Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

lunedì 12 febbraio 2024

DAVIDE GRITTANI - IL GREGGE

 

“Alle città servono più sentimenti che sindaci, basterebbe sentirle davvero nostre per proteggerle come si fa con una storia d’amore”: è questa la tesi di fondo del nuovo romanzo di D. Grittani, Il gregge (Alter Ego, 2024). Si coglie in maniera evidente il filo rosso con A. Gramsci che, in un famoso articolo del 1917 intitolato Politici Inetti – Una verità che sembra un paradosso, sottolineava come più che tecnica o strategia, a chi fa politica sia necessario avere fantasia, profondità spirituale, sensibilità, simpatia umana: “perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere”.

Ebbene Grittani dimostra che al ceto politico attuale la fantasia manca: non ce l’hanno né Matteo Migliore né Michele Ametrano - avversari politici che nel libro Il gregge affrontano la competizione elettorale per la candidatura a sindaco di una grande città del Nord Italia, probabilmente Milano, ma forse una qualunque nostra città. Si scontrano su poli opposti, però hanno le stesse finalità e modalità operative, cercano consensi, non hanno scrupoli, vogliono potere: “l’ossessione per il consenso ha disperso i confini della ragione”. Quella forza distruttiva che inabissò la res publica romana preparando il terreno al regime augusteo, la cupido imperi – come la definisce Sallustio, mettendo in evidenza che allora come oggi si accompagna a una pericolosissima cupido pecuniae - non è mai morta, anzi, continua senza sosta a inquinare l’idea di politica. Matteo Migliore, infatti, fagocitato dall’ambizione, è la sintesi perfetta della peggiore corruzione mista a retorica razzista e tentazioni superomistiche: non esita a ricorrere alla violenza per sbarazzarsi di chi, indagando sul suo passato, rischia di far emergere i loschi affari di cui è stato artefice. Inizia così una storia di omertà e complicità dalle disastrose conseguenze. Michele Ametrano non ha remore a cavalcare la tragica sventura in cui incorre il suo avversario e a fare del trasformismo, del clientelismo, le regole del gioco politico. Davanti al suo comitato elettorale si raduna gente “disposta a qualunque cosa pur di essere ricevuta” e Ametrano elabora tattiche per arrivare dove forse neanche Migliore si è spinto: “alla brutalità del bene”. Cavalcare il disagio sociale, speculare sulla condizione di bisogno delle persone impoverite da un sistema che da anni tutela i privilegi e calpesta i diritti: è questo il modus operandi dei politici sempre a galla. Non è il male che si nasconde dietro il volto dell’uomo perbene, non è, cioè, la banalità del male che oggi spaventa, ma  piuttosto la brutalità del bene, scrive Grittani, quello cioè che il politico scaltro mefistofelicamente promette per chiederti poi, insieme con il voto, l’anima in cambio.

Non importa a quali politici l’autore si stia in realtà riferendo, sono chiaramente riconoscibili. Tutti cogliamo dietro le sue ironiche descrizioni, il profondo disgusto per una fase storica come la nostra in cui abbiamo permesso “alla mediocrità di occupare il posto della democrazia. Di occupare tutti i posti”. Abbiamo, noi, costruito l’ultranulla, lo svuotamento dell’idea stessa di politica, la caduta degli ideali, e ci siamo assuefatti, non abbiamo cercato alternative, abbiamo accettato tutto, “come un gregge qualsiasi”. Noi “abbiamo imparato a escludere l’etica dai nostri sistemi operativi”, considerando normale, parte del gioco, il fatto che i mediocri senza idee, ma abbastanza furbi da usare “una lingua chiara e comprensibile” adatta a “concetti elementari”, abbiano saputo farsi strada tra la disperazione delle folle, perché “nessun altro ha saputo interpretare quel disagio”. L’ultranulla siamo noi con la nostra antipolitica, con la nostra indignazione solo urlata, noi che ci siamo sottratti alle nostre scelte, noi con il nostro astensionismo nichilista: “sono state le nostre rinunce a incoraggiare l’emersione di questo nulla”.

La voce narrante è quella del compagno di classe di Matteo Migliore, il politico che recluta i vecchi amici del Liceo Pasolini nello staff degli organizzatori della sua campagna elettorale. I nomignoli con cui tra loro si identificano sono rimasti gli stessi con cui si chiamavano ai tempi del liceo, nessuna variazione, come nella loro incoscienza: “è stato strano lasciarli immaturi e ritrovarli immutati”, commenta l’io narrante. Il protagonista del romanzo affronta invece un percorso di crescita e trasformazione: inizialmente accetta di collaborare alla campagna elettorale di Migliore, lo fa non per convinzione, ma per incapacità di dire di no, quella stessa incapacità che ci rende schiavi del destino e non uomini in rivolta, come direbbe Camus. L’esperienza di questa folle collaborazione lo renderà consapevole dell’ultranulla e delle degenerazioni di un ingranaggio che di politico non ha niente, visto che per politica si deve intendere la nobile cura del bene di tutti.

L’ultranulla, sottolinea Grittani non è però solo l’inadeguatezza, l’incompetenza, il vuoto valoriale e l’inanismo di un’intera classe dirigente nata dalle macerie di uno Stato aggredito dallo stragismo, morto con il delitto Moro, deturpato dalla solitudine immensa alla quale sono stati condannati i grandi Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino.

L’ultranulla è una nuova forma di terribile nichilismo. In passato il nichilismo è stato attivo, generativo. Camus nel suo più doloroso romanzo, La peste, spiega che se nella sua Orano dominano orrore e desolazione, chi è uomo deve “restare”. Padre Paneloux di fronte all’irrazionalità del male che uccide i bambini, ammette lo scandalo di non avere risposte, ma la sua reazione non è certo la fuga, bensì lo scatto umano, la responsabilità di continuare a “camminare nelle tenebre e tentare di fare del bene. “Bisogna essere colui che resta”, gli fa dire Camus: questo significa essere uomini.

Grittani fa coincidere l’ultranulla con una grave patologia del corpo sociale, l’indifferenza, “il peso morto della storia” la chiamava Gramsci nel suo famoso Odio gli indifferenti; l’ultranulla è il cinismo che vanifica lo sforzo di chi si batte per la giustizia. Gramsci con la sua vigile lungimiranza scriveva: “ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare”. 

Al protagonista del romanzo di Grittani, però, il coraggio arriva, e arriva insieme alla decisione di prendere le distanze da una politica ridotta a Risiko.

