovare

il mio posto nel mondo

e, nel tempio di memorie,

la mia festa perfetta. 

L’alta sapienza è inutile

nel mio arco nascosto:

dovrò saper cercare

a testa china

pietre sconnesse

per conoscerle

amarle

e non cadere.

 

L’immagine di Maria intenta al suo lavoro ordinario  - cuocere verdure e sciorinare bucati – ha un enorme potere rivelativo e avvicina questa umile donna che abitava all’arco nascosto, ai grandi della letteratura.

C’è un passo di Cent’anni di solitudine che chiarisce ciò che nella sua inconsapevole acutezza Maria comprende bene:

In quella notte interminabile, mentre il colonnello Gerineldo Márquez rievocava i suoi pomeriggi morti nella stanza da cucito di Amaranta, il colonnello Aureliano Buendía grattò per molte ore, cercando di romperlo, il duro guscio della sua solitudine. Gli unici istanti di felicità, dal pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio, li aveva trascorsi nel laboratorio di oreficeria, dove passava il tempo montando pesciolini d'oro. Aveva dovuto promuovere trentadue guerre, e aveva dovuto violare tutti i suoi patti con la morte e rivoltarsi come un maiale nel letamaio della gloria, per scoprire con quasi quarant'anni di ritardo i privilegi della semplicità.

Esattamente come il principe di Salina nel Gattopardo, Aureliano Buendia sta cercando di individuare i momenti della vita in cui è stato felice, fa un bilancio esistenziale: sta isolando attimi e istanti, sta eliminando tutto il superfluo.

Anche Tomasi di Lampedusa infatti fa dire al suo meditativo personaggio che voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici e perciò si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto.

Pesciolini d’oro per Marquez, Pagliuzze d’oro per Tomasi di Lampedusa: due immagini simboliche che evocano qualcosa che brilli nel grigiore della vita. Maria nella sua ordinaria quotidianità l’ha saputo trovare: ha saputo ridere alla vita, scorgendo la luce del nuovo sole senza chiedersi se fosse il suo, non ha cercato risposte nell’alta sapienza, nella saggezza dei filosofi o nella cabale delle costellazioni. Ma ha curato, ha parlato: così è stata felice. Ha trovato l’essenza dell’umano nella cura, nell’amore, nella parola, nell’incontro, nella capacità di ridurre le distanze con l’altro.

Quelle di Aureliano Buendia, del principe di Salina e di Maria sono sottrazioni volontarie: consistono nell’isolare quei momenti della nostra esistenza, recuperare dall’archivio della memoria quegli attimi in cui la vita è stata degna di essere vissuta. Maria con la sua aderenza all’autenticità dell’esistenza, lo ha capito.

Noi nasciamo, cresciamo e cerchiamo di aggiungere, accumulando investimenti materiali, esperienze connesse al lavoro, al divertimento, alla realizzazione di noi stessi in molteplici ambiti, perché consideriamo – da sempre – l’addizione come un’acquisizione positiva (in matematica si segna con un +). La sottrazione al contrario tende ad essere vista come perdita, un meno in matematica, al punto che nel linguaggio giuridico parliamo di sottrazione addirittura per indicare un atto criminoso, un furto.

Invece Aureliano Buendia scopre una verità sconvolgente, con quasi quarant’anni di ritardo, ma la scopre: i privilegi della semplicità. E questa luminosa evidenza ha irradiato anche la vita di Maria.

I. L.Musci sa bene quanto pesino le noie dell’eccesso (in Miserere), è consapevole perfettamente del fatto che il pieno della vita ci ha reso vuoto il cuore  (ancora in Miserere)  così come Aureliano Buendia capisce che c’è troppo superfluo intorno a noi e che, invece, l’essenziale è fatto di poche cose, semplicità è la parola-chiave: sottrarre per isolare l’essenziale.

Nella vita IL MENO DIVENTA PIÙ se capiamo dove rivolgere la nostra attenzione e dedizione. Dobbiamo imparare a leggere l’esistenza con gli stessi occhi di Maria e capire che cosa veramente conta. Occorre saperla filtrare e passarla al setaccio, la vita. Orazio diceva alla sua Leuconoe  - nella famosa Ode I,11, nota come Carpe diem - sapias, vina liques: usava l’immagine del filtrare il vino per separare la parte buona da ciò che si deposita sul fondo. E rivolgendosi alla sua giovane, inesperta, amica Leuconoe il poeta le dice sii saggia, la esorta con il congiuntivo sapias, che prima ancora di significare, appunto, sii saggia, vuol dire “da’ sapore ai tuoi giorni” con un atto di attento discernimento nella costruzione della gerarchia di valori verso i quali orientare i giorni dell’esistenza.

