giovedì 21 settembre 2017

PAPAVERI ROSSI

Giuseppe Messina, Papaveri rossi. Il soffio caldo del favonio, Kimerik, 2016



A  meno che non si tratti dell’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, l’autobiografia è un genere che presenta ardue difficoltà per chi voglia affrontarlo. Casanova riusciva ad attrarre il lettore con i particolari pruriginosi di una mitografia di sé costruita nei termini esemplari di un riuscito e coerente progetto di vita libertino, edonistico e consumato all’insegna del desiderio. Ma un buon padre di famiglia a quali espedienti narrativi deve ricorrere per incuriosire i suoi lettori?

La principale strategia che Messina usa è l’affabulazione.
L’autore prende le mosse da un paradigma letterario nobile, Pasolini, e, precisamente, decide di riferirsi ad un suo testo dal titolo emblematico, appunto, Affabulazione. Non è qui importante il contenuto, dell’opera pasoliniana certamente di ispirazione autobiografica (al centro del suo dramma Pasolini pone il controverso rapporto con la figura del padre), quanto, piuttosto il senso stesso dell’affabulazione in sé.
In excipit della tragedia di Pasolini, in un dialogo tra il personaggio del Padre e un’enigmatica presenza - che forse c’è o probabilmente è solo frutto dell’immaginazione del personaggio – il Padre rivolgendosi al suo interlocutore e riferendosi alla complicata storia con il figlio, dice: come tu hai ben capito, questa non è la storia di un solo padre.
Ebbene,  Papaveri rossi non è solo la storia di Giuseppe Messina.
Un’opera d’arte si riconosce dalla forza universalizzante che emana.
Uno dei rischi maggiori di un libro autobiografico consiste nel fatto che esso riguarda l’esperienza personale del narratore/autore e non è detto che questa riesca a suscitare l’interesse dei lettori, oggi, in particolare, sollecitati da una serie di storie e fatti cui il web dà immediata e ampia diffusione.
Occorre, dunque, riflettere sul significato dell’affabulazione: si tratta della capacità di rendere universale ciò che si narra; “affabulare” significa fare in modo che il lettore si senta chiamato in causa, e percepisca che quanto è scritto lo riguarda: mutato nomine de te fabula  narratur, diceva Orazio[1].
Ancora in Affabulazione, il personaggio pasoliniano del Padre si chiede: che cos’è un’epoca? Messina risponde chiaramente a questo interrogativo: un’epoca è un tempo destinato a finire, un’epoca è una stagione che passa. E per questo bisogna narrarla, immortalarla, perché l’uomo non dimentichi, scrive Giuseppe Messina. Questo è l’alto mandato della letteratura: uno scritto, un romanzo, un libro è un monumentum, un’opera, cioè, destinata a sfidare le stagioni, il tempo che passa.
Un monumento MANET, resta per sempre.
Un monumento MONET, ammonisce, ti mostra un cammino, ti dice che cosa stai perdendo e che cosa dovresti conservare, per rimanere te stesso, anche se il mondo intorno a te cambia freneticamente.
Un monumento perpetua il ricordo del passato, lo rende meno lontano. Per i Greci, le Muse, le dee dell’arte e della poesia, erano figlie di Mnemosyne, la Memoria divinizzata, e nella radice del termine monumentum c’è il verbo memini “io ricordo”.
E l’atto del ricordare è un lento e accurato riesame della propria vita; non vuol dire abbandonarsi a semplici rievocazioni nostalgiche, a vaghe memorie, ma implica una selezione attenta di ciò che ha contato davvero ed è rimasto nel cuore, come suggerisce l’etimologia della parola “ricordo”,  (da  “cor, cordis”, cuore).
 A questo proposito, annota Messina: fra qualche anno toccherà ai nostri figli e ai nostri nipoti rammentare gli anni migliori con i propri ricordi: dei nostri resteranno quelli che avremo saputo trasmettergli. (p. 138)
In Papaveri rossi appare chiaro che la capacità di affabulare acquista anche un carattere sociale e civile. Narrare, si è detto, significa custodire la memoria individuale e collettiva: si tratta di un messaggio profondo e incisivo,  di un’impresa davvero coraggiosa, in un’epoca, come la nostra, fatta, invece, di facili rottamazioni del passato.
Sin dalla dedica iniziale Messina istituisce un rapporto privilegiato con il lettore e, immaginandolo, cerca le parole più precise per rendere concreto e plastico il racconto di una vita che si snoda attraverso vicende, incontri ed emozioni intense.
Scrivere è come parlare: presuppone che qualcun altro legga o ascolti. È innegabile: chi scrive non lo fa mai solo per se stesso, vuole, piuttosto lasciare un segno che resti al di là del breve spazio che gli è concesso nell’esistenza. Possidio, alla fine della sua biografia di S. Agostino riporta un interessante epigramma, che spiega bene l’aspirazione di ogni scrittore a proiettarsi oltre i limiti cronologici in cui si trova a vivere: Vuoi sapere, viandante, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, ed ecco io parlo: la tua voce è la mia.
Papaveri rossi  va, quindi, letto anche in questa prospettiva: si tratta di un libro che vuole immortalare un’epoca, lasciare un messaggio e consentire al suo autore di sfidare il tempo.
Messina precisa, però, che affabulare vuol dire anche saper affascinare, procedere, cioè, non per ricostruzioni memorialistiche o documentaristiche, ma escogitare modi per sedurre il lettore, nel senso etimologico di se-ducere, portarlo cioè, verso un altrove che lo catturi e lo allontani dalla una routine abitudinaria: non è questo il potere della letteratura?
Quindi, affabulare equivale a universalizzare la propria storia e a sedurre con la parola.