C’è un episodio molto significativo nel libro Il gregge: il protagonista del romanzo si reca sulla tomba del suo amico Mario, detto Bulldog, stroncato da un'ignobile vendetta politica ordita come ritorsione per le sue indagini su un colossale caso di evasione fiscale che avrebbe rischiato di travolgere intoccabili vertici: una morte causata, un omicidio programmato, un delitto, però, capace di scuotere le coscienze. È sulla tomba dell’amico che Grittani fa pronunciare al suo personaggio l’atto di autoaccusa: “anch’io galleggio come tutti, come tutti sono finito a fare cose per cui ci si odia”. È doloroso ammettere che “qualcosa abbiamo sbagliato se la rivoluzione in cui credevamo è finita tra questi fiori ammalorati”. Ebbene al termine della visita sulla tomba di Bulldog, il protagonista gli chiede aiuto, “vienimi in sogno. Vienimi incontro. Ovunque possa capire cosa fare di questo tormento”.

La riflessione sulla tomba di chi si stima, sulla lapide della persona di cui si vorrebbe raccogliere l’eredità morale, il bisogno di richiamarsi a un “fratello” maggiore, a un modello di riferimento, è un omaggio che Grittani fa a Gomorra: nel romanzo di Saviano, infatti, la voce narrante si reca a Casarsa, presso la tomba di Pasolini, per recitare quello che definisce L’io so del mio tempo, allusione esplicita al celebre articolo di Pasolini Che cos’è questo golpe?.

E risalendo lungo la scala dei rimandi letterari evocati da Grittani, non si può non riconoscere il riferimento a Pasolini stesso, al componimento Le Ceneri di Gramsci, in cui il poeta dialoga con le spoglie del politico e pensatore sardo, in un maggio pesante, nel cui grigiore sembra naufragare “lo sforzo di rifare la vita”.

Il pregevole lavoro di Grittani, carico di tensione civile, parte da una denuncia amara sulle derive del nostro presente, ci mostra il grave rischio che tutti stiamo correndo: accettando l’ultranulla  “diventiamo gli spazi che abitiamo”. Se lasciamo che le nostre città si facciano prede dell’ignoranza, sarà così. Tocca a noi, dunque, cominciare a “proteggerle” “come si fa con una storia d’amore”, consapevoli del fatto che, come diceva ancora Camus, “la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”.

 

domenica 28 gennaio 2024

G. LIPOVETSKY - LA FIERA DELL' AUTENTICITÀ

 

Come un grido d’allarme, Lipovetsky annuncia nell’incipit del suo saggio, La fiera dell’autenticità (Marsilio 2022), che «dilaga una febbre di tipo nuovo, irresistibile, onnipresente: la febbre dell’autenticità» e «il ventunesimo secolo ne ha fatto un valore di culto». La moda “bio”, i cosmetici e i cibi preparati in casa, gli abiti vintage liberi dai diktat della moda: il «do it yourself» è il nuovo imperativo universale. Il lifestyle alternativo, la vita nei borghi alla ricerca delle sane tradizioni locali, immuni dal caos metropolitano, l’essenzialità e la frugalità di una vita green, minimal, conforme alla propria vera dimensione e capace di tradurre in realtà l’aspirazione di una piena aderenza a sé stessi, sono una norma valida quasi per tutti. «L’autentico è cool» e il «be yourself è il comandamento supremo». 


Ebbene che cosa c’è di stonato in tutto questo? Lipovetsky lo spiega in modo chiaro: il disancoramento del concetto di autenticità rispetto ai nobili ideali che tradizionalmente lo hanno sostenuto e la sua riduzione a effetto del mercato. Siamo entrati nello «stadio consumistico dell’autenticità»: «un tempo apprezzavamo la naturalezza  delle persone e dei loro comportamenti: oggi apprezziamo i prodotti ecologici (…). L’ideale dell’autenticità ha compenetrato il mondo delle cose». Insomma l’autenticità non è un ideale, ma una qualità dei prodotti di mercato, non un valore etico, ma economico, il quid pluris, la «formula magica» che si aggiunge al successo delle imprese.

Che fare allora? Dopo che filosofi e pensatori di ogni tempo hanno condannato l’ipocrisia della vita inautentica, ora dovremmo liquidare l’autenticità come uno pseudovalore? Lipovetsky, lungi da risposte semplicistiche, spiega che forse la via migliore è quella di rinunciare alla «religione» dell’autenticità. Nessuna delle grandi catastrofi (ambientali, economiche, sociali, politiche) del nostro tempo, sarà risolta dall’autenticità che non è la panacea, il rimedio universale a tutti i mali dell’universo, la risposta univoca alle grandi sfide del nostro tempo, qualora venisse interpretata come valore assoluto con cui identificare l’esistenza. È certamente, sì, un valore, un «potentissimo operatore di cambiamento», ma va inserita in un quadro più complesso di ideali da cui non si può prescindere.

Lipovetsky fornisce una vera e propria ricostruzione storica dell’evoluzione che il concetto di autenticità ha subito nel corso dei secoli, spiegando peraltro in che modo sia venuto nel tempo a intrecciarsi con il concetto di libertà. È evidente, infatti, che nelle società rette da governi dittatoriali, da regimi assolutistici, non esiste la libertà di essere sé stessi e di esprimere in modo diretto il proprio pensiero e la propria personalità.

Un momento particolarmente significativo nell’excursus tracciato da Lipovetsky riguardo alla storia della libera attestazione della propria individualità e unicità da parte dell’essere umano, è l’Illuminismo. Quando Rousseau scrive le sue Confessioni e mette a nudo la propria vita, commentandola anche nei suoi aspetti più personali e privati, dall’infanzia all’età adulta, opera una vera rivoluzione, quella di un IO che esiste e rivendica il diritto a una concreta emancipazione sia da un sistema politico di controllo serrato sulle esistenze sia da un’organizzazione sociale fondata su ipocrite finzioni esibite sul palcoscenico della corte da parte di un’aristocrazia compiaciuta dei propri privilegi gelosamente custoditi: è anche così che si è combattuta la lotta all’Ancien Régime.

Altrettanto decisiva secondo Lipovetsky è stata la rivoluzione del’68: interi gruppi sociali, giovani, donne, lavoratori – hanno condotto accese battaglie per il loro affrancamento da un passato autoritario, in nome di una vita più dignitosa, autenticamente ispirata a una personale visione del mondo e della vita, secondo prospettive esistenziali e culturali finalmente svincolate dai condizionamenti di uno svilente e opprimente principio d’autorità che la tradizione aveva lasciato consolidare nei più svariati ambiti della vita sociale, dalla famiglia, alla scuola, all’Università, alle fabbriche.