La stessa cura e attenzione alla semplicità  ricorre nella Lattaia di Vermeer,

J. 
figura molto vicina alla Maria di I. L. Musci: il fiotto del latte e la ragazza acquistano una forza epica nel loro accamparsi al centro del quadro, dritti davanti allo spettatore. Nel gesto della Lattaia il tempo si ferma, un attimo insignificante si dilata all'infinito e racchiude il segreto della vita.

Il lavoro ben fatto della Lattaia, il gesto necessario di Maria (cuocere verdure e sciorinare bucati, curare figli e nipoti) ma anche quello non necessario eppure bello (parlare con le vicine del tempo e della processione del patrono) nel mondo che dispiega il suo caos sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno: di queste esperienze elementari (la semplicità, dice Aureliano Buendia) è fatta la trama delle occasioni minime che compongono la nostra esistenza, occasioni minime che tocca a noi dilatare e riempire di senso. E per questo non serve Cartesio, scrive I.L. Musci, che con l’amarezza intensa dei Poeti dice a se stessa: ma io che vedo/che conosco e so/…/non riesco a trovare/il mio posto nel mondo. La conclusione cui giunge la poetessa è molto vicina alla dura constatazione di Pasolini quando nelle Ceneri di Gramsci ammette: io possiedo… io possiedo la storia … ne sono illuminato: ma a che serve la luce?

La verità che Maria sa cogliere nella sua schietta semplicità è che nella cura, nelle parole scambiate con le amiche è racchiuso ciò che veramente conta per l’essere umano.

E anche se la vita è fatta di pietre sconnesse, scrive la poetessa, vale la pena imparare ad amarle, perché è forse tra quelle sconnessioni che si nasconde il montaliano anello che non tiene, quella verità, cioè, che la logica ferrea delle leggi deterministiche non potrà mai cogliere e che, invece, solo la Poesia può far intuire.

In fondo, questo è la Poesia, suggerisce I. L. Musci, l’incerto tentativo di procedere sulla polvere di inutili giorni (in La mia strada) alla ricerca di una possibilità. Certo, l’arida foglia/ che rotola sui massi/ha perso linfa… ma pure ritroverà la terra/ germoglierà in future primavere./ Tutto ritorna dall’oblio/ per rinascere ancora (Oblivion)

Rinascere ancora. Sì, nonostante tutto, la poesia può rinascere ancora, per la speranza c’è ancora spazio.

Lo stile di I.L. Musci è denso: parte dalla realtà e fa delle cose del mondo emblemi di stati d’animo universali. L’osservazione va oltre il fenomeno e si spinge dentro l’esistenza: per esempio, il nostro labirintico cercare risposte che mancano, abbagliati da un sole che non illumina, ma, piuttosto, acceca e stordisce, è reso icasticamente con l’immagine di giri di serpi/ abbacinate dal sole (in Cosa resta?).

E questa capacità è propria degli artisti, è il talento di vedere quello che gli altri non hanno visto, o forse, meglio, come scrive R. Carver, è il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato.

                                                                                                                           Teresa D'Errico

 

 

 

 

 

lunedì 25 marzo 2024

RICCARDO CHIABERGE - LA FORMULA DELLA LONGEVITÀ

                     SCHEDA DEL LIBRO 

LA FORMULA DELLA LONGEVITÀ


La formula della longevità testimonia il grande lavoro di studio e di ricerca condotto da Riccardo Chiaberge per ricostruire la biografia di uomini e donne che hanno rivoluzionato la storia e ci hanno allungato la vita con le loro scoperte. Il testo di R. Chiaberge racconta la storia delle grandi intuizioni e invenzioni, non solo per i loro esiti vantaggiosi, ma soprattutto per il fascino del loro “farsi”: l'autore le illustra infatti nel loro nascere a volte grazie all'impegno tenace dei ricercatori, più spesso per improvvise e geniali illuminazioni, oppure per colpi di fortuna, per semplice caso, lampi di serendipity.

R. Chiaberge non si sofferma solo sulle grandi scoperte scientifiche e mediche da parte di scienziati già noti, ma scrive anche di personalità meno conosciute che con la loro curiosità, con i loro ideali e con le loro lotte per una maggiore giustizia sociale, hanno contribuito a rendere la vita umana più degna.

