giovedì 5 gennaio 2023

G. ZAGREBELSKY, "LA LEZIONE"

 Nel suo agile saggio, La lezione  (Einaudi – Gli Struzzi, 2022), G. Zagrebelsky ha fornito un’analisi del mondo scolastico senza cedere alla lamentela per tutto quello non va, per le palesi disfunzioni e la caotica disorganizzazione che penalizza gli studenti, ma senza neppure proporre modelli didattici ideali o, peggio, retrotopici e anacronistici. 

Zagrebelsky parte da ciò che è necessario: occorre restituire alla scuola non tanto una teorica centralità – da molti politici sbandierata propagandisticamente e di fatto non realizzata – ma soprattutto la sua originaria dignità culturale.

Due sono le parole-chiave attorno alle quali si concentra l’analisi dell’autore: parola e piacere.

Contro le didattiche semplificanti che marginalizzano il docente riducendone la funzione a quella di mero “facilitatore” e contro le illusorie promesse di metodi ludocentrici e tecnocentrati, l’autore coraggiosamente rilancia la centralità di uno strumento immortale per la sua indiscutibile efficacia: la parola, un mezzo che da Socrate in poi non ha mai deluso.

- La lezione è parola.

 "Senza le parole, la lezione è vuota". Quello di Zagrebelsky non è un retorico elogio della parola, è un’analisi necessaria a ricostruire il legame tra la scuola e la forza generativa della parola.

Che il nesso parola-ascolto abbia nella vita scolastica un ruolo determinante è dimostrato da Zagrebelsky anche attraverso la ricostruzione etimologica del termine che indica il luogo privilegiato in cui la lezione avviene: l’aula. La parola “aula”, sottolinea l’autore, deriva dal greco aulós, flauto, e allude alle onde sonore della musica che si diffondono in uno spazio deputato all’ascolto. Ebbene, la parola avvolge le coscienze, è come l’aria: cultura e scuola non possono farne a meno.

Immagini, input digitali di varia natura possono integrare, accompagnare l’azione d’insegnamento, ma il nesso parola-ascolto non può essere sostituito da nessuna innovazione tecnologica spacciata per avanguardia didattica. Gli uomini e le donne del futuro hanno bisogno di acquisire la consapevolezza necessaria per muoversi nel mondo e "se non si hanno le parole, le cose, di qualunque genere siano, fisiche o metafisiche, materiali o immateriali, non si possono afferrare e trattenere, cioè non si possono acquisire". Sono infatti le parole che permettono di "pensare il mondo".

Viviamo in un’epoca di forte mistificazione o, addirittura, come ricorda G. Carofiglio, di evidente, orwelliana, "manipolazione delle parole". Perciò la scuola e la lezione hanno un dovere preciso: liberare la parola dal "veleno dell’equivoco". Solo "attraverso la vita e la storia della parola possiamo portare alla luce le esperienze dell’umanità". Zagrebelsky fa riferimento al macabro esperimento messo in atto da Federico II: sottratti alcuni bambini all’affetto delle loro madri, l’imperatore li fece allevare senza la tenerezza delle parole che accudiscono e fanno crescere, limitandosi a farli nutrire da balie. I bambini morirono tutti, perché – è questo che Zagrebelsky vuol dimostrare – la parola è vitale: una vita senza parole è solo mera esistenza (zoé), non esperienza di relazione (bíos). La democrazia, che è relazione continua, infatti, si nutre di parole. I Greci chiamavano agorá lo spazio pubblico atto al confronto e al dialogo politico. L’agorá era il luogo dell’agoréuein, del dire, del parlare per trovare la chiave utile al benessere della vita collettiva. Infatti è solo parlando che ci definiamo. Oggi più che mai, in un momento storico in cui tutti si appropriano, per esempio, di parole come libertà e democrazia, facendosene paladini proprio mentre le negano o ne alterano il senso, bisogna recuperare il rapporto tra le parole e le cose, per evitare il rischio di tenere soltanto nomina nuda.