Ciò che nella storia ha sempre caratterizzato la lotta ingaggiata in nome dell’autenticità è sempre stata la forte, sentita, ispirazione a nobili ideali di libertà, equità, giustizia, sintetizzabili in una visione il più possibile aderente alle più sincere e profonde convinzioni rispetto alle quali gli uomini e le donne di ogni tempo hanno inteso orientare le proprie condotte e le proprie esistenze.

E oggi? Ora sebbene la democrazia abbia di fatto abbattuto ogni evidente ostacolo alla libera, genuina, espressione di sé, possiamo sinceramente dichiarare di vivere nell’era dell’autenticità? La facilità delle comunicazioni è davvero sinonimo di una manifestazione autentica del nostro essere al mondo? Se abbiamo, sì, conquistato la libertà DI fare ciò che vogliamo, ciò che ci piace e ci gratifica, possiamo con altrettanta sicurezza affermare di essere davvero liberi DA condizionamenti che inficiano e inquinano la nostra autenticità?

Si tratta di interrogativi che – nota Lipovetsky -  hanno un’amara risposta: nell’era del web, oltre alle ben note mistificazioni della realtà operate dall’Intelligenza Artificiale o comunque da un suo uso distorto, si arriva al terribile paradosso per cui si diventa autentici e ci si sente davvero sé stessi solo se si ricorre a falsi profili social. Non è oggetto della riflessione di Lipovetsky la mole delle conseguenze legali e etiche di tale fenomeno, bensì la disperazione e la solitudine esistenziale di chi trovando bugiarda e ipocrita la vita quotidiana in una società che è fatta di maschere, cerca rifugio nell’anonimato di un profilo falso, l’unica isola in cui poter esprimere la propria dimensione più vera e aderente a sé. Lo diceva già O. Wilde: “Datemi una maschera e vi dirò la verità”.

Insomma, sembra suggerire Lipovetsky, forse prima del tanto osannato e consigliato be yourself, “sii te stesso”, converrebbe ritornare alla socratica formula del conosci te stesso. Facciamo in modo che l’autenticità non sia una “moda”, ma un sincero “modo” di essere.

 

martedì 9 gennaio 2024

ANNIE ERNAUX - PERDERSI

 

Perdersi (ed. L’orma, 2023) di A. Ernaux è l’ampliamento - come l’autrice stessa dichiara nel testo - di un precedente romanzo del Premio Nobel francese, Passione semplice. In effetti la trama è la stessa: una donna si consuma d’amore per un rozzo diplomatico russo che le dedica solo ritagli di tempo. Tuttavia c’è, tra il primo e il secondo libro, un’evoluzione che la scrittrice nelle pagine iniziali mette in evidenza: Passione semplice – nota A. Ernaux - è il racconto di “una passione che mi aveva attraversato e che continuava a vivere in me”; in Perdersi, invece, è presente una “verità diversa”, “qualcosa di crudo e oscuro, senza salvezza, qualcosa dell’oblazione”, che l’autrice affida non a un semplice racconto, ma a un dettagliato diario scritto in prima persona in cui voce narrante e prospettiva dell'autrice coincidono perfettamente, secondo una formula più propriamente autobiografica che contraddistingue lo stile di A. Ernaux.


L’ambientazione storica è quella dello sfaldamento politico dell’URSS: “ il muro di Berlino era caduto da pochi giorni”. Tuttavia, ammette la scrittrice parlando del suo libro, “il mondo esterno è pressoché assente da queste pagine”: lo sguardo dell’io narrante è tutto rivolto all’esame radiografico della dimensione interiore. Perdersi è un’autoanalisi estrema, una radicale anatomia della propria ossessione erotica che J. Bazzi nella sua recensione su Domani definisce crudamente come un’offerta di sé “impresentabile, oscena e persino ridicola”.

Il titolo del romanzo ha un valore duplice. Allude certamente al fatto che la storia tra i due amanti dura circa due anni per poi restare solo nella memoria della protagonista che nel suo diario dimostra come sia facile e nello stesso tempo doloroso, perdersi, allontanarsi, dopo aver condiviso molte emozioni, e lasciare che un legame, pur così intensamente vissuto, evapori. Se però si guarda al modo disperato in cui l'io narrante vive le interminabili attese, spesso deluse, degli arrivi o anche solo delle telefonate del suo uomo, perdersi assume un altro significato. Se si osservano, infatti, con attenzione la totale dipendenza psicologica, “l’assoggettamento” – come lo chiama Ernaux - la completa sottomissione fisica, fino all’autoannullamento, della protagonista,  si comprende che perdersi è il verbo che meglio esprime il naufragio identitario ed esistenziale della voce narrante femminile completamente spossessata di sé.

La protagonista di Perdersi sa fin dall’inizio che “tutto, un giorno, deve finire”; il suo uomo è sposato, non ha nessuna intenzione di lasciare la moglie e non ha fatto nessun tipo di promessa: gli incontri sono fugaci, irregolari e occasionali. E questa certezza genera nella donna un “terrore senza nome” simile a quello che - spiega l’autrice nel romanzo - pervade il neonato quando è lontano dalla madre, ma che il bambino gradualmente supera nel momento in cui “diventa capace di conservare in sé l’immagine della mamma anche mentre lei è assente”. E invece nella protagonista questo terrore non l’abbandona mai, al punto che la vita senza il suo uomo perde ogni senso: “vivo in un dolore anestetizzato”.

Per ritornare, dunque, al giudizio sicuramente sferzante, ma anche per certi versi condivisibile, di J. Bazzi, è lecito chiedersi come sia possibile che una scrittrice, femminista, abituata alle letture di S. de Beauvoire, più volte citata in Perdersi, abbia potuto cedere a una forma di sudditanza erotica simile, a un’alienazione senza controllo.

Ernaux sa descrivere con precisione diagnostica come tutto ciò che di bello c’è nell’amore possa trasformarsi in dolore: la speranza diventa frustrazione, l’eros sfuma in senso di dominio da parte di un uomo volgare e autocentrato, l’attesa è ansia sfibrante o rassegnata procrastinazione.

Quello che di poco comprensibile, di irrazionale, c’è in questa relazione tra una donna sensibile, profonda, colta e un uomo egoista, “vanesio, sicuro di sé” spesso ubriaco, in cerca di piacere senza troppo coinvolgimento affettivo, nelle parole di Ernaux diventa sostanza vitale.

