A meno che non si tratti dell’Histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, l’autobiografia è un genere che presenta ardue difficoltà per chi
voglia affrontarlo. Casanova riusciva ad attrarre il lettore con i particolari
pruriginosi di una mitografia di sé costruita nei termini esemplari di un
riuscito e coerente progetto di vita libertino, edonistico e consumato
all’insegna del desiderio. Ma un buon padre di famiglia a quali espedienti
narrativi deve ricorrere per incuriosire i suoi lettori?
La
principale strategia che Messina usa è l’affabulazione.
L’autore
prende le mosse da un paradigma letterario nobile, Pasolini, e, precisamente,
decide di riferirsi ad un suo testo dal titolo emblematico, appunto, Affabulazione. Non è qui importante il
contenuto, dell’opera pasoliniana certamente di ispirazione autobiografica (al
centro del suo dramma Pasolini pone il controverso rapporto con la figura del
padre), quanto, piuttosto il senso stesso dell’affabulazione in sé.
In excipit
della tragedia di Pasolini, in un dialogo tra il personaggio del Padre e
un’enigmatica presenza - che forse c’è o probabilmente è solo frutto
dell’immaginazione del personaggio – il Padre rivolgendosi al suo interlocutore
e riferendosi alla complicata storia con il figlio, dice: come tu hai ben capito, questa non è la storia di un solo padre.
Ebbene, Papaveri
rossi non è solo la storia di Giuseppe Messina.
Un’opera
d’arte si riconosce dalla forza universalizzante che emana.
Uno dei
rischi maggiori di un libro autobiografico consiste nel fatto che esso riguarda
l’esperienza personale del narratore/autore e non è detto che questa riesca a
suscitare l’interesse dei lettori, oggi, in particolare, sollecitati da una
serie di storie e fatti cui il web dà immediata e ampia diffusione.
Occorre,
dunque, riflettere sul significato dell’affabulazione: si tratta della capacità
di rendere universale ciò che si narra; “affabulare” significa fare in modo che
il lettore si senta chiamato in causa, e percepisca che quanto è scritto lo
riguarda: mutato nomine de te fabula narratur, diceva Orazio[1].
Ancora in Affabulazione, il personaggio
pasoliniano del Padre si chiede: che
cos’è un’epoca? Messina risponde chiaramente a questo interrogativo: un’epoca
è un tempo destinato a finire, un’epoca è una stagione che passa. E per questo
bisogna narrarla, immortalarla, perché
l’uomo non dimentichi, scrive
Giuseppe Messina. Questo è l’alto mandato della letteratura: uno scritto, un
romanzo, un libro è un monumentum, un’opera,
cioè, destinata a sfidare le stagioni, il tempo che passa.
Un monumento
MANET, resta per sempre.
Un monumento
MONET, ammonisce, ti mostra un cammino, ti dice che cosa stai perdendo e che
cosa dovresti conservare, per rimanere te stesso, anche se il mondo intorno a
te cambia freneticamente.
Un monumento
perpetua il ricordo del passato, lo rende meno lontano. Per i Greci, le Muse,
le dee dell’arte e della poesia, erano figlie di Mnemosyne, la Memoria
divinizzata, e nella radice del termine monumentum
c’è il verbo memini “io ricordo”.
E l’atto del
ricordare è un lento e accurato riesame della propria vita; non vuol dire
abbandonarsi a semplici rievocazioni nostalgiche, a vaghe memorie, ma implica
una selezione attenta di ciò che ha contato davvero ed è rimasto nel cuore,
come suggerisce l’etimologia della parola “ricordo”, (da “cor, cordis”, cuore).
A questo proposito, annota Messina: fra qualche anno toccherà ai nostri figli e
ai nostri nipoti rammentare gli anni migliori con i propri ricordi: dei nostri
resteranno quelli che avremo saputo trasmettergli. (p. 138)
In Papaveri rossi appare chiaro che la
capacità di affabulare acquista anche un carattere sociale e civile. Narrare,
si è detto, significa custodire la memoria individuale e collettiva: si tratta
di un messaggio profondo e incisivo, di un’impresa
davvero coraggiosa, in un’epoca, come la nostra, fatta, invece, di facili
rottamazioni del passato.