- La lezione è piacere

Zagrebelsky, poi, mette l’accento su un altro aspetto che dovrebbe connotare la lezione e che è strettamente legato all’uso efficace e sapiente della parola: il piacere. L’autore parte dalla critica esplicita contro i due punti estremi della deriva didattica: da un lato, la pratica riduttiva e semplificante dei test standardizzati, che sembrano pensati per “umiliare l’etica dell’apprendimento”; dall’altro il narcisismo della seduzione intellettuale di docenti che suggestionano con il loro carisma manipolatorio e non grazie al fascino delle materie che insegnano. Zagrebelsky cita, a questo proposito, tra i cattivi maestri, il prof. Keating, il noto trascinatore di studenti nel film L’attimo fuggente, in cui affronta una rivoluzione che finisce per sfuggirgli di mano e che si conclude, per uno dei suoi allievi, in modo disastroso.

Ma, allora, che cos’è una lezione? Zagrebelsky lo spiega attraverso la metafora di P. Florenskij, filosofo e matematico fucilato nel 1937 all’epoca delle purghe staliniane. "La lezione è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale, una meta… Per chi passeggia è importante camminare, non solo arrivare". Florenskij pone l’accento sul piacere di imparare osservando, guardandosi intorno, parlando, scambiandosi sguardi, idee e opinioni, inoltrandosi in sentieri secondari. È questo il piacere della lezione: il piacere digressivo, il piacere della domanda, la scoperta della complessità delle cose che sfuggono alle gabbie dei programmi prestabiliti, dei tempi programmati, delle scansioni pianificate. La lezione è libertà.

Educare o istruire sono false alternative. La lezione è il piacere di camminare insieme.

- Perché riflettere sul senso della lezione

Con La lezione, Zagrebelsky offre lo spunto per una riflessione sul mondo della scuola in un preciso momento storico come il nostro, che la vede travolta da riforme, circolari ministeriali che confondono invece di chiarire, ordinanze gattopardesche che cambiano tutto per non cambiare niente. Accusata – in molti casi a buon diritto – di perpetuare le disuguaglianze invece di eliminarle e distorta nelle sue finalità – soprattutto se le si attribuisce il compito di premiare il merito senza però far nulla per garantire a tutti gli studenti pari opportunità e omogenee condizioni di partenza rispetto alle quali osservare se ci sia o meno un merito da premiare – annegata tra miriadi di progetti e naufragata nel mare della burocrazia, la scuola oggi non è più un centro culturale.

Separazioni sempre più dicotomiche tra saperi scientifici e discipline umanistiche, reiterati tentativi di svilimento e continui attacchi ideologici diretti contro i saperi definiti “inutili” – perché considerati non immediatamente spendibili sul mercato del lavoro – celebrazioni neoavanguardisitiche del “nuovo” e di tutto ciò che abbia a che fare con la dimensione tecno-pratica, hanno appiattito la scuola a ente certificatore di mai ben definite “competenze” illusoriamente misurabili attraverso prove ritenute oggettive, sul modello INVALSI.

È vero, il mondo è cambiato e la società si trasforma rapidamente, tuttavia non sempre in meglio. Forse solo la scuola può costituire il baluardo estremo di quella cultura che ci mette di fronte ai nostri limiti e ci ricorda che in fondo "siamo nani sulle spalle di giganti".

La lezione insegna ai nostri giovani proprio questo: a raccogliere (“lezione”, ricorda Zagrebelsky, deriva dal greco lego, che oltre a “parlare” vuol dire appunto “raccogliere”), a selezionare e a scegliere dal passato ciò che può servire a interpretare il presente.

                           Teresa D'Errico 



L. MENEGHELLO, "FIORI ITALIANI": CONTRO LA DISEDUCAZIONE DI STATO

 L. Meneghello apre i suoi Fiori italiani con una domanda: “Che cos’è l’educazione?”. E nella nota introduttiva al libro dichiara: “avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione”. Lo sguardo retrospettivo sul mondo scolastico dell’Italia fascista gli aveva saputo chiarire una sola cosa: quello che la scuola non è e, di conseguenza, quello che la società può diventare a causa di una capillare diseducazione.