È difficile giudicare Perdersi, ma del resto anche questo fanno i lettori quando scelgono di arrivare fino in fondo alle pagine di un libro: le valutano. Certo non sbaglia J. Bazzi nel definirlo il racconto di un’ossessione erotica, ma ha ragione anche Luperini quando scrive che Ernaux sa “rappresentare – limpidamente, con durezza, con fermezza – la contraddizione che vive, senza orpelli”.

Perdersi è un romanzo che dà voce a un’indicibile verità: sul labirintico animo femminile nessuna ideologia può lasciare impronte.

Quella di Perdersi è una storia umana, scomoda, ma umana.

mercoledì 3 gennaio 2024

DONATELLA DI PIETRANTONIO - L'ETÀ FRAGILE

 

L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi, 2023) è un romanzo basato sulla centralità del silenzio, una barriera che separa le persone, impedisce agli affetti di esprimersi. È lui il vero protagonista della storia narrata, il demone che rende fragile ogni età della vita.


La vicenda prende spunto da una violenza che si è consumata tra le montagne abruzzesi, una tragedia che travolge la comunità e lascia segni pesanti sulle vite di tutti. Sullo sfondo di questa dolorosa esperienza, si innestano sofferenze personali che segnano le esistenze e procurano ferite immedicabili.

E tra drammi collettivi e individuali, si insinua lui, il silenzio, che paradossalmente amplifica il peso delle storie di ognuno.

Si tratta di un silenzio che paralizza slanci affettivi, cristalizza il passato, inibisce chiarimenti, disgrega legami, scava abissi.

La voce narrante è quella di Lucia. La prima cosa che mette in evidenza è l’assenza di un rapporto concreto e comunicativo con la figlia Amanda, improvvisamente ritornata a casa dopo una disavventura che la madre solo più avanti scoprirà. La ragazza non dà spiegazioni e non tollera domande; piange, ma dice chiaramente alla madre: non chiedermi niente (p.15). Lucia ignora molte cose di Amanda: io non so cosa dire di mia figlia (p. 21). Madre e figlia comunicano attraverso frasi scritte su foglietti e anche sulla carta l’impulso naturale a manifestare i propri sentimenti verso Amanda, viene subito represso da Lucia: aggiungo un cuore per lei, che subito cancello (p. 6). Si tratta di una vera e propria paralisi della comunicazione. Lucia ne è consapevole, ma non sa fronteggiarla: restituisco silenzio a silenzio (p. 26). Come madre si pone interrogativi, sa che dovrebbe costruire un legame più solido con la figlia, ma le mancano le parole e Amanda, d’altra parte, non si confida con lei. Resta solo una profonda amarezza in Lucia: non accetto che mia figlia faccia a meno di me. La sua rinuncia è il mio fallimento (p. 174). E alla incolmabile certezza della distanza, forse aggravata anche dai contrasti generazionali, si aggiunge anche una sottile paura per il giudizio sferzante con cui i figli attribuiscono colpe ai genitori: a un certo punto perdiamo la presa sulla vita dei figli. Vanno da soli e ci guardano spietati (p. 96). Amanda, infatti, attribuisce Lucia il peso della separazione dal padre, Dario: ti ha lasciata e nemmeno te ne sei accorta (p.97). Non entra nel merito dei disagi coniugali, Amanda, ma fa ricadere sulla madre la responsabilità del non accorgersi: vivere insieme non basta, insomma. Amarsi è un’altra cosa e Amanda è su questo che insiste.

A dispetto dei loro nomi parlanti – Lucia, colei che dovrebbe “illuminare” il percorso di crescita della giovane figlia e Amanda, la figlia appunto da “amare” al di là della ruvidità del carattere – le due donne non riescono a trovare un terreno comune sul quale gettare le basi per un possibile dialogo. Con lucidità Lucia ammette infatti: ciò che vale per me, conta così poco per mia figlia. Anzi, quando Amanda parte e va a lavorare a Jesi per un breve periodo, incerta se riprendere gli studi (non è una laurea a decidere chi sei, p. 172), con vergogna Lucia dice a sé stessa: per un mese sono libera dalla responsabilità, un sollievo. Sono libera da lei (p.174). In questo romanzo non sono messi in discussione i sentimenti, bensì domina l’incapacità di esprimerli. Lucia ama la figlia, (la amo. Più di tutto la amo, p. 174), ma non sa dirglielo.

Parte da lontano questa incapacità. Parlando del padre Lucia nota che non conosce parole d’affetto (p.108) e ricostruendo la storia dei genitori osserva: mi hanno concepita restando muti, lui per ignoranza, lei per pudore (p.108).

Il silenzio è il muro che separa Lucia anche dall’ex marito, Dario, con il quale spera segretamente che possano esserci possibilità di riavvicinamento, ma il silenzio, appunto, scava siderali distanze: tra loro ci sono ormai solo sguardi mancati, indifferenza. Lucia lo sa bene: ci stiamo perdendo così, senza passione e senza sangue. Non so quanti chilometri restiamo zitti. (p.99). È questo il peso dell’incomunicabilità. Sembra di vedere Gli amanti di Magritte, due volti separati da un drappo bianco che impedisce loro anche i gesti più naturali: guardarsi, baciarsi. Per Donatella Di Pietrantonio quel drappo è il silenzio, i troppi non detti.

C’è in questo romanzo un’immagine che sintetizza il peso del silenzio: a Napoli, durante una gita che Lucia, ragazza, fa con la madre, le due donne si fermano a vedere il Cristo velato. La madre lo osserva in raccoglimento. È il velo che la colpisce, non il volto del Cristo morto: è proprio un velo, ma di pietra (p.154).

Il silenzio è impalpabile, ma può essere di pietra.

(cfr. https://www.glistatigenerali.com/letteratura/leta-fragile-il-silenzio-che-scava-abissi/)

martedì 2 gennaio 2024

R. CICCARONE - AL CANTO DELLE SIRENE MANCA L'ACQUA POTABILE

                                                                                                                 Lo scaffale disadorno mostra
                                                                                                                 le inconsistenze temporali
                                                                                                                 solo un pupazzo a pezzi
                                                                                                                 sotto i calcinacci germoglia ...

                                                                                               (da Arrivata la cataratta la pupilla si esaltò)

 

Al canto delle sirene manca l’acqua potabile è il titolo della nuova raccolta poetica di Raffaele Ciccarone, (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2023). In chiaro “stile Kitchen”, lo stridente accostamento tra la leggendaria bellezza delle sirene e la prosaica ordinarietà dell’acqua potabile, per la cui assenza le creature del mito annaspano, traduce in modo immediato l’interrogativo di fondo che costituisce il filo rosso dei componimenti di questa silloge: la poesia ha ancora qualcosa da cantare?