Sin dalla
dedica iniziale Messina istituisce un rapporto privilegiato con il lettore e,
immaginandolo, cerca le parole più precise per rendere concreto e plastico il
racconto di una vita che si snoda attraverso vicende, incontri ed emozioni
intense.
Scrivere è
come parlare: presuppone che qualcun altro legga o ascolti. È innegabile: chi
scrive non lo fa mai solo per se stesso, vuole, piuttosto lasciare un segno che
resti al di là del breve spazio che gli è concesso nell’esistenza. Possidio,
alla fine della sua biografia di S. Agostino riporta un interessante epigramma,
che spiega bene l’aspirazione di ogni scrittore a proiettarsi oltre i limiti
cronologici in cui si trova a vivere: Vuoi
sapere, viandante, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, ed ecco io parlo:
la tua voce è la mia.
Papaveri rossi
va, quindi, letto anche in questa prospettiva: si tratta di un libro che
vuole immortalare un’epoca, lasciare un messaggio e consentire al suo autore di
sfidare il tempo.
Messina
precisa, però, che affabulare vuol dire anche saper affascinare, procedere,
cioè, non per ricostruzioni memorialistiche o documentaristiche, ma escogitare
modi per sedurre il lettore, nel senso etimologico di se-ducere, portarlo cioè, verso un altrove che lo catturi e lo
allontani dalla una routine abitudinaria: non è questo il potere della
letteratura?
Quindi,
affabulare equivale a universalizzare la propria storia e a sedurre con la
parola.
Una seconda
strategia narrativa che rende Papaveri
rossi un’autobiografia interessante - nel senso, ancora una volta
etimologico del termine, che fa riferimento a un testo in cui il lettore abbia
l’impressione di inter- esse, di
starci in mezzo, al punto da sentirsi coinvolto nei fatti narrati e nelle
emozioni evocate – è il realismo come
forma di innamoramento.
Spesso,
ingenuamente, - spiega Walter Siti nel suo saggio Il realismo è l’impossibile[2]
- si crede che l’approccio realista in letteratura sia il “copia e incolla” di
un frammento di realtà: quanto più un libro è verosimile, tanto più è ritenuto
realista.
Invece il realismo
vero non è affatto mimesi del reale, non si limita a documentare; lo scrittore
realista non è certo un copista, deve essere capace di disvelare un mondo che
non è ovvio; deve essere in grado di sfidare
il mondo; deve saper estrarre da una scena di vita, da un dettaglio, dalle
cose, dai fatti che accadono, il volto di un’epoca, il senso della vita,
sottraendo quei dettagli dal flusso indistinto della consuetudine e rendendoli
esemplari.
Lo scrittore
realista deve amare a tal punto i particolari che cattura dalla realtà da
renderli il filtro prospettico di una visione del mondo. E quando si parla di
particolari si fa riferimento ai particolari belli e ai dettagli brutti: ogni
cosa – vicenda, evento, fatto, oggetto, incontro, paesaggio, luogo - va amata
profondamente per quello che è, esattamente come di un uomo o di una donna si
amano i tratti seducenti e le imperfezioni, perché ogni cosa concorre a rendere
unica la persona che ci appassiona.