Chi legge Fiori  italiani non può non rivolgere l’attenzione ai giorni nostri, al lavoro meticoloso e programmato volto a diseducare le nuove generazioni, a impedire loro il libero pensiero, a ingabbiare la prospettiva critica, a trasformare la scuola da luogo di appassionato sapere a centro di addestramento passivo. “Addestramento mentale”, così lo chiama Meneghello. E precisa: “non erano dottrine compiute” quelle che venivano insegnate, bensì “una serie di persuasioni” che i giovani assorbivano anche solo “respirando”. Non è questo ciò che accade anche oggi?

Il bombardamento dei pedagogismi ludocentrici, fondati sulla gamification, sul trasferimento in digitale di ogni aspetto della didattica (esercizi, valutazione, verifiche, comunicazioni), le grandi abbuffate di neoavanguardismi tecnologici non sono forse l’humus entro il quale vengono quotidianamente addestrati reggimenti nazionali di giovani esecutori acritici cui si chiede solo di apporre una X nelle caselle giuste? Non è forse questo il volto della scuola postfascista? Antidemocratici test standardizzati oggi impongono quesiti uguali ad alunni di aree geo-socio-economico-culturali tenute dallo Stato in condizioni molto diseguali: l’apoteosi di una politica che coltiva le disuguaglianze, i divari, i gap, invece di abbatterli, come invece dovrebbe impegnarsi a fare secondo il dettato costituzionale; una condizione che con l’autonomia differenziata – o, come G. Viesti l’ha definita, la secessione dei ricchi – è destinata a peggiorare.

E sorprende che, durante gli anni difficili della pandemia, quando la didattica digitale ha salvato la scuola, ebbene, allora, proprio allora, il supporto tecnologico della DAD sia stato ideologicamente demonizzato da una martellante, svenevole, retorica (che ha fatto da cassa di risonanza del mercatismo che vuole le scuole sempre aperte per garantire la presenza dei genitori-lavoratori nelle aziende): le relazioni bloccate, i sorrisi negati, gli affetti recisi, tutta colpa della DAD.

Ebbene, la disfunzione di una società comincia dalla scuola. E parlarne, scrive Meneghello, significa “salvare” lo scolaro, cioè “rintracciare ciò che vi può essere di salvabile in lui” nonostante questa diseducazione sistematica cui è stato sottoposto.

Il primo atto di questa “operazione di salvataggio” consiste in un cambio di prospettiva: bisogna guardare i giovani in un modo nuovo, assumere, cioè, uno sguardo che potremmo definire floreale. In un’epoca in cui i più piccoli erano i figli della lupa, diventavano poi balilla e venivano infine inquadrati nei Fasci giovanili di combattimento, addestrati alla violenza e alla cieca ubbidienza, L. Meneghello fa dire a un “ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese” la frase più rivoluzionaria della pedagogia e che spiega il titolo del libro: “noi siamo vasi di fiori. Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”. Che la scuola dovesse passare dall’imposizione alla delicatezza e che dovesse formare non sudditi ubbidienti o soldati pronti al sacrificio, ma fiori da far sbocciare, era una rivoluzione linguistica prima di tutto e culturale, poi, in senso lato.

Ora gli studenti certamente non sono più figli della lupa o balilla, ma vengono definiti, con lessico aziendalistico, utenti, portatori di interesse, stakeholder. Anche oggi, dunque, la scuola dovrebbe recuperare la prospettiva floreale suggerita da Meneghello, per insegnare ai giovani a fiorire, a irradiare bellezza nel mondo ferito in cui stanno per entrare.