Una seconda strategia narrativa che rende Papaveri rossi un’autobiografia interessante - nel senso, ancora una volta etimologico del termine, che fa riferimento a un testo in cui il lettore abbia l’impressione di inter- esse, di starci in mezzo, al punto da sentirsi coinvolto nei fatti narrati e nelle emozioni evocate – è il realismo come forma di innamoramento.
Spesso, ingenuamente, - spiega Walter Siti nel suo saggio Il realismo è l’impossibile[2] - si crede che l’approccio realista in letteratura sia il “copia e incolla” di un frammento di realtà: quanto più un libro è verosimile, tanto più è ritenuto realista.
Invece il realismo vero non è affatto mimesi del reale, non si limita a documentare; lo scrittore realista non è certo un copista, deve essere capace di disvelare un mondo che non  è ovvio; deve essere in grado di sfidare il mondo; deve saper estrarre da una scena di vita, da un dettaglio, dalle cose, dai fatti che accadono, il volto di un’epoca, il senso della vita, sottraendo quei dettagli dal flusso indistinto della consuetudine e rendendoli esemplari.
Lo scrittore realista deve amare a tal punto i particolari che cattura dalla realtà da renderli il filtro prospettico di una visione del mondo. E quando si parla di particolari si fa riferimento ai particolari belli e ai dettagli brutti: ogni cosa – vicenda, evento, fatto, oggetto, incontro, paesaggio, luogo - va amata profondamente per quello che è, esattamente come di un uomo o di una donna si amano i tratti seducenti e le imperfezioni, perché ogni cosa concorre a rendere unica la persona che ci appassiona.
E per questo, con fedeltà al reale Messina descrive Foggia distrutta e ridotta in macerie dopo la guerra, documenta la piaga del caporalato, ricorda le battaglie di Giuseppe di Vittorio, il gigante del sindacalismo italiano, ma con lo stesso amore per il vero sa cogliere la luce autentica della vita nella processione dei terrazzani che tornano, sui loro traìni, dalla raccolta dei fichi d’india. Si tratta di una descrizione realistica e lirica al tempo stesso: sotto ogni carro dondolava un lume a petrolio dalla luce fioca … quella cinquantina di luci, come grosse lucciole, creava una suggestione unica nel dondolante cammino verso “I tre archi” della Porta, su una strada appena rischiarata dai pochi lampioni a gas. (p. 77). Non è casuale l’insistenza, da parte dell’autore, sul verbo “dondolare” che fa riferimento plasticamente all’instabilità degli antichi e rudimentali mezzi di locomozione, carri di legno a due ruote, ma – metaforicamente – suggerisce anche la precarietà di un rito quasi sacro, tuttavia destinato a perdersi, come tutte le cose belle, al tramontare di un’epoca.

