Non ho più armi
Non ho più armi,
Amica mia.
Sono senza difese,
e non ho scudiero che
m’assista.
Questo settantaduesimo
gennaio
è più freddo di sempre,
e non ho vesti per coprirmi;
neanche un alito –
né di madre, né di sposa.
Non parole,
né suoni o giochi di bimbi –
puoi ancora donarmi parole:
il silenzio mi inchioda.
Gennaio 2017
Scegliere il tema del desiderio è una delle sfide più ardue che un poeta
possa affrontare: il rischio di cadere nella banalità è alto, il pericolo di
ripetere topoi abusati è forte, la possibilità di scoprire
troppo apertamente la propria interiorità diventa quasi una certezza.
Eppure
il dovere dell’originalità il più delle volte delude e copre di una patina
d’artefazione la sincerità che i lettori si aspettano e che, in fondo, ognuno
di noi cerca nei rapporti umani. Saba definiva la sincerità dei versi poesia onesta e condannava lo sfrenato desiderio di originalità, quello
di chi non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri
hanno detto.
In questo
consiste la grandezza di alcuni componimenti. Non ho più armi riesce a trasmettere
ciò che tutti provano e trova conferma della sua onestà in quello che
anche gli altri poeti hanno detto: noi viviamo di desiderio.
Ciò
che voglio mi è negato, scriveva
Jaufré Rudel nella sua nota canzone che celebra l’amore di lontano. È
una verità antica. E che il desiderio si nutra di assenza, di mancanza, lo suggerisce
la sua radice etimologica: dal latino deesse, “mancare” o dalla
locuzione de sideribus, “dalle stelle”, espressione che fa riferimento a
quella luce, a quel lampo di felicità, che ci manca e che vorremmo brillasse nelle
nostre vite. E che noi siamo sostanza desiderante non ce lo dice solo la più
alta tradizione lirica, che ha avuto in Petrarca la sua massima espressione. Potremmo
sperimentarlo ogni giorno, ma forse non sappiamo più prestare attenzione alle
emozioni. La poesia di Antonio Caione che ruota tutta intorno alla forza del
desiderio, all’urgenza dell’incontro e alla sua impossibilità di realizzazione,
ci costringe a fare i conti con l’anestesia emotiva del nostro tempo.
Oggi la forza
del desiderio sembra essersi esaurita, pochi ne avvertono l’intensità. Immersi
in un mondo sempre più vorticoso, siamo attori di un eros vissuto
distrattamente, velocemente e troppo facilmente. L’imperativo consumistico
sintetizzato da Freddy Mercury nell’epocale I want it all, I want it now,
“voglio tutto e subito”, ha spinto intere generazioni ad azzerare il desiderio
e a sostituirlo con la rapida soddisfazione e l’aproblematica rottamazione. Zygmunt Bauman definiva queste esperienze a basso tasso d’investimento sentimentale, “amori
liquidi”, fragili, che nascono sui social e lì finiscono con brevi post di
addio. Senza crucci e, al massimo, con le lacrime di un solo momento, i
consumatori seriali di rapporti senz’anima sono pronti alla sostituzione del
vecchio con il nuovo oggetto di consumo erotico.
Tonio Caione,
invece, recupera dalla migliore tradizione lirica le componenti fondamentali di
un eros degno di questo nome: la lontananza dell’amante e la tristezza per l’inappagamento
del desiderio. Il senso profondo della frustrazione è testimoniato nel testo di
Caione, dalla martellante ripetizione della negazione non, neanche, né
che sembra condannare il soggetto lirico alla privazione di ogni concreta possibilità di incontro. D’altra parte, domina la dimensione totalizzante dell’eros rispetto
al quale chi ama è sempre in condizione di inferiorità, come un guerriero
disarmato, metafora cui il titolo del componimento allude e che restituisce
attualità a suggestioni tradizionali. Chi ama è esposto ai colpi di un dio,
Eros, che possiede con prepotenza e al quale è inutile opporre resistenza.
A costituire,
però, la vera forza dei versi di Tonio Caione è l’accento posto sulla sfumatura
più intensa dell’amore, un dono di parole: tu sola, Amica lontana,/puoi
ancora donarmi parole.
Viviamo nell’era
della comunicazione, ma non sappiamo comunicare, dimentichiamo che “fare”
l’amore è prima di tutto “parlare” d’amore. Comunicare è un verbo che nasce
dall’idea del condividere le emozioni attraverso la parola, lo dimostra
chiaramente la derivazione latina del termine, cum (“insieme, con”) e munus
(“dono”): comunicare è la capacità di donarsi attraverso la parola, abbattendo i
muri che separano.
Noi, al
contrario, nonostante l’illusione di entrare in contatto attraverso i social,
viviamo in un’epoca di incomunicabilità profonda: siamo come Gli amanti
di Magritte, separati da un drappo bianco che copre i volti e impedisce
l’intimità facendo da barriera divisiva. Siamo incapaci di guardarci, di
parlarci. E a questo punto comprendiamo quanto peso abbia l’amarezza del
silenzio: il silenzio mi inchioda, scrive Tonio Caione. Ferisce l’afasia
di chi non vuole, non sa comunicare. Sarà per incapacità, oppure per scelta,
forse per timore, poco importa: il silenzio inchioda ognuno alla propria
solitudine.
L’incendio
della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca.
Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale
produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè
di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda, scriveva Montale
interrogandosi sui destini della poesia e sulla sua possibile sopravvivenza
nella società dei robot.
Non ho più
armi è un esempio di poesia onesta, la sola che possa resistere
agli imperativi del mercato, alla competizione della tecnologia, alla degradazione
di contenuti e forme imposta dal gusto di massa. Non ho più armi dice la
verità sull’essere umano: siamo fatti di desiderio, che si nutre di assenze.
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
(Vincenzo Cardarelli)
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