E per questo,
con fedeltà al reale Messina descrive Foggia distrutta e ridotta in macerie
dopo la guerra, documenta la piaga del caporalato, ricorda le battaglie di
Giuseppe di Vittorio, il gigante del
sindacalismo italiano, ma con lo stesso amore per il vero sa cogliere la
luce autentica della vita nella processione dei terrazzani che tornano, sui loro
traìni, dalla raccolta dei fichi d’india. Si tratta di una descrizione
realistica e lirica al tempo stesso: sotto
ogni carro dondolava un lume a petrolio dalla luce fioca … quella cinquantina
di luci, come grosse lucciole, creava una suggestione unica nel dondolante
cammino verso “I tre archi” della Porta, su una strada appena rischiarata dai
pochi lampioni a gas. (p. 77). Non è casuale l’insistenza, da parte dell’autore,
sul verbo “dondolare” che fa riferimento plasticamente all’instabilità degli
antichi e rudimentali mezzi di locomozione, carri di legno a due ruote, ma –
metaforicamente – suggerisce anche la precarietà di un rito quasi sacro,
tuttavia destinato a perdersi, come tutte le cose belle, al tramontare di
un’epoca.
Messina,
inoltre, fa leva su un altro
fondamentale procedimento, la personificazione.
Qualunque
tema o argomento venga trattato, esso è incorporato, incarnato, personificato:
prende corpo, cioè, in personaggi emblematici che fissano in modo indelebile
nel lettore il senso della riflessione, senza che l’autore faccia ricorso a
parole di commento. Ogni aggiunta esplicativa rischierebbe, infatti, di
rovinare la densità e il vigore di creature che nascono dal contesto narrato e
nel contempo lo travalicano per stagliarsi come espressione di valori. Si pensi,
per esempio, alla famosa Madre di Cecilia
di manzoniana memoria, sintesi perfetta di straziante dolore, dignità nella
sopportazione, rassegnazione di fronte all’ineluttabilità degli eventi,
incrollabile fede in Dio.
In Papaveri rossi, l’uomo anziano e la signora vestita di nero(p. 96) sono
due anonimi personaggi che, però, nel racconto assurgono a emblemi di una
condizione esistenziale. Il piccolo Giuseppe si sta recando con sua madre verso
il campo di concentramento di Statte,
presso Taranto, dove il padre è prigioniero degli Inglesi. Il modo di starsene silenzioso in un angolo del camion, a ridosso della cabina di guida, con lo sguardo perso nel vuoto traduce
icasticamente la pena sofferta dal primo dei due personaggi prima citati: si
tratta di un padre che si reca a Taranto per far visita al solo sopravvissuto
dei suoi tre figli andati in guerra. Non c’è bisogno di profondere parole sullo
strazio della guerra: la realtà parla da sé. Dolore, disperazione,
annientamento si leggono sulla sua persona.
La donna, in
quello stesso camion, è, invece, un misto di dignità, rassegnazione e forza
d’animo: lei va a trovare a Statte l’unico
nipote rimastole, il solo scampato dell’intera famiglia. Al silenzio dell’uomo anziano fa da contraltare il
bisogno di parlare, di raccontare, da parte di questa signora che trova la
forza di compensare l’amarezza delle perdite con la pienezza dei tanti momenti
di vita vissuta con chi non c’è più e con la memoria dell’amore dato e ricevuto:
i ricordi erano la luce del viso, il viso
la luce stessa dei ricordi. La compresenza del dolore e della vivezza speciale che contraddistinguono
la donna, è chiara sin dalla presentazione iniziale, nel contrasto cromatico
tra il nero del lutto e il merletto bianco che decora il collo e i polsi.
Resta
comunque, fermo un dato: l’ineffabilità del dolore e, in generale, dei
sentimenti. Si chiede, infatti Messina: è
mai riuscito un solo scrittore, anche il più bravo e osannato … a rendere appieno quello che si è vissuto e
provato ogni volta … è mai riuscito a renderne tutto il dolore e l’angoscia più
intimi, pur disponendo della lingua più completa, più ricca?
A questo
punto l’autore si affida ai suoi intensi versi (p. 109):
Il mio dolore è il mio dolore,
la mia angoscia è la mia
angoscia,
la mia tristezza è la mia
tristezza.
Così come la mia felicità e la
mia gioia
sono la mia felicità e la mia
gioia
e nel loro, nel mio profondo,
nessuno potrà mai penetrare:
neppure io che le ho vissute,
perché non sarà più quel tempo.