C’è un brevissimo racconto di Franz Kafka, Il silenzio delle sirene, in cui l’autore boemo immagina una storia diversa dal noto racconto omerico e cioè riferisce che all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono: le sirene avevano rinunciato a sedurre l’eroe, preferendo il silenzio.

Stando, dunque, alla lezione di Kafka, dovremmo dedurre che nel mondo contemporaneo non ci sia più spazio per il canto delle sirene, per la poesia: l’orrore quotidiano ha cancellato ogni possibile traccia di bellezza. Già Baudelaire notava che la rue assourdissante – metafora della civiltà industriale con il suo rumore di fondo – rendeva fuggitiva la bellezza, riducibile solo a un lampo cui seguiva poi un’interminabile notte. E al poeta che in un’epifanica rivelazione riusciva a cogliere, pur nell’insensatezza dell’esistenza, il fascino intraducibile di ciò che si cela oltre la fenomenica materialità delle cose, non restava, alla fine, che l’amarezza dell’inattingibilità, la certezza dolorosa dell’impossibilità di un completo possesso.

Sarebbe il caso dunque di ammettere che la poesia non ha più niente da cantare. È questo il senso della riflessione di Montale: quando gli fu conferito il premio Nobel, alla domanda se ancora fosse possibile la poesia nella società contemporanea, rispose chiaramente che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani.

Non resterebbe, allora, che l’afasia.

Eppure, anche se perduto ha la voce /la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto - scriveva C. Sbarbaro - Ciccarone dichiara convintamente, invece, che a nulla serve il silenzio dei poeti (p.24) e che quando il canto delle sirene smette / è già buio (p.76): è compito dunque dei poeti sfidare il buio, riuscire a scorgere quell’ignota forza che può tra una stella e una cometa lambire un papavero (p.78). In fondo sono loro, i poeti, i soli in grado di decifrare il linguaggio di una nuvola nel deserto (p.60).

Nella prefazione alla raccolta di R. Ciccarone, G. Linguaglossa, citando Hölderlin, nota: ciò che resta lo fondano i poeti. Gli antichi hanno tramandato che il poeta dei poeti, Omero, fosse cieco: a dire il vero nessuno sa niente di Omero, ma averlo immaginato privo di una vista fisica simbolicamente spiegava il fatto che i poeti fossero in realtà dotati di uno sguardo superiore, di una prospettiva unica, della capacità di vedere ciò che all’uomo comune sfugge.

Questo non significa certo negare il deserto: i poeti sanno bene che la risposta latita (p. 21). Non c’è infatti soluzione al caos imperante, non esistono porti sicuri di fronte al naufragio dei significati. In un mondo in cui le certezze vacillano neppure la scienza con le sue leggi è in grado di sciogliere i nodi della storia, perché la nostra è una realtà fatta di paradossi che dissolvono la logica, le sue formule e i suoi teoremi: nel triangolo l’ipotenusa si allontana dal cateto (p.15), l’essere umano opera per la sua stessa estinzione e fa della scienza esatta un’arma volta allo sterminio, osservava Quasimodo con grande lucidità.

Ma i poeti non cercano soluzioni, non sono loro a doverle fornire. Il loro sguardo si stende oltre i deserti, si ferma negli interstizi dell’esistenza: se Lesbia insiste nel baciare (p.19) vuol dire che in fondo ci sono ancora strade da percorrere; anche se le nostre vite ci appaiono come trincee piene di cunicoli labirintici e oscuri, i poeti come talpe in avanscoperta cercano brandelli di pace (p.52): anche loro, come Omero, vedono poco e a fatica mettono a fuoco i varchi della speranza, ma si sforzano con tenacia. Sanno certamente che lo scaffale disadorno mostra/ le inconsistenze temporali, ma continuano a credere che, nonostante tutto, anche un pupazzo a pezzi sotto i calcinacci germoglia (p. 52). 

Non abbiamo altro che il presente: la memoria ha diamanti sporchi (p.25), il passato non insegna, il futuro ci minaccia, il tempo come dimensione progressiva è un’invenzione dei filosofi. La storia - sosteneva Montale - non è magistra di niente che ci riguardi e soprattutto non contiene / il prima e il dopo. Rimane, dunque, solo uno scaffale disadorno, che noi dovremo riempire. Tocca a noi trovare il senso all’esistenza sradicata di un mondo senza appigli, dai cui calcinacci – frammenti disgregati di un tutto che non c’è più – può germogliare ancora la bellezza: la farfalla vola sul campanile (p.59), la luna prende un caffè a Venezia (p.80) e la nebbia si può fendere se Kandinsky lancia segni fluorescenti (p.70).  È questo il potere dell’Arte.

                             

                                                                                                                                                                    

 

giovedì 17 agosto 2023

POETRY KITCHEN

                                             

Mentre altrove piovono bombe sparano
droni cannoni e altre simili cose
la giraffa spicca il volo supera la muraglia
sotto il rullo di tamburi a sequestrare
il cielo
(R. Ciccarone, "Mentre altrove piovono bombe", Poetry kitchen, 2023)     

Orazio nell’Ars poetica scriveva: ut pictura poesis. La tradizione ha ritenuto la poesia simile a un quadro, in grado cioè di rappresentare la realtà, e perciò sin dai tempi più remoti è stata sempre dotata di un’intrinseca comprensibilità finalizzata alla trasmissione di un messaggio chiaro e definito. Quella tradizionale si configura perciò come una poesia di “cose” nel senso che – anche quando gli sperimentalismi sono diventati più arditi e acuti -  c’è sempre stato un rapporto diretto tra le parole e le cose, tra l’idea e il linguaggio atto ad esprimerla. Tuttavia il Novecento con il suo carico di irrazionali atrocità culminate nell’Olocausto e nell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, con l’inquietante “banalità del male” commesso da persone ordinarie e ritenute benpensanti, con quella sua inquietante e forse irripetibile atmosfera che Mark Fischer ha definito wird and eerie e che ha reso la distopia un dato di fatto, ebbene il Novecento ha rotto il legame tra le parole e le cose. Quando le "follie di morte", per usare un’espressione montaliana, hanno dettato tempi e fatti della Storia, mistificando il linguaggio e frantumando ogni orizzonte di senso, quale possibilità comunicativa può ancora essere attribuita alla poesia? Se c’è un vuoto di senso è a quel vuoto che la poesia deve dare voce.