Pertanto il genere biografico scelto da Chiaberge per la Formula della longevità, non è mai celebrazione agiografica, ma si configura piuttosto come l’accurata e piacevole ricostruzione di vite complicate, di personalità sfaccettate, affascinanti, a volte spregiudicate, ma sempre molto vicine al mondo dei lettori proprio per le umane debolezze che caratterizzano i loro comportamenti e che l'autore non omette di descrivere. Raccontare la vita di personaggi in certi casi persino sgradevoli, ma che in varia maniera con il loro genio e la loro passione, hanno contribuito alle grandi svolte della vicenda umana, è un modo originale e accattivante di interrogarsi sul senso della storia.

La conclusione cui l'autore giunge è molto propositiva. Sebbene oggi sia stretto tra rischi di guerre, pandemie e minacce nucleari, questo nostro Occidente ha però conosciuto anche secoli di  progresso grazie al quale abbiamo imparato che non si può vivere in un ambiente malato e in un mondo ingiusto. Le biografie che Chiaberge propone ai suoi lettori dimostrano che la salda unione tra scienza, giustizia e amore per l'umanità è la chiave di volta per un progresso orientato al bene.

Nella Formula della longevità si alternano ironia, umorismo e ricostruzione storica. Il sapiente gusto per il racconto e la vocazione narrativa di Chiaberge catturano i lettori, trasferendo su di loro l’entusiasmo dell'autore per le conquiste intellettuali, politiche, scientifiche.

Il messaggio finale che l'autore affida al suo libro - tra realistica consapevolezza dei pericoli del presente e ottimistica fiducia nel genere umano -  sembra ricalcare la nota esclamazione con cui il galileiano Sagredo sottolineava quanto sia grande l’acutezza dell’ingegno umano.

Infine con una riflessione che ricorda la sapienza senecana e la differenza che il filosofo di Cordova faceva tra il biologico diu esse e il prezioso diu vivere, Chiaberge citando una longeva donna e nota scienziata, Rita Levi Montalcini, sottolinea che è meglio aggiungere la vita ai giorni che i giorni alla vita. 


           L'AUTORE      

RICCARDO CHIABERGE ha diretto le pagine culturali del Corriere della Sera e del supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Oggi collabora con Il fatto quotidiano.  È il biografo italiano di GUGLIELMO MARCONI.





Nella biografia dello scienziato curata da Chiaberge e intitolata 
Wireless. Scienza, amori e avventure di Guglielmo Marconi, scopriamo un Marconi non solo scienziato, ma anche uomo, figlio problematico, marito difficile, inguaribile tombeur de femmes (ebbe tra le sue amanti l’attrice Francesca Bertini), e  sostenitore del fascismo. 


Giornalista, saggista, ma anche autore di testi narrativi, Chiaberge nel romanzo Salvato dal nemico, rievoca il mistero di una strage nazista perpetrata in un villaggio del Piemonte contro 51 cittadini innocenti di cui solo uno fu salvato all’ultimo istante. Si tratta di una vicenda che mescola ricostruzione storica, sfumature noir e l’ansia - a tratti fenogliana - della “questione privata”, della ricerca della verità, perché l’uomo risparmiato dall’aguzzino nazista, è il padre del narratore.


INTERVISTA A R. CHIABERGE





mercoledì 20 marzo 2024

MARCELLO VENEZIANI – L’AMORE NECESSARIO

SCHEDA INFORMATIVA DEL LIBRO

L’amore necessario è il titolo del saggio che M. Veneziani dedica al tema dell’amore come energia universale e individuale. Edito da Marsilio nel 2023, il testo è strutturato come un percorso dantesco che delinea in nove gradi le varie sfaccettature dell’amore. Quello che Veneziani esamina non è un semplice sentimento, bensì una forza che ci unisce in legami di affetto, appartenenza, connessione, comunanza e reciprocità ma che il narcisismo, l’individualismo e l’egoismo, oggi così diffusi, hanno marginalizzato, al punto da trasformare il presente nel tempo del disamore, una  forma di nichilismo che trae origine dalla rottura delle relazioni umane e dal trionfo della solitudine del digitale.

Così l’EGO è diventato il solo centro d’interesse di una nuova umanità senza legami, persa nell’indifferenza e nell’anoressia sentimentale.

L’auspicio dell’autore è che si torni a un amore necessario, fondato sul carattere solido di legami (con gli altri, con il mondo, con la vita, con la realtà) che non si possano recidere né mettere in discussione: vincoli forti, capaci di attingere all'intensità del più infrangibile degli amori, quello materno.