Un’altra
coppia di personaggi emblematici sono il Gobbo e l’Angelo (p. 214 e ss.): nel
loro incontro c’è davvero il senso profondo della salvezza possibile pur
nell’inferno della vita.
Messina
sembra aver fatto proprio il messaggio di I. Calvino, un altro autore che
aleggia spesso, come inferenza letteraria nobile nell’intero libro: l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni,
che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo
riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di
non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento
continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è
inferno, e farlo durare, e dargli spazio[3].
Dare spazio a
ciò che non è inferno, riconoscere il
senso umano della vita: è questo il messaggio che trapela dall’incontro
casuale, ma intenso, tra due insoliti personaggi, diversi, ma complementari.
Giovanni, il
Gobbo, è arrabbiato con la vita e con
la levatrice che lo aveva estratto malamente del paradiso materno per
precipitarlo nell’inferno di una vita sgraziata e disgraziata; Maria
Teresa, l’Angelo, è una bambina triste per la sofferenza di dover vivere a
Bari, città bellissima, ma lontana dal padre, che lavora come responsabile
tecnico delle miniere della ditta Montecatini, ai piedi di San Giovanni
Rotondo. Nel loro incontro avviene un “miracolo”, nello scambio di poche
battute - pronunciate da Maria Teresa con la semplicità che solo i bambini
possiedono - è contenuta la chiave che
aveva cambiato una vita, prodigiosamente. Le parole incoraggianti di una
bambina fanno uscire il Gobbo dall’inferno del suo isolamento, forse più
pesante della malattia stessa, e la rinnovata apertura agli altri trasformano
Giovanni, il “poveretto”, in una specie di “mito”, un “portafortuna” per quanti
vogliano toccare la sua gobba, illudendosi di trovare la felicità e nel
contempo donandola a Giovanni, parlando un po’ con lui e liberandolo dalla sua
solitudine.
È, certo,
discutibile il fatto che la gente cerchi il Gobbo non per il sincero desiderio
di stare con lui, ma solo per il bisogno di trovare un rimedio – peraltro illusorio
- alle proprie sventure.
Tuttavia,
Messina ci fa riflettere sul risvolto positivo della vicenda: nell’incontro si
accorciano le distanze e ci si riscopre affratellati da un medesimo destino di
dolore. Chi cerca il Gobbo è, in fondo, infelice come lui e solo nella
reciprocità si può scorgere il volto umano dell’esistenza.
Intensamente
emblematico è, poi, il personaggio di Mamma Olga.
Dichiaratamente
ispirato al personaggio brechtiano di Madre Coraggio – come spiega nelle note l’autore
stesso – Olga è una figura che domina sull’intera narrazione, soprattutto per la
sua eredità intellettuale e morale.
Il profondo
affetto che lega il figlio alla madre non ha bisogno di descrizioni, emerge
invece, esplicitato a chiare lettere, l’insegnamento che per tutta la vita
accompagnerà Giuseppe Messina: aveva
inculcato, in tutti, il senso della libertà, libertà del cuore, delle idee,
della vita stessa, alla quale nessuno deve rinunciare, fino a combattere per la
sua difesa e per tutti coloro che ne vengono privati (p.27). E non si
tratta di parole dettate solo dalla contingenza storica – sono questi gli anni
del fascismo liberticida e della lotta resistenziale dei partigiani – ma sono
convincimenti profondi e radicati nella coscienza di una donna che è simbolo di
coraggio, forza interiore, conoscenza del dolore e capacità di reagire all’abbattimento.
Messina rappresenta
Olga in tre precise azioni: narrare storie, impastare il pane, cantare.
Nei giorni del
terremoto del 1948, la mamma, in quel luglio di preoccupazione e paura, aveva preso a
riunire nella grande tenda, al centro dell’accampamento per terremotati,
bambini e ragazzini per raccontare storie. Un po’ prima di Pasolini, ma in
linea con la tradizione già vecchia di millenni. La vocazione e il diploma di
maestra la spingevano, con assoluta naturalezza, a trasmettere il suo sapere ai
più piccoli. (p.26).