Stat rosa pristina nomine. Nomina nuda tenemus: così U. Eco concludeva il suo celebre romanzo Il nome della rosa. Ci restano solo nomi e ogni nome è un flatus vocis che non approda a nessun significato definito e compiuto. È desolazione? È libertà? I poeti non giudicano e non hanno risposte né perciò possono fornirle, però traducono nelle loro scelte lo Zeitgeist, lo spirito del tempo in cui vivono.

Incontri di suoni, fascinazioni lessicali, accostamenti inediti e inusuali tra nomi, personaggi mitologici, oggetti tratti dalla quotidianità più ordinaria, frantumazione della metrica, scomparsa delle rime, andamento prosastico, assenza di punteggiatura sono i tratti di un modo diverso di fare poesia, come dimostrano gli artisti che nelle due antologie di Poetry Kitchen (la prima pubblicata nel 2022, la seconda nel 2023) hanno raccolto versi ricchi di una dirompente carica di libertà espressiva. Sebbene nell'antologia edita nel 2023, M. L. Colasson dichiari apertamente che "la poesia kitchen non ha identità alcuna (...) disconosce i concetti di avanguardia e retroguardia", tuttavia, a una lettura attenta, la Poetry kitchen per certi aspetti può ricondursi al modello rivoluzionario avanguardistico-surrealista, pur distaccandosene sia per la mancanza di tensione polemica, di critica radicale contro la tradizione classica, sia per la perdita del carattere orfico-onirico-rivelativo che ha caratterizzato buona parte della poesia d’Avanguardia.


Poetry kitchen, 2022

Nella Poetry Kitchen non c’è rabbiosa cesura con il passato, piuttosto si assiste a un riuso libero del patrimonio culturale della tradizione, dissezionata, atomizzata e riadattata per dare vita a forme completamente nuove, attraversate da correspondances capaci di avvicinare cose e parole normalmente irrelate ma che la creatività artistica può accostare e che la libertà interpretativa ha il diritto di ricomporre, scorgendovi significati possibili, brandelli di verità nascoste, suggestioni emotive: "la poesia assomiglia a un unicorno vestito da pappagallo" (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023)

La Poetry kitchen è decostruttiva, slegata dal referente.  Nell'introduzione alla seconda raccolta (2023) G. Linguaglossa osserva che la Poetry kitchen è "un gioco di specchi (...) di fuochi d'artificio (...) una bizarrerie". 

Poetry kitchen, 2023

“Sono stanco che il Sole resti in cielo, non vedo l'ora che si sfasci la sintassi del Mondo”, scrive I. Calvino  nell’excipit del Castello dei destini incrociati. E così smembrando sintassi e ritmi, la Poetry kitchen registra lo sfaldamento delle archittetture tradizionali ritenute incrollabili,  dà atto della caduta di quelle granitiche cattedrali di certezze e si apre a letture personali, sollecita contributi esegetici che mettano in gioco la creatività di chi legge, intercetta lo sguardo di chi cerca strade non battute dai più. "Il mito è falso, ha narrato il falso", nota G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) alludendo all'inesorabile crepuscolo degli idoli  cui la tradizione si è illusoriamente aggrappata.

Eppure tra i labirinti delle possibilità sembrano farsi strada alcuni punti fermi.

Si avverte, per esempio nei versi di Raffaele Ciccarone(Poetry kitchen 2022) un acuto rilievo rivolto alla contemporaneità e alle sue derive: “una Olivetti 32 vuole descrivere la storia/ dice di averla tutta nei tasti”. Emerge chiaramente il riferimento alla manipolazione dei fatti storici operata da una sempre più incontrollabile tirannide tecnologica simboleggiata dalla “Olivetti 32”. Si tratta di una sottile denuncia contro l’arroganza di un presente dominato dal prometeico vortice di un’iperdigitalizzazione che reprime ogni tentativo di inversione della rotta: il potere dei “tasti” schiaccia ogni alternativa. Controllati da un invisibile Panopticon viviamo in una dittatura algoritmica, offrendoci spontaneamente alla sovraesposizione, sentendoci erroneamente liberi di esprimerci senza capire che forse proprio questa pornografia dei dati che noi stessi forniamo nasconde una profonda opacità che sconfina nel controllo. L’altra faccia della razionalità algoritmica è infatti un regime di sorveglianza digitale: la macchina possiede ormai la storia e “dice di averla tutta nei tasti”. E non c’è scampo: la tirannide tecnologica non lascia spazi vuoti, profana persino gli altari delle chiese: “il prete perdonava tutti seduto al touch screen” (F.P. Intini, Poetry kitchen, 2023)

Con tono amaramente ironico Giorgio Linguaglossa nei suoi componimenti, registra il definitivo tramonto della domanda e del dubbio: “i punti interrogativi si sono ribellati e sono stati sostituiti/ dai punti esclamativi” (Poetry kitchen, 2023). L’età della ricerca, dei perché, dei percorsi anche tortuosi attraverso cui si sperimentava il piacere della conoscenza fatta di curiositas, è finito e con la domanda è per sempre scomparso il tempo dell’ascolto, dell’apertura all’altro da sé. La pretesa dell’assoluta validità delle proprie affermazioni si accampa oggi con la perentorietà propria di chi è pronto a schiacciare il punto di vista altrui. Sono le domande che creano relazioni, dialoghi, attese di risposte, confutazioni, confronti, incontri, possibili convergenze, altrimenti è l’afasia. La scomparsa della domanda come sparizione dell’altro determina una tribalizzazione dei comportamenti: mi confronto solo con chi la pensa come me e chi non è con me è contro di me. Persino l’algoritmo asseconda questa chiusura tribale nelle filter bubble che restringono l’orizzonte delle informazioni a ciò che asseconda i gusti e le preferenze personali. Le conseguenze sono tristi: isolamento intellettuale, riduzione del confronto, polarizzazione delle opinioni e di conseguenza incremento degli scontri a danno del dialogo e del rispetto delle posizioni altrui.

D’altra parte, se, però, mancano gli approdi, è comprensibile l’atto di ribellione dei punti interrogativi: se il verbum non riesce più a dire il verum, la domanda è inutile e la parola può diventare vocabulum, mera vox clamans in deserto con cui “giocare” come i poeti kitchen dimostrano. Quello dell’Essere resta un sogno, forse un desiderio che la storia ha spazzato via e, scrive F.P. Intini, citando i versi di Quasimodo, giace “trafitto da un raggio di Sole”, un Sole che come un dardo ferisce senza ormai illuminare più niente, senza più aura divina. E perciò quella sullo “smarrimento” del mondo contemporaneo resta kafkianamente una “domanda” senza risposta, consegnata all’assurdo: “alla domanda sullo smarrimento, la pratica passò di ufficio in ufficio” ((F. P. Intini, Poetry kitchen, 2023).