Dopo aver liquidato convintamente l’amore libero, svincolato da impegni, Veneziani nota che è piuttosto sull’indissolubilità dei legami che si fonda la nostra libertà. Riferendosi al mondo antico, l'autore ricorda che Aristotele - più volte citato nel saggio - sottolinea come solo gli schiavi non abbiano legami: da tale condizione deriva infatti la loro sostituibilità. L’uomo libero invece, che perciò lo Stagirita definiva "animale sociale",  è colui che ha legami civili, politici e familiari. E nella struttura relazionale dell’essere umano si radica l’amore, osserva Veneziani.

L'amore necessario presenta un’attenta analisi delle varie forme d’amore (philia/amicizia, agape/amore spirituale, storghé/affetto naturale della consanguineità, thelema/ dedizione ai progetti) e risale alle sue più antiche definizioni: citando Platone, Veneziani scrive che Amore è figlio di Poros e Penia, ricchezza e povertà; è, quindi, contemporaneamente, bisogno di dare e di ricevere; è apertura all’Altro, e nel suo grado più elementare - l’amore di coppia - non è mai possesso, consiste piuttosto nel com-baciare, nel comprendersi e nell’accettarsi reciprocamente, senza però rinunciare a migliorarsi.

Nella postilla finale – un’appendice dedicata al postumanesimo caratterizzato dal dominio incontrastato dell’Intelligenza Artificiale - Veneziani mette in guardia i suoi lettori dalle derive del prometeismo contemporaneo colpevole di sostituire l’umano con il digitale, il reale con il virtuale: si assiste così, simultaneamente, da un lato al trionfo dell’Intelligenza Artificiale e dall’altro all’arretramento dell’Intelligenza naturale, della sensibilità culturale, la sola forza che invece è in  grado di contenere gli effetti di una tecnologia sganciata da ogni freno e faustianamente spinta al di là di ogni limite.

Tuttavia, conclude l’autore, c’è qualcosa di umano che nessuna macchina riuscirà mai a fare: amare. L’amore presuppone il cuore, il desiderio, lo scopo: fattori insostituibili che l’IA non possiede.

Infine, conclude M. Veneziani, per alimentare l’amore occorre più sapere umanistico. Solo così si realizzerà l'unico obiettivo che vale la pena raggiungere: restare umani.

 



 

lunedì 12 febbraio 2024

DAVIDE GRITTANI - IL GREGGE

 

“Alle città servono più sentimenti che sindaci, basterebbe sentirle davvero nostre per proteggerle come si fa con una storia d’amore”: è questa la tesi di fondo del nuovo romanzo di D. Grittani, Il gregge (Alter Ego, 2024). Si coglie in maniera evidente il filo rosso con A. Gramsci che, in un famoso articolo del 1917 intitolato Politici Inetti – Una verità che sembra un paradosso, sottolineava come più che tecnica o strategia, a chi fa politica sia necessario avere fantasia, profondità spirituale, sensibilità, simpatia umana: “perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere”.

Ebbene Grittani dimostra che al ceto politico attuale la fantasia manca: non ce l’hanno né Matteo Migliore né Michele Ametrano - avversari politici che nel libro Il gregge affrontano la competizione elettorale per la candidatura a sindaco di una grande città del Nord Italia, probabilmente Milano, ma forse una qualunque nostra città. Si scontrano su poli opposti, però hanno le stesse finalità e modalità operative, cercano consensi, non hanno scrupoli, vogliono potere: “l’ossessione per il consenso ha disperso i confini della ragione”. Quella forza distruttiva che inabissò la res publica romana preparando il terreno al regime augusteo, la cupido imperi – come la definisce Sallustio, mettendo in evidenza che allora come oggi si accompagna a una pericolosissima cupido pecuniae - non è mai morta, anzi, continua senza sosta a inquinare l’idea di politica. Matteo Migliore, infatti, fagocitato dall’ambizione, è la sintesi perfetta della peggiore corruzione mista a retorica razzista e tentazioni superomistiche: non esita a ricorrere alla violenza per sbarazzarsi di chi, indagando sul suo passato, rischia di far emergere i loschi affari di cui è stato artefice. Inizia così una storia di omertà e complicità dalle disastrose conseguenze. Michele Ametrano non ha remore a cavalcare la tragica sventura in cui incorre il suo avversario e a fare del trasformismo, del clientelismo, le regole del gioco politico. Davanti al suo comitato elettorale si raduna gente “disposta a qualunque cosa pur di essere ricevuta” e Ametrano elabora tattiche per arrivare dove forse neanche Migliore si è spinto: “alla brutalità del bene”. Cavalcare il disagio sociale, speculare sulla condizione di bisogno delle persone impoverite da un sistema che da anni tutela i privilegi e calpesta i diritti: è questo il modus operandi dei politici sempre a galla. Non è il male che si nasconde dietro il volto dell’uomo perbene, non è, cioè, la banalità del male che oggi spaventa, ma  piuttosto la brutalità del bene, scrive Grittani, quello cioè che il politico scaltro mefistofelicamente promette per chiederti poi, insieme con il voto, l’anima in cambio.