Dopo un periodo
trascorso come rifugiati per scampare ai rischi della guerra - prima a Miramare
di Rimini, poi nel convento delle suore Carmelitane a San Pancrazio di Russi e dopo
ancora, presso la cascina della generosa signora Romanina - finalmente nel 1945 Olga e i suoi figli ritornano a
Foggia, in casa del nonno Edoardo: il
rione in cui abitavamo, intorno a via Sapienza, era stato quasi interamente
risparmiato dai micidiali bombardamenti che avevano provocato circa
ventitremila morti, in una città che contava poco meno di quarantamila abitanti.
(p.66)
In questo
strazio fatto di macerie e povertà, per gente ormai disabituata ai piccoli
piaceri della vita, il meraviglioso e indimenticato profumo del pane bianco che
Olga prepara per i suoi familiari e inforna, si diffonde rapidamente.
Per una città
che ormai da anni mangia pane nero e duro, impastato con crusca e terra, quello
lavorato con la farina bianca che Olga aveva portato dalla Romagna, è una delizia
sopraffina. Tutto il quartiere si rianima,
svegliandosi da un lungo stato di prostrazione: Via Sapienza si popolò fino all’inverosimile e le due pagnottelle
non poterono bastare certo a soddisfare
tutti. La fata buona – come ormai Olga è definita – continua a impastare per
tante famiglie festanti e riconoscenti; la farina si esaurisce in pochissimi
giorni e altra ne viene chiesta alla signora Romanina. Il pane bianco riportò la
fiducia nella vita e fu come se avesse suonato un campanello, quello della
voglia di ricominciare e di recuperare tutte le cose buone che la guerra aveva
cancellato.
Gli ostacoli non erano pochi e le difficoltà ancora più numerose, ma non
apparivano più insormontabili: era sparita la rassegnazione. (p.78)
Mamma Olga ama il canto, l’opera lirica –
amore che le è stato trasmesso dal padre, amico di Umberto Giordano - ma canticchia anche successi molto popolari
come Solo me ne vo per la città e - a voce sussurrata – canzoni passionali come
Malafemmina.
Il suo, però,
non è solo un canto libero, è un modo per fingere tranquillità con i figli, una
strategia per dissimulare le
preoccupazioni e le ansie che la assillavano: allevare da sola i figli,
patire la lontananza del marito prigioniero e sforzarsi di non pensare al suo
dolore per non moltiplicare l’angoscia di un presente difficile, sono condizioni che mettono a dura prova una
donna.
Raccontare,
impastare, cantare: queste tre sfumature
riconducono a un tratto specifico di Mamma Olga e fanno di lei l’emblema di
ogni madre.
Olga è la vita
che si perpetua nella parola, è la forza che nutre, è il volto che sorride e
incoraggia anche se tutto intorno sembra crollare.
Lo stesso valore
emblematico si legge nella figura di Enrico, padre amorevole, forte e dignitoso
anche nell’umiliazione della prigionia: un
leone orgoglioso e ferito, che reclamava la sua libertà. (p. 108)
Una delle
più nobili strategie narrative riconoscibili in Papaveri rossi, è, infine,
la leggerezza. A dire il vero, si
tratta di un valore che va ben oltre l’impeccabilità dell’arte di raccontare
storie. L’autore la definisce il segreto
stesso della vita.
Personalizzando
in modo originale il titolo di un famoso romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere,
Messina parla dell’incredibile leggerezza
dell’essere. Si tratta di una sapiente inversione di senso rispetto al
nichilismo di Kundera: quest’ultimo, richiamandosi alla definitiva caduta di
ogni orizzonte di senso - tipica della cultura postmoderna - definisce “insostenibile” il peso del non
senso dell’esistenza, schiacciata dall’assurdo che lascia l’uomo come un
relitto nel mondo, spaesato, senza radici e senza mete. Messina, invece, pare
più vicino alla posizione di Italo Calvino che polemizzò proprio contro il nichilismo
di Kundera, parafrasando il titolo del suo romanzo con le seguenti parole: “Ineluttabile
pesantezza del vivere”.