 Messina, inoltre, fa leva  su un altro fondamentale procedimento, la personificazione.
Qualunque tema o argomento venga trattato, esso è incorporato, incarnato, personificato: prende corpo, cioè, in personaggi emblematici che fissano in modo indelebile nel lettore il senso della riflessione, senza che l’autore faccia ricorso a parole di commento. Ogni aggiunta esplicativa rischierebbe, infatti, di rovinare la densità e il vigore di creature che nascono dal contesto narrato e nel contempo lo travalicano per stagliarsi come espressione di valori. Si pensi, per esempio, alla famosa Madre di Cecilia di manzoniana memoria, sintesi perfetta di straziante dolore, dignità nella sopportazione, rassegnazione di fronte all’ineluttabilità degli eventi, incrollabile fede in Dio.

In Papaveri rossi, l’uomo anziano  e la signora vestita di nero(p. 96) sono due anonimi personaggi che, però, nel racconto assurgono a emblemi di una condizione esistenziale. Il piccolo Giuseppe si sta recando con sua madre verso il campo  di concentramento di Statte, presso Taranto, dove il padre è prigioniero degli Inglesi. Il modo di starsene silenzioso in un angolo del camion, a ridosso della cabina di guida, con lo sguardo perso nel vuoto traduce icasticamente la pena sofferta dal primo dei due personaggi prima citati: si tratta di un padre che si reca a Taranto per far visita al solo sopravvissuto dei suoi tre figli andati in guerra. Non c’è bisogno di profondere parole sullo strazio della guerra: la realtà parla da sé. Dolore, disperazione, annientamento si leggono sulla sua persona.
La donna, in quello stesso camion, è, invece, un misto di dignità, rassegnazione e forza d’animo: lei va a trovare a Statte l’unico nipote rimastole, il solo scampato dell’intera famiglia. Al silenzio dell’uomo anziano fa da contraltare il bisogno di parlare, di raccontare, da parte di questa signora che trova la forza di compensare l’amarezza delle perdite con la pienezza dei tanti momenti di vita vissuta con chi non c’è più e con la memoria dell’amore dato e ricevuto: i ricordi erano la luce del viso, il viso la luce stessa dei ricordi. La compresenza del dolore e della vivezza speciale che contraddistinguono la donna, è chiara sin dalla presentazione iniziale, nel contrasto cromatico tra il nero del lutto e il merletto bianco che decora il collo e i polsi.
Resta comunque, fermo un dato: l’ineffabilità del dolore e, in generale, dei sentimenti. Si chiede, infatti Messina: è mai riuscito un solo scrittore, anche il più bravo e osannato …  a rendere appieno quello che si è vissuto e provato ogni volta … è mai riuscito a renderne tutto il dolore e l’angoscia più intimi, pur disponendo della lingua più completa, più ricca?
A questo punto l’autore si affida ai suoi intensi versi (p. 109):

Il mio dolore è il mio dolore,
la mia angoscia è la mia angoscia,
la mia tristezza è la mia tristezza.

Così come la mia felicità e la mia gioia
sono la mia felicità e la mia gioia
e nel loro, nel mio profondo,
nessuno potrà mai penetrare:
neppure io che le ho vissute,
perché non sarà più quel tempo.