Non importa a quali politici l’autore si stia in realtà riferendo, sono chiaramente riconoscibili. Tutti cogliamo dietro le sue ironiche descrizioni, il profondo disgusto per una fase storica come la nostra in cui abbiamo permesso “alla mediocrità di occupare il posto della democrazia. Di occupare tutti i posti”. Abbiamo, noi, costruito l’ultranulla, lo svuotamento dell’idea stessa di politica, la caduta degli ideali, e ci siamo assuefatti, non abbiamo cercato alternative, abbiamo accettato tutto, “come un gregge qualsiasi”. Noi “abbiamo imparato a escludere l’etica dai nostri sistemi operativi”, considerando normale, parte del gioco, il fatto che i mediocri senza idee, ma abbastanza furbi da usare “una lingua chiara e comprensibile” adatta a “concetti elementari”, abbiano saputo farsi strada tra la disperazione delle folle, perché “nessun altro ha saputo interpretare quel disagio”. L’ultranulla siamo noi con la nostra antipolitica, con la nostra indignazione solo urlata, noi che ci siamo sottratti alle nostre scelte, noi con il nostro astensionismo nichilista: “sono state le nostre rinunce a incoraggiare l’emersione di questo nulla”.

La voce narrante è quella del compagno di classe di Matteo Migliore, il politico che recluta i vecchi amici del Liceo Pasolini nello staff degli organizzatori della sua campagna elettorale. I nomignoli con cui tra loro si identificano sono rimasti gli stessi con cui si chiamavano ai tempi del liceo, nessuna variazione, come nella loro incoscienza: “è stato strano lasciarli immaturi e ritrovarli immutati”, commenta l’io narrante. Il protagonista del romanzo affronta invece un percorso di crescita e trasformazione: inizialmente accetta di collaborare alla campagna elettorale di Migliore, lo fa non per convinzione, ma per incapacità di dire di no, quella stessa incapacità che ci rende schiavi del destino e non uomini in rivolta, come direbbe Camus. L’esperienza di questa folle collaborazione lo renderà consapevole dell’ultranulla e delle degenerazioni di un ingranaggio che di politico non ha niente, visto che per politica si deve intendere la nobile cura del bene di tutti.

L’ultranulla, sottolinea Grittani non è però solo l’inadeguatezza, l’incompetenza, il vuoto valoriale e l’inanismo di un’intera classe dirigente nata dalle macerie di uno Stato aggredito dallo stragismo, morto con il delitto Moro, deturpato dalla solitudine immensa alla quale sono stati condannati i grandi Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino.

L’ultranulla è una nuova forma di terribile nichilismo. In passato il nichilismo è stato attivo, generativo. Camus nel suo più doloroso romanzo, La peste, spiega che se nella sua Orano dominano orrore e desolazione, chi è uomo deve “restare”. Padre Paneloux di fronte all’irrazionalità del male che uccide i bambini, ammette lo scandalo di non avere risposte, ma la sua reazione non è certo la fuga, bensì lo scatto umano, la responsabilità di continuare a “camminare nelle tenebre e tentare di fare del bene. “Bisogna essere colui che resta”, gli fa dire Camus: questo significa essere uomini.

Grittani fa coincidere l’ultranulla con una grave patologia del corpo sociale, l’indifferenza, “il peso morto della storia” la chiamava Gramsci nel suo famoso Odio gli indifferenti; l’ultranulla è il cinismo che vanifica lo sforzo di chi si batte per la giustizia. Gramsci con la sua vigile lungimiranza scriveva: “ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare”. 

Al protagonista del romanzo di Grittani, però, il coraggio arriva, e arriva insieme alla decisione di prendere le distanze da una politica ridotta a Risiko.