Scrive
Calvino nelle sue Lezioni americane: nei
momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso
che dovrei volare. Non sto parlando di fughe verso il sogno o nell’irrazionale.
Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con
un’altra ottica, un’altra logica[4].
Messina
adotta proprio questo punto di vista: la leggerezza come reazione al peso di
vivere, il volo, come sfida agli ingabbianti ancoraggi e come elevazione verso
un altrove fatto di desiderio, di ricerca: la
poiana vola maestosa e alta (…) a intervalli regolari (…) vola solitaria nel
dominio del cielo (…). “Mi raccomando! Tieni i piedi ben saldi per terra!”.
Quanto avrei preferito sentirmi dire: “Vola libero!” e quanto avrei voluto
farlo, accompagnato dal battito delle ali, dal loro fruscio nel vento. (p.210)
La
leggerezza è, dunque, la forza del sogno che resiste nonostante le dure prove
che la realtà ci riserva.
E il filtro
della leggerezza si trasfonde nell’idea stessa di letteratura, la sola dimensione
possibile dove il senso si svela e dove le storture dell’esistenza acquistano
significato e si collocano nelle giuste prospettive, costruendo un quadro in
cui tutto ha un suo preciso valore.
Leggerezza significa capacità di vedere oltre il dolore, di affiancare,
cioè, alla consapevolezza del male di vivere - per usare la nota
espressione montaliana - l’insopprimibile spinta propulsiva dello
slancio vitale: la vita tiene sempre intrecciati i suoi due volti inscindibili,
ἔρως e θάνατος, anzi è proprio la certezza della morte che fa
amare la vita e quanto più si è vicini a percepire la fine, tanto più si
avverte l’attaccamento alla vita.
Messina dà chiara dimostrazione di questo assunto nel titolo stesso del suo romanzo. Durante il viaggio verso Taranto per rivedere il padre prigioniero, il piccolo Giuseppe è attratto dalla sconfinata distesa di papaveri rossi nei campi (p.94).
Il papavero è un fiore rosso come
il sangue dei soldati uccisi dalla guerra, ma, nello stesso tempo, vellutato,
come il raso che la mamma ricamava, e morbido, come il suo abbraccio affettuoso.
Non è qui importante l’elaborato accostamento
di sensazioni tattili e particolari cromatici che creano un groviglio di
sensazioni abbinate a ricordi e sentimenti. Il dato più significativo sta nel
carattere complementare tra il dramma della morte e il richiamo della vita, tra
ἔρως e θάνατος, tra pesantezza e leggerezza.
La leggerezza diventa, dunque, l’attitudine a
cogliere il lato bello dell’esistenza anche quando sembra prevalere il peso
della vita. Il rischio di ogni giorno vissuto è, infatti, che – come un vento
che gira
e rigira e sopra i suoi giri poi ritorna,
come è scritto nell’Ecclesiaste – il destino travolga la spensieratezza della
gioventù e la soffochi tra responsabilità, impegni, fallimenti e disillusioni.
E, invece, bisogna “catturare” la leggerezza e fare di le un modus vivendi.
Scrive Messina: basta ascoltarla,
viverla.
È la leggerezza che consente a all’autore di
cogliere durante il funerale del professor Santollino, l’allegra gaiezza di un
corteo matrimoniale o di alleviare la pena del viaggio triste verso il campo di
concentramento di Taranto con una sosta al mare, a Margherita di Savoia. Tutti
i passeggeri del camion diretto verso la prigione sono improvvisamente catturati
dalla distesa azzurra dell’acqua: la
spiaggia si popolò di voglia di leggerezza e di spensieratezza, di desiderio di
linfa vitale indispensabile per la sopravvivenza di ciascuno.