Un’altra coppia di personaggi emblematici sono il Gobbo e l’Angelo (p. 214 e ss.): nel loro incontro c’è davvero il senso profondo della salvezza possibile pur nell’inferno della vita.
Messina sembra aver fatto proprio il messaggio di I. Calvino, un altro autore che aleggia spesso, come inferenza letteraria nobile nell’intero libro: l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio[3].
Dare spazio a ciò che non  è inferno, riconoscere il senso umano della vita: è questo il messaggio che trapela dall’incontro casuale, ma intenso, tra due insoliti personaggi, diversi, ma complementari.
Giovanni, il Gobbo, è arrabbiato con la vita e con la levatrice che lo aveva estratto malamente del paradiso materno per precipitarlo nell’inferno di una vita sgraziata e disgraziata; Maria Teresa, l’Angelo, è una bambina triste per la sofferenza di dover vivere a Bari, città bellissima, ma lontana dal padre, che lavora come responsabile tecnico delle miniere della ditta Montecatini, ai piedi di San Giovanni Rotondo. Nel loro incontro avviene un “miracolo”, nello scambio di poche battute - pronunciate da Maria Teresa con la semplicità che solo i bambini possiedono - è contenuta la chiave che aveva cambiato una vita, prodigiosamente. Le parole incoraggianti di una bambina fanno uscire il Gobbo dall’inferno del suo isolamento, forse più pesante della malattia stessa, e la rinnovata apertura agli altri trasformano Giovanni, il “poveretto”, in una specie di “mito”, un “portafortuna” per quanti vogliano toccare la sua gobba, illudendosi di trovare la felicità e nel contempo donandola a Giovanni, parlando un po’ con lui e liberandolo dalla sua solitudine.
È, certo, discutibile il fatto che la gente cerchi il Gobbo non per il sincero desiderio di stare con lui, ma solo per il bisogno di trovare un rimedio – peraltro illusorio -  alle proprie sventure.
Tuttavia, Messina ci fa riflettere sul risvolto positivo della vicenda: nell’incontro si accorciano le distanze e ci si riscopre affratellati da un medesimo destino di dolore. Chi cerca il Gobbo è, in fondo, infelice come lui e solo nella reciprocità si può scorgere il volto umano dell’esistenza.