Il romanzo di L. Meneghello si può dividere in due parti: nella prima sezione prevale una serrata denuncia da parte del protagonista S., di quella che potremmo chiamare la diseducazione di Stato e dei suoi fondamenti:

–       distacco della scuola dalla vita e dalla realtà: “una specie di settore separato con leggi e caratteristiche proprie”;

–       classificazione su scala numerica degli studenti secondo categorie naturali: “i bravi, i normali, gli scarsi”;

–       trasmissione di una cultura “esposta come la Sindone”, una cultura” che non c’entra con la gente” e che è” come la Grazia, che non ha una dimensione sociale”;

–       organizzazione di un sistema con i suoi “riti inquistori o giudiziari”, i suoi “skills specializzati” come per esempio quello di “destreggiarsi tra i due colori dell’errore, il blu e il rosso, erogati da matite a sezione poligonale … una specie di teologia del rosso (veniale) e del blu (mortale)”;

–       distacco tra le parole e le cose: “le cose erano cose-parole, non cose-cose”;

–       il docente degradato a “baby sitter intellettuale” o a semplice “pastore”, nel senso che “pasturava i giovani e loro facevano bèee bèee”: una figura orientata più “a smorzare che ad accendere”;

–       ripetizione ciclica degli stessi contenuti, sempre uguali, al massimo presentati “sotto altri angoli visuali”.

Non mancano, certo, nel testo ricordi di insegnanti capaci di suscitare interesse, quelli che, come diceva Dante, ti insegnano come l’uomo si eterna. Però, si corregge subito Meneghello, questi “non possono, non sanno, insegnarti altro”: forse, sembra sottintendere l’autore, i giovani prima di eternarsi, dovrebbero imparare ad affrontare il presente, e l’urto è forte.

Il ritratto finale è il profilo di una scuola vuota e senza idee. “Idee importanti oggi non ce n’è”: è questa l’amara constatazione di Meneghello. E in una scuola così “si potevano insegnare solo cosucce, cos’è uno hysteron-proteron, la struttura delle graminacee”. In definitiva, una scuola inutile: “qualche correlazione tra imparare e vivere si asseriva a parole che esiste, ma di fatto nessuno se ne dava pensiero”.

Appare a questo punto superfluo commentare l’affinità tra la diseducazione di Stato subita dai giovani durante il Ventennio e quella in atto in questo ultimo ventennio dominato dalla trionfante triade morattiana: Inglese, Informatica, Impresa, che ha sostituito quella tetra, più antica, del “credere, obbedire, combattere”.

I Fiori italiani dimostrano che negli anni del fascismo quello che i ragazzi apprendevano, lo imparavano fuori dalla scuola. Il modello di un’educazione costruttiva è incarnato nel libro di Meneghello da Antonio Giuriolo, il maestro-partigiano il cui esempio ha avuto la forza demiurgica di “fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne”, dimostrando con il suo esempio vivente che la cultura è “il principio informante del carattere” e la libertà “l’alimento stesso della vita intellettuale e morale”.

E, naturalmente, è tutta questione di metodo: sull’esempio del maestro Giuriolo, L. Meneghello elabora una didattica che se fosse applicata oggi restituirebbe seriamente alla scuola quella dignità tanto propagandata dagli stessi politici che gliel’hanno tolta.

Pochi, illuminanti, tratti:

–       metodo maieutico, il valore della domanda: nel dialogo con il giovane protagonista S. “Antonio non lo contraddiceva, gli faceva delle domande con fermezza e senza ostilità e lui sentiva la forza frenante di queste domande, il giudizio che vi era implicito”;

–       informalità: “era proprio questa la forza del suo insegnamento, non c’era tono didascalico, non svolgeva un programma”;

–       concretezza: “Antonio si rivolgeva sempre a una cosa precisa, questo libro, questo passo, questo concetto. Additava, citava (non a memoria come un retore, ma aprendo e cercando) brani segnati a matita, sottolineati…gli veniva spontaneo richiamarsi a punti dove ciò che stava dicendo si vedesse espresso ed esemplificato;

–       capacità di cogliere e comunicare “l’interesse intrinseco delle cose”: negli argomenti che affrontava “c’era la perfetta corrispondenza tra interesse soggettivo e interesse intrinseco dell’argomento”;

–       un’esposizione guidata dal “discorso lucido della ragione” capace di trasmettere “un senso di suprema pacatezza” e di “calma sovrana”.

Nei ricordi dell’amico-discepolo S., Antonio Giuriolo è “l’insegnante”, colui che cioè lascia un segno nella vita dei suoi allievi: “l’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e se scriviamo, di scrivere”.

L. Meneghello, Fiori italiani, BUR, 2022