Ecco, la leggerezza è la forza che aiuta a
sopravvivere.
L’uomo l’ha persa, per la sua stupida indifferenza. Chiuso nel suo
microcosmo, ha disimparato a riconoscerla.
In Papaveri rossi un posto privilegiato è occupato dall’amore, che aggiunge una nota passionale alle pagine di Messina. Nel libro sono rappresentate tutte le sfumature di questo sentimento.
C’è l’infatuazione infantile di Giuseppe per
Laura, sullo sfondo dell’imponente Castello Normanno di Ariano Irpino, dove la
fantasia fa rivivere le storie degli amori più antichi e impossibili, quelli di
Lancillotto e Ginevra, di Orlando e Angelica.
È un amore fatto di guance arrossate solo per uno sguardo o per un contatto lieve … con il
cuore che scoppiava.
Diverso è l’amore per Franca, a San Menaio, fatto
di appostamenti e goffi tentativi volti a eludere la sorveglianza dei genitori
di lei.
E, poi, ci sono i racconti di Vituccio che
sulla spiaggia vende frutta fresca per combattere il caldo estivo. Si tratta di
storie d’amore intenso e sofferto, come quello tra Eleonora e Totorre, che
vivono un sentimento forte, pronto a sfidare le prepotenti pretese del
signorotto garganico Duduccio, intenzionato a esercitare sulla ragazza lo ius primae noctis. E nel ricordare
questa terribile usanza Messina porta subito il lettore a riflettere sulle
innumerevoli umiliazioni subite dalle donne nella storia.
Uno spazio particolare è, inoltre, riservato
a Sofia, ragazza bella e seducente, dalle morbide forme. È lei la donna che
porta via con sé verità e segreti mia pienamente svelati.
E, infine, un valore particolare assume in questo romanzo la tenerezza.
In una conferenza tenuta nel 1988,
Raymond Carver[5], grande narratore
dell’Oregon, ricorda una frase di Santa Teresa, tratta dal cap. XXXV della sua
autobiografia spirituale: le parole
conducono ai fatti (…) preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla
tenerezza.
Si tratta di una frase interessante perché
presenta due parole inusuali per il nostro tempo, dominato dal materialismo e
dalla veemenza: “anima” e “tenerezza”.
Nel capitolo dedicato a alla morte del padre,
Messina non nomina mai la parola tenerezza in modo esplicito, ma ce ne fa
sentire la presenza nei particolari e risveglia una voce nell’anima. In
un’epoca che ha visto fallire modelli autoritari e padri/Narcisi[6], Messina ci fa scoprire il
vero senso della paternità in un’espressione: la mano nella mano.
Un padre, infatti, non è un supereroe che ha
sempre le soluzioni pronte, è un uomo che ti accompagna nel viaggio della vita,
con tenerezza, fra gioie e dolori, cadute e risalite.
Messina lascia un tocco leggero su questo
messaggio: ce lo fa percepire, ma non lo spiega. Pochi tratti sono sufficienti:
si sa, la leggerezza è anche un modo di narrare.
Uno scrittore non ha bisogno di troppe pagine
per dire quello che ha da dire. Trasforma le parole in azioni, con un
linguaggio chiaro e preciso. Le parole infondono vita alle storie raccontate,
se usate bene toccano l’anima.
Una fondamentale
accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura[7].
E Papaveri rossi lo realizza
pienamente.
Teresa D'Errico
[1] - Orazio, Satire, I, 1, 69-70
[2] - W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013
[3] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi,1972
[4] - I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988
[5] - R. Carver, Il
mestiere di scrivere, Einaudi, 2915.
[6] - Questo tema è ben sviluppato
in Massimo Recalcati, Il complesso di
Telemaco, Feltrinelli, 2013.
[7]
- Ezra Pound, ABC of reading,
1934, ristampato da Garzanti, 2012.
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