C’è un episodio molto significativo nel libro Il gregge: il protagonista del romanzo si reca sulla tomba del suo amico Mario, detto Bulldog, stroncato da un'ignobile vendetta politica ordita come ritorsione per le sue indagini su un colossale caso di evasione fiscale che avrebbe rischiato di travolgere intoccabili vertici: una morte causata, un omicidio programmato, un delitto, però, capace di scuotere le coscienze. È sulla tomba dell’amico che Grittani fa pronunciare al suo personaggio l’atto di autoaccusa: “anch’io galleggio come tutti, come tutti sono finito a fare cose per cui ci si odia”. È doloroso ammettere che “qualcosa abbiamo sbagliato se la rivoluzione in cui credevamo è finita tra questi fiori ammalorati”. Ebbene al termine della visita sulla tomba di Bulldog, il protagonista gli chiede aiuto, “vienimi in sogno. Vienimi incontro. Ovunque possa capire cosa fare di questo tormento”.

La riflessione sulla tomba di chi si stima, sulla lapide della persona di cui si vorrebbe raccogliere l’eredità morale, il bisogno di richiamarsi a un “fratello” maggiore, a un modello di riferimento, è un omaggio che Grittani fa a Gomorra: nel romanzo di Saviano, infatti, la voce narrante si reca a Casarsa, presso la tomba di Pasolini, per recitare quello che definisce L’io so del mio tempo, allusione esplicita al celebre articolo di Pasolini Che cos’è questo golpe?.

E risalendo lungo la scala dei rimandi letterari evocati da Grittani, non si può non riconoscere il riferimento a Pasolini stesso, al componimento Le Ceneri di Gramsci, in cui il poeta dialoga con le spoglie del politico e pensatore sardo, in un maggio pesante, nel cui grigiore sembra naufragare “lo sforzo di rifare la vita”.

Il pregevole lavoro di Grittani, carico di tensione civile, parte da una denuncia amara sulle derive del nostro presente, ci mostra il grave rischio che tutti stiamo correndo: accettando l’ultranulla  “diventiamo gli spazi che abitiamo”. Se lasciamo che le nostre città si facciano prede dell’ignoranza, sarà così. Tocca a noi, dunque, cominciare a “proteggerle” “come si fa con una storia d’amore”, consapevoli del fatto che, come diceva ancora Camus, “la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”.

 

domenica 28 gennaio 2024

G. LIPOVETSKY - LA FIERA DELL' AUTENTICITÀ

 

Come un grido d’allarme, Lipovetsky annuncia nell’incipit del suo saggio, La fiera dell’autenticità (Marsilio 2022), che «dilaga una febbre di tipo nuovo, irresistibile, onnipresente: la febbre dell’autenticità» e «il ventunesimo secolo ne ha fatto un valore di culto». La moda “bio”, i cosmetici e i cibi preparati in casa, gli abiti vintage liberi dai diktat della moda: il «do it yourself» è il nuovo imperativo universale. Il lifestyle alternativo, la vita nei borghi alla ricerca delle sane tradizioni locali, immuni dal caos metropolitano, l’essenzialità e la frugalità di una vita green, minimal, conforme alla propria vera dimensione e capace di tradurre in realtà l’aspirazione di una piena aderenza a sé stessi, sono una norma valida quasi per tutti. «L’autentico è cool» e il «be yourself è il comandamento supremo». 


Ebbene che cosa c’è di stonato in tutto questo? Lipovetsky lo spiega in modo chiaro: il disancoramento del concetto di autenticità rispetto ai nobili ideali che tradizionalmente lo hanno sostenuto e la sua riduzione a effetto del mercato. Siamo entrati nello «stadio consumistico dell’autenticità»: «un tempo apprezzavamo la naturalezza  delle persone e dei loro comportamenti: oggi apprezziamo i prodotti ecologici (…). L’ideale dell’autenticità ha compenetrato il mondo delle cose». Insomma l’autenticità non è un ideale, ma una qualità dei prodotti di mercato, non un valore etico, ma economico, il quid pluris, la «formula magica» che si aggiunge al successo delle imprese.

Che fare allora? Dopo che filosofi e pensatori di ogni tempo hanno condannato l’ipocrisia della vita inautentica, ora dovremmo liquidare l’autenticità come uno pseudovalore? Lipovetsky, lungi da risposte semplicistiche, spiega che forse la via migliore è quella di rinunciare alla «religione» dell’autenticità. Nessuna delle grandi catastrofi (ambientali, economiche, sociali, politiche) del nostro tempo, sarà risolta dall’autenticità che non è la panacea, il rimedio universale a tutti i mali dell’universo, la risposta univoca alle grandi sfide del nostro tempo, qualora venisse interpretata come valore assoluto con cui identificare l’esistenza. È certamente, sì, un valore, un «potentissimo operatore di cambiamento», ma va inserita in un quadro più complesso di ideali da cui non si può prescindere.