Siamo immersi in un caos febbricitante: “il rumore della marmitta fracassa il tetto/il vetro si sbriciola”, (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), quello delle città è un “ruggito” che aliena (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023) e che ricorda, con la sua carica spersonalizzante, la rue assourdissante che rendeva a Baudelaire impossibili i suoi desideri d’incontro e d’amore. E in questa realtà confusa, “in assenza di una scacchiera” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022), trasciniamo i nostri giorni, condannati ormai a una politica senza progetti, una politica incapace cioè di suggerire una direzione ai destini di masse travolte da false promesse e ripetuti inganni. “La lunga mano della pubblicità” (F. P. Intini, Poetry kitchen, 2023) condiziona scelte e condotte, colonizza l’immaginario, ha preso il posto della politica nel fornire risposte ai bisogni della gente.

I poeti antologizzati nei due volumi Poetry kitchen con il loro tocco leggero planano sul presente constatandone – senza grevi condanne o nostalgie per stagioni irrevocabili - la palustre immobilità: “la girandola è ferma, il vento assente” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Sembra non esserci più spazio per imprese eroiche, per ambizioni, aspirazioni grandiose: la poesia dà voce allo stato d’animo di chi, nella sua prigione quotidiana, si sente “come un gambero messo in padella che frigge/ e saltella” (M. L. Colasson, Poetry Kitchen 2023). Ma forse anche gli eroi del mito sono un inganno e G. Linguaglossa (Poetry Kitchen 2023) ne rivela il vero volto: Menelao come un uomo qualsiasi, “soffre di eiaculatio praecox”, Clitennestra “posa mezza nuda per il calendario Pirelli” e Menelao, in fondo, è solo un “cornuto”: la tradizione ha mascherato la realtà, ha inventato superbe fole per nascondere l’infinità fragilità dell’umana condizione.

E nell’assuefazione generale al “collasso del simbolico” (G. Linguaglossa, Poetry Kitchen 2023) probabilmente non rimane che “contemplare (…) le acrobazie che un ragazzo fa fare al suo wifi drone” (R. Ciccarone, Poetry Kitchen 2022).

Ebbene, questo forse oggi resta da fare ai poeti: "giocare" con le parole per "sequestrare il cielo" (R. Ciccarone, Poetry kitchen 2023), perché nonostante tutto è in quelle “acrobazie” della creatività che si nasconde la chiave che aprirà ai giovani le porte del futuro.

"Il genere umano non può sopportare troppa realtà", osservava T. S. Eliot. Perciò, suggerisce R. Ciccarone, esiste la forza della poesia, per spiccare il volo, per superare la montaliana "muraglia" di un'ingabbiante datità in cui tristemente, scriveva C. Sbarbaro, "tutto quello/ che è, è soltanto quel che è".

 


venerdì 16 giugno 2023

ANGELO PIEMONTESE - IL LUNGO ADDIO ALL'IMPEGNO

 

Con Il lungo addio all’impegno. La narrativa italiana dalla ricostruzione alla caduta del Muro di Berlino, Angelo Piemontese prosegue l’analisi critica del panorama letterario italiano iniziata con la monografia su Pavese (Riflessi sull’anima) e maturata poi con il successivo saggio Realismo e Neorealismo. Correnti involontarie.


Il lungo addio all’impegno indica le tappe del cedimento progressivo di quella passione intellettuale, che aveva avuto nel Neorealismo la sua vetta apicale e che aveva trovato alcune delle sue traduzioni etiche più nobili nell’esplicito rifiuto di Pavese verso il modello di vita fascista e nella distinzione operata da Vittorini tra Uomini e no. Ne è derivato uno spazio vuoto che - nota chiaramente Piemontese - è rimasto incolmato o che si è tradotto nella produzione di una semplice letteratura di consumo.

Con il trionfo di un pensiero unico a sfondo mercatista, il dominio della società delle immagini e la conseguente trasformazione del ruolo dell’intellettuale da mediatore valoriale a mero intrattenitore, ad opera dei mass media, e infine con l’avvento del Postmoderno e il crollo di ogni ubi consistam, ben registrato da Eco nel suo bestseller Il nome della rosa, gli intellettuali sono stati costretti a prendere atto della marginalità della letteratura e del suo ruolo rispetto ad un mondo assuefatto a un “ilare nichilismo” (per usare una definizione cara a R. Luperini), ad un edonismo fatto di soddisfazioni istantanee, caratterizzato dalla pretesa dell’I want it all, I want it now, come cantavano i Queen. Sullo sfondo di questo mondo senza orizzonti di significato e segnato dall’evaporazione di senso, A. Piemontese registra la rinuncia del ceto intellettuale a tracciare possibili prospettive, a cercare risposte pur nella rassegnata consapevolezza della loro insufficienza e mancanza di definitività. Si affermano di conseguenza, tra le tendenze narrative, la graduale chiusura nell’analisi psicologica, nella dimensione privata, lo slittamento verso intrecci antistorici e antimanzoniani, l’approdo ad allegorie intrappolanti come quella del labirinto, scelta per esempio da I. Calvino come emblema di un mondo privo di senso, un ostacolo certo da affrontare virilmente, ma senza alcuna garanzia di una exit strategy.

Angelo Piemontese innesta la sua indagine critica su un quadro storico-culturale accuratamente delineato e individua alcuni fattori di destabilizzazione che costituiscono il background di cambiamenti epocali dal secondo dopoguerra in poi:

-       la crisi dell’agricoltura e il conseguente abbandono della terra e dei comuni del Mezzogiorno d’Italia;

-       la fine della famiglia tradizionale e l’avvento di nuove forme di vita in comune;

-       boom economico e radicale trasformazione di stili di vita, immaginario, ruoli sociali, dinamiche relazionali;

-       influsso massiccio dei media nella omologazione di gusti e comportamenti.

Il fallimento, poi, dell’azione bellica intrapresa dagli USA in Vietnam, con il carico enorme di perdite umane e materiali, con il lascito pesante di un’umanità impoverita sotto tutti i profili, è considerato da A. Piemontese un momento estremamente significativo, da cui prende avvio una nuova condizione culturale: vengono meno le residue persistenze di forme di impegno intellettuale e tendono a prevalere, invece, atteggiamenti di ripiegamento, sfiducia, smarrimento che segnano l’abbandono di ogni slancio propositivo, di qualsiasi spinta attivistica o anche solo volontaristica.

