Giuseppe Todisco all'Altro si rivolge con tono allocutivo: si tratta di un “tu” chiamato in causa (“resta un poco con me, sotto le querce di Mamre”, Ricorda quel giorno a Ebron) eppure sempre sfuggente (Te ne vai col sole oltre la casa). Lascia soltanto buio, solitudine (“oltre il Giordano, sulla via del mare, non si è più fatta luce”, Cafarnao), nel pesante vuoto di un’esistenza senza orizzonti di senso: (“è tutta mia questa moltitudine di giorni da colmare”, Sentire un peso). In Intanto il cielo più fitto ritira, l’Altro è chi non comprende l’ansia di verità che tormenta l’io lirico (“forse ti sfugge”), e nel suo rapporto solido con il Creatore (“ogni salmo regge, per te, davanti al Creatore”), l’Altro non si accorge che il cielo ritira “l’elica del sogno”, cancellando desideri e speranze. E quello che resta è un “cielo venuto male” (La volta che sconfissi nostro padre).
Se l’Altro è Dio, è un Dio che conosce verità imperscrutabili e dolorose (“tu vieni a catastrofe” in Cafarnao); è un Dio che abbandona; secondo Todisco, è assenza, lontananza estrema, in un mondo in cui “il diavolo ci ha presi al cuore” (La volta che sconfissi nostro padre). È un Dio impotente rispetto all'ineludibile male in cui siamo immersi ("passi anche per noi questo calice", in Il sole Franco la mattina presto).
Forse Dio - come dice Cioran - è Nessuno, se in lui si cercano le risposte definitive e le verità ultime. È l’insufficienza che non riesce a dare corpo alla speranza: “il maltempo agglutina nell’orto/grugnisce il tuono” (Passato via tutto il trambusto). Il poeta è condannato alla scissione interiore (“vita mia divisa”, in Passato via tutto il trambusto) tra la tensione verso un Dio che vorrebbe accogliente (“potessi…chiudermi a covo tra le tue/braccia”, in Sarebbe stato bene agli occhi), capace di dare senso all’esistenza, una luce che rischiari l’andare, e d’altra parte la delusione, la certezza del fatto che “il morire lo impari/da piccolo” (Speravo vivere fosse) e che il dolore è la categoria dell’esistenza, di ogni esistenza: “l’ombra/compie il suo destino” (Speravo vivere fosse). E forse la sola speranza è quella “di finire” (Tra i fossi e le immondizie).
Cafarnao invita a ripensare
Dio, a ipotizzare una sua κένωσις (kénosis), un abbassamento che
è nello stesso tempo un avvicinamento all’essere umano: “così girato, santifica
la tela” del mondo. È un Dio diverso, quello immaginato da G. Todisco , un Dio che “si
è fatto malva” e che non disdegna di aggirarsi Tra i fossi e le immondizie.
Il sacro è nelle cose umili o anche degradate, spesso sdegnate dai Soloni della
Teologia. Come Saba, anche Todisco ritrova “l’infinito nell’umiltà” e sente la
sacralità “dove più turpe è la via”. Anche un nugolo di mosche può diventare “barlume”, se suggerisce la fine di un dolore o se evoca la morte come liberazione dalla
sofferenza.
Eppure “si può compiere il
miracolo” (La volta che sconfissi nostro padre): nella poesia di Todisco
c’è spazio per il prodigio – Montale avrebbe parlato di un varco – anche “se in
cielo azzima la notte”. Il desiderio di un’alternativa possibile non è del
tutto azzerato. Da Dante Todisco mutua l’ottativo vorrei in Vorrei mi
parlassi del fiore, per dar voce al bisogno profondo che vive in ogni essere
umano: il desiderio di bellezza, pur nella consapevolezza della sua caducità e fragilità
(il “fiore reciso”); la possibilità di volare alto - l’elevazione di cui
parlava Baudelaire - e di seguire ideali capaci di sottrarci alla mediocrità
diffusa (“rondini e nuvoli”); la forza di credere nella parola che unisce (“vorrei
mi parlassi”), la speranza - forse utopica oggi che le guerre ci
incalzano - che “un solo cielo” possa “volerci tutti”, in Dire all’acqua
acqua; la voglia di scavare come fa la formica (Dire all’acqua
acqua), di andare a fondo, alla ricerca di verità nascoste nelle pieghe del
quotidiano dove forse si annida l’essenza delle cose e del nostro stare al mondo.
Nonostante i “graffi” di cui è fatta la vita, gli oltraggi alla bellezza (“la mano a sfascio sulle rose” in Vieni – tra l’occipite e il sonno -), è possibile resistere alla tentazione del nulla, è possibile recuperare la solidità degli ulivi e “sentire che risale” quella forza capace di risvegliare ideali indeboliti da un presente oscuro, e che invece, come “una stella, la prima luce sul selciato”, un “lampo”, risorgono per dare forma persino allo “scisto”, alla materia inerte di folle passive, per troppo tempo abituate a subire un’esistenza senza slanci e senza sogni: sarà possibile allora un’umanità nuova, pronta a rialzarsi come la Talita del Vangelo di Marco e a brillare come fanno le lucciole nel buio della storia (Rendi al cielo ciò che del cielo già sarebbe).
I miracoli che Cafarnao
evoca non sono opera di un Dio trascendente né l’effetto di un abbandono
mistico a verità oracolari. Sono piuttosto i prodigi che l’umanità può compiere
se resta fedele al suo mandato: homo homini deus est, si suum officium sciat,
scriveva Cecilio Stazio. Il prodigio sarà allora nel portare a compimento
la nostra natura umana, nel saper restare umani fino in fondo e senza limiti –
mai - per abbracciare con amore “tutto l’azzurro clamore del cielo”.
Con uno stile che è "luce e rame" (Quel po' di luce e rame), fatto di chiare parole che scavano nella realtà dura del presente, G. Todisco "si addentra nella macchia" (Esci dalla parola) delle nostre esistenze, delle nostre coscienze, alla scoperta di quel "refe azzurro che ci tiene" (Da qui in alto).
Teresa D'Errico
Giuseppe Todisco, Cafarnao, AnimaMundi, 2024
Per una breve selezione di testi della raccolta Cafarnao cfr. https://www.leparoleelecose.it/cafarnao/
[1] E.
Cioran, discorso di ringraziamento in occasione del premio Büchner, 1960
in https://www.succedeoggi.it/2020/04/le-lotte-di-celan/