Lipovetsky fornisce una vera e propria ricostruzione storica dell’evoluzione che il concetto di autenticità ha subito nel corso dei secoli, spiegando peraltro in che modo sia venuto nel tempo a intrecciarsi con il concetto di libertà. È evidente, infatti, che nelle società rette da governi dittatoriali, da regimi assolutistici, non esiste la libertà di essere sé stessi e di esprimere in modo diretto il proprio pensiero e la propria personalità.

Un momento particolarmente significativo nell’excursus tracciato da Lipovetsky riguardo alla storia della libera attestazione della propria individualità e unicità da parte dell’essere umano, è l’Illuminismo. Quando Rousseau scrive le sue Confessioni e mette a nudo la propria vita, commentandola anche nei suoi aspetti più personali e privati, dall’infanzia all’età adulta, opera una vera rivoluzione, quella di un IO che esiste e rivendica il diritto a una concreta emancipazione sia da un sistema politico di controllo serrato sulle esistenze sia da un’organizzazione sociale fondata su ipocrite finzioni esibite sul palcoscenico della corte da parte di un’aristocrazia compiaciuta dei propri privilegi gelosamente custoditi: è anche così che si è combattuta la lotta all’Ancien Régime.

Altrettanto decisiva secondo Lipovetsky è stata la rivoluzione del’68: interi gruppi sociali, giovani, donne, lavoratori – hanno condotto accese battaglie per il loro affrancamento da un passato autoritario, in nome di una vita più dignitosa, autenticamente ispirata a una personale visione del mondo e della vita, secondo prospettive esistenziali e culturali finalmente svincolate dai condizionamenti di uno svilente e opprimente principio d’autorità che la tradizione aveva lasciato consolidare nei più svariati ambiti della vita sociale, dalla famiglia, alla scuola, all’Università, alle fabbriche.

Ciò che nella storia ha sempre caratterizzato la lotta ingaggiata in nome dell’autenticità è sempre stata la forte, sentita, ispirazione a nobili ideali di libertà, equità, giustizia, sintetizzabili in una visione il più possibile aderente alle più sincere e profonde convinzioni rispetto alle quali gli uomini e le donne di ogni tempo hanno inteso orientare le proprie condotte e le proprie esistenze.

E oggi? Ora sebbene la democrazia abbia di fatto abbattuto ogni evidente ostacolo alla libera, genuina, espressione di sé, possiamo sinceramente dichiarare di vivere nell’era dell’autenticità? La facilità delle comunicazioni è davvero sinonimo di una manifestazione autentica del nostro essere al mondo? Se abbiamo, sì, conquistato la libertà DI fare ciò che vogliamo, ciò che ci piace e ci gratifica, possiamo con altrettanta sicurezza affermare di essere davvero liberi DA condizionamenti che inficiano e inquinano la nostra autenticità?

Si tratta di interrogativi che – nota Lipovetsky -  hanno un’amara risposta: nell’era del web, oltre alle ben note mistificazioni della realtà operate dall’Intelligenza Artificiale o comunque da un suo uso distorto, si arriva al terribile paradosso per cui si diventa autentici e ci si sente davvero sé stessi solo se si ricorre a falsi profili social. Non è oggetto della riflessione di Lipovetsky la mole delle conseguenze legali e etiche di tale fenomeno, bensì la disperazione e la solitudine esistenziale di chi trovando bugiarda e ipocrita la vita quotidiana in una società che è fatta di maschere, cerca rifugio nell’anonimato di un profilo falso, l’unica isola in cui poter esprimere la propria dimensione più vera e aderente a sé. Lo diceva già O. Wilde: “Datemi una maschera e vi dirò la verità”.

Insomma, sembra suggerire Lipovetsky, forse prima del tanto osannato e consigliato be yourself, “sii te stesso”, converrebbe ritornare alla socratica formula del conosci te stesso. Facciamo in modo che l’autenticità non sia una “moda”, ma un sincero “modo” di essere.