Ancora prima dell’abbassamento della letteratura a prodotto di mercato – effetto della forza pervasiva di concezioni iperliberistiche che hanno nel tempo colonizzato ogni campo d’azione umana – Piemontese fa coincidere, per esempio attraverso l’asse Tomasi di Lampedusa-Morante, la fine dell’impegno con la fine della Storia, cioè della storia manzonianamente intesa come un cammino progressivo verso un fine ultimo positivo e le cui tappe, pur dolorose, si configurano come momenti, sì, critici, ma pur sempre superabili in vista di uno scopo che sub specie aeternitatis si situa come bene superiore.

Già dopo l’emblematico naufragio verghiano della Provvidenza, Il gattopardo è chiaramente citato da Piemontese come espressione dello smarrimento delle coscienze e come riferimento di un ceto intellettuale che ha rinunciato alla sua carica civile, un ceto che del ripiegamento introspettivo ha fatto la sua cifra ormai distintiva e che nella rinuncia riconosce il marchio della propria impotenza rispetto ad un’azione trasformativa e incisiva sulla società. Del resto, lo dice chiaramente il Principe di Salina a Chevalley, parlando dei Siciliani che di fatto nel suo discorso assurgono a categoria esistenziale e smettono, cioè, di essere un’entità meramente geopolitica: “siamo stanchi e svuotati” esattamente come la generazione di intellettuali che Tomasi di Lampedusa rappresenta, un ceto, cioè, spossato dal peso di un “secolo breve” – espressione con cui E. Hobsbawm ha definito il Novecento – e schiacciato da quell’insostenibile leggerezza dell’essere alla quale Kundera ha addebitato l’irrimediabile perdita di tutti i parametri di riferimento nel magma indistinto di un fluido relativismo.

L’atroce carica distruttiva del Novecento sembra trovare una rappresentazione ancora più chiara nel romanzo La storia di Elsa Morante. Secondo la nota scrittrice la storia travolge tutti, è il regno dell’assurdo. All’incipit del romanzo, lo stupro di Ida Ramundo ad opera di un giovane soldato nazista, è l’allegoria di un’Italia – forse di un’intera Europa – stuprata, violata irrimediabilmente da eventi che hanno prodotto un vulnus non ancora cicatrizzato. E di fronte a questo “scandalo” – termine che Morante usa per definire la Storia come un apocalittico trauma che distrugge senza pietà – quale può essere il ruolo dell’intellettuale? Quali i binari della sua azione? Come può ancora configurarsi il suo impegno?

A simili quesiti c’è forse una possibile, transitoria, risposta: all’esistenza intesa montalianamente come “immoto andare” lungo invalicabili cortine e muraglie, Piemontese oppone con Calvino, il valore della sfida al labirinto dell’esistenza: del labirinto bisogna conoscere le mappe, occorre sapere che non esistono facili vie d’uscita, ma agli intellettuali, alla letteratura, si chiede di non cedere, di non accettare la resa incondizionata all’oggettività come dato immutabile. Gli intellettuali non possono abdicare al loro compito, cioè, dare forma all’informe, nota Piemontese, rendere chiare le cose, “saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”, scrive Calvino nelle Città invisibili.

L’autore del Lungo addio all’impegno attraverso la sua puntuale analisi della letteratura del Novecento traccia un quadro della nostra storia e scegliendo di chiudere il suo saggio con le opere di Calvino sembra condividerne la prospettiva aperta, l’interesse, cioè, per “l’uomo nei rapporti con ciò che lo circonda, nei suoi cambiamenti senza certezze assolute a cui appoggiarsi, ma legato alla sua responsabilità e libertà, anche a costo di sofferenze” (p. 443). Tuttavia proprio la parabola dell’attività letteraria di Calvino, nota il saggista, contiene un punto di svolta: “egli ha prima combattuto per un’Italia diversa, ha vissuto poi le vane speranze di un suo profondo rinnovamento, non arrendendosi di fronte al loro evidente naufragio e, cercando fuori dall’angusta realtà italiana, nuove risposte, non sempre soddisfacenti” (p. 464-465) ed è alla fine approdato – con i suoi ultimi testi narrativi, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Il castello dei destini incrociati -  a quelle che F. La Porta ha definito “sapienti macchine combinatorie, narrazioni elegantemente vuote” che dimostrano un solo dato: “non ci sono più storie da raccontare”, ci ricorda Piemontese (465).

Questa constatazione costituisce il presupposto dell’amara tesi del saggio in questione: proprio l’evoluzione della poetica e della riflessione di Calvino ha reso evidente che è venuta meno negli scrittori “la necessità di impegnarsi nel tentativo di mutare le storture della società” (p. 468).

L’addio all’impegno ha una radice ancora più profonda: “lo sviluppo impetuoso dei mass media e l’inarrestabile avanzata del consumismo e delle leggi di mercato hanno portato gli scrittori a perseguire una narrativa più vicina alle richieste del pubblico e alle esigenze di vendita dei lettori” (p. 468).

La fine dell’impegno ha una sua evidente matrice: “conta esclusivamente il mercato”, scrive lapidariamente Piemontese.

E all’intellettuale non resta che accettare la sua condizione degradata “al servizio di istituzioni pubbliche e private” o di “addetto alla cultura come spettacolo” (p. 472). In un panorama di forte saturazione, di trionfo del “già detto”, di inevitabile rinuncia a “scoprir nuovi mondi” (476) - parole di V. Spinazzola che Piemontese non tralascia – non possono che restare frammenti disarticolati incapaci di restituire senso a un mondo naufragato, incenerito.

L’intellettuale dunque, conclude Piemontese, non può che “riutilizzare i reperti del passato per ottenere risultati spettacolari” (p. 476), ma non certo per indicare vie da seguire o fornire messaggi rivelativi. È emblematico il riferimento, al termine del saggio, a Il nome della rosa. Nella pagina conclusiva del romanzo di U. Eco, il protagonista Adso da Melk dichiara inequivocabilmente: “non mi resta che tacere (…). Fa freddo nello scriptorium”.

Così, nel silenzio e nel gelo di un immenso deserto, l’intellettuale dà il suo definitivo addio all’impegno.

 

Angelo Piemontese, Il lungo addio all'impegno,  Genesi editrice, Gennaio 2023, pp.479