 

martedì 9 gennaio 2024

ANNIE ERNAUX - PERDERSI

 

Perdersi (ed. L’orma, 2023) di A. Ernaux è l’ampliamento - come l’autrice stessa dichiara nel testo - di un precedente romanzo del Premio Nobel francese, Passione semplice. In effetti la trama è la stessa: una donna si consuma d’amore per un rozzo diplomatico russo che le dedica solo ritagli di tempo. Tuttavia c’è, tra il primo e il secondo libro, un’evoluzione che la scrittrice nelle pagine iniziali mette in evidenza: Passione semplice – nota A. Ernaux - è il racconto di “una passione che mi aveva attraversato e che continuava a vivere in me”; in Perdersi, invece, è presente una “verità diversa”, “qualcosa di crudo e oscuro, senza salvezza, qualcosa dell’oblazione”, che l’autrice affida non a un semplice racconto, ma a un dettagliato diario scritto in prima persona in cui voce narrante e prospettiva dell'autrice coincidono perfettamente, secondo una formula più propriamente autobiografica che contraddistingue lo stile di A. Ernaux.


L’ambientazione storica è quella dello sfaldamento politico dell’URSS: “ il muro di Berlino era caduto da pochi giorni”. Tuttavia, ammette la scrittrice parlando del suo libro, “il mondo esterno è pressoché assente da queste pagine”: lo sguardo dell’io narrante è tutto rivolto all’esame radiografico della dimensione interiore. Perdersi è un’autoanalisi estrema, una radicale anatomia della propria ossessione erotica che J. Bazzi nella sua recensione su Domani definisce crudamente come un’offerta di sé “impresentabile, oscena e persino ridicola”.

Il titolo del romanzo ha un valore duplice. Allude certamente al fatto che la storia tra i due amanti dura circa due anni per poi restare solo nella memoria della protagonista che nel suo diario dimostra come sia facile e nello stesso tempo doloroso, perdersi, allontanarsi, dopo aver condiviso molte emozioni, e lasciare che un legame, pur così intensamente vissuto, evapori. Se però si guarda al modo disperato in cui l'io narrante vive le interminabili attese, spesso deluse, degli arrivi o anche solo delle telefonate del suo uomo, perdersi assume un altro significato. Se si osservano, infatti, con attenzione la totale dipendenza psicologica, “l’assoggettamento” – come lo chiama Ernaux - la completa sottomissione fisica, fino all’autoannullamento, della protagonista,  si comprende che perdersi è il verbo che meglio esprime il naufragio identitario ed esistenziale della voce narrante femminile completamente spossessata di sé.

La protagonista di Perdersi sa fin dall’inizio che “tutto, un giorno, deve finire”; il suo uomo è sposato, non ha nessuna intenzione di lasciare la moglie e non ha fatto nessun tipo di promessa: gli incontri sono fugaci, irregolari e occasionali. E questa certezza genera nella donna un “terrore senza nome” simile a quello che - spiega l’autrice nel romanzo - pervade il neonato quando è lontano dalla madre, ma che il bambino gradualmente supera nel momento in cui “diventa capace di conservare in sé l’immagine della mamma anche mentre lei è assente”. E invece nella protagonista questo terrore non l’abbandona mai, al punto che la vita senza il suo uomo perde ogni senso: “vivo in un dolore anestetizzato”.

Per ritornare, dunque, al giudizio sicuramente sferzante, ma anche per certi versi condivisibile, di J. Bazzi, è lecito chiedersi come sia possibile che una scrittrice, femminista, abituata alle letture di S. de Beauvoire, più volte citata in Perdersi, abbia potuto cedere a una forma di sudditanza erotica simile, a un’alienazione senza controllo.

Ernaux sa descrivere con precisione diagnostica come tutto ciò che di bello c’è nell’amore possa trasformarsi in dolore: la speranza diventa frustrazione, l’eros sfuma in senso di dominio da parte di un uomo volgare e autocentrato, l’attesa è ansia sfibrante o rassegnata procrastinazione.

Quello che di poco comprensibile, di irrazionale, c’è in questa relazione tra una donna sensibile, profonda, colta e un uomo egoista, “vanesio, sicuro di sé” spesso ubriaco, in cerca di piacere senza troppo coinvolgimento affettivo, nelle parole di Ernaux diventa sostanza vitale.

È difficile giudicare Perdersi, ma del resto anche questo fanno i lettori quando scelgono di arrivare fino in fondo alle pagine di un libro: le valutano. Certo non sbaglia J. Bazzi nel definirlo il racconto di un’ossessione erotica, ma ha ragione anche Luperini quando scrive che Ernaux sa “rappresentare – limpidamente, con durezza, con fermezza – la contraddizione che vive, senza orpelli”.

Perdersi è un romanzo che dà voce a un’indicibile verità: sul labirintico animo femminile nessuna ideologia può lasciare impronte.

Quella di Perdersi è una storia umana, scomoda, ma umana.