Intensamente emblematico è, poi, il personaggio di Mamma Olga.
Dichiaratamente ispirato al personaggio brechtiano di Madre Coraggio – come spiega nelle note l’autore stesso – Olga è una figura che domina sull’intera narrazione, soprattutto per la sua eredità intellettuale e morale.
Il profondo affetto che lega il figlio alla madre non ha bisogno di descrizioni, emerge invece, esplicitato a chiare lettere, l’insegnamento che per tutta la vita accompagnerà Giuseppe Messina: aveva inculcato, in tutti, il senso della libertà, libertà del cuore, delle idee, della vita stessa, alla quale nessuno deve rinunciare, fino a combattere per la sua difesa e per tutti coloro che ne vengono privati (p.27). E non si tratta di parole dettate solo dalla contingenza storica – sono questi gli anni del fascismo liberticida e della lotta resistenziale dei partigiani – ma sono convincimenti profondi e radicati nella coscienza di una donna che è simbolo di coraggio, forza interiore, conoscenza del dolore e capacità di reagire all’abbattimento.
Messina rappresenta Olga in tre precise azioni: narrare storie, impastare il pane, cantare.
Nei giorni del terremoto del 1948,  la mamma, in quel luglio di preoccupazione e paura, aveva preso a riunire nella grande tenda, al centro dell’accampamento per terremotati, bambini e ragazzini per raccontare storie. Un po’ prima di Pasolini, ma in linea con la tradizione già vecchia di millenni. La vocazione e il diploma di maestra la spingevano, con assoluta naturalezza, a trasmettere il suo sapere ai più piccoli. (p.26).
Dopo un periodo trascorso come rifugiati per scampare ai rischi della guerra - prima a Miramare di Rimini, poi nel convento delle suore Carmelitane a San Pancrazio di Russi e dopo ancora, presso la cascina della generosa signora Romanina - finalmente  nel 1945 Olga e i suoi figli ritornano a Foggia, in casa del nonno Edoardo: il rione in cui abitavamo, intorno a via Sapienza, era stato quasi interamente risparmiato dai micidiali bombardamenti che avevano provocato circa ventitremila morti, in una città che contava poco meno di quarantamila abitanti. (p.66)
In questo strazio fatto di macerie e povertà, per gente ormai disabituata ai piccoli piaceri della vita, il meraviglioso e indimenticato profumo del pane bianco che Olga prepara per i suoi familiari e inforna, si diffonde rapidamente.
Per una città che ormai da anni mangia pane nero e duro, impastato con crusca e terra, quello lavorato con la farina bianca che Olga aveva portato dalla Romagna, è una delizia sopraffina.  Tutto il quartiere si rianima, svegliandosi da un lungo stato di prostrazione: Via Sapienza si popolò fino all’inverosimile e le due pagnottelle non  poterono bastare certo a soddisfare tutti.  La fata buona – come ormai Olga è definita – continua a impastare per tante famiglie festanti e riconoscenti; la farina si esaurisce in pochissimi giorni e altra ne viene chiesta alla signora Romanina.  Il pane bianco riportò la fiducia nella vita e fu come se avesse suonato un campanello, quello della voglia di ricominciare e di recuperare tutte le cose buone che la guerra aveva cancellato.
Gli ostacoli non erano pochi e le difficoltà ancora più numerose, ma non apparivano più insormontabili: era sparita la rassegnazione. (p.78)
 Mamma Olga ama il canto, l’opera lirica – amore che le è stato trasmesso dal padre, amico di Umberto Giordano  - ma canticchia anche successi molto popolari come Solo me ne vo per la città e  - a voce sussurrata – canzoni passionali come Malafemmina.
Il suo, però, non è solo un canto libero, è un modo per fingere tranquillità con i figli, una strategia per dissimulare le preoccupazioni e le ansie che la assillavano: allevare da sola i figli, patire la lontananza del marito prigioniero e sforzarsi di non pensare al suo dolore per non moltiplicare l’angoscia di un presente difficile,  sono condizioni che mettono a dura prova una donna.
Raccontare, impastare, cantare:  queste tre sfumature riconducono a un tratto specifico di Mamma Olga e fanno di lei l’emblema di ogni madre.
Olga è la vita che si perpetua nella parola, è la forza che nutre, è il volto che sorride e incoraggia anche se tutto intorno sembra crollare.

Lo stesso valore emblematico si legge nella figura di Enrico, padre amorevole, forte e dignitoso anche nell’umiliazione della prigionia: un leone orgoglioso e ferito, che reclamava la sua libertà. (p. 108)

 Una delle più nobili strategie narrative riconoscibili in Papaveri rossi,  è, infine, la leggerezza. A dire il vero, si tratta di un valore che va ben oltre l’impeccabilità dell’arte di raccontare storie. L’autore la definisce il segreto stesso della vita.
Personalizzando in modo originale il titolo di un famoso romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Messina parla dell’incredibile leggerezza dell’essere. Si tratta di una sapiente inversione di senso rispetto al nichilismo di Kundera: quest’ultimo, richiamandosi alla definitiva caduta di ogni orizzonte di senso - tipica della cultura postmoderna -  definisce “insostenibile” il peso del non senso dell’esistenza, schiacciata dall’assurdo che lascia l’uomo come un relitto nel mondo, spaesato, senza radici e senza mete. Messina, invece, pare più vicino alla posizione di Italo Calvino che polemizzò proprio contro il nichilismo di Kundera, parafrasando il titolo del suo romanzo  con le seguenti parole: “Ineluttabile pesantezza del vivere”.
Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare. Non sto parlando di fughe verso il sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica[4].
Messina adotta proprio questo punto di vista: la leggerezza come reazione al peso di vivere, il volo, come sfida agli ingabbianti ancoraggi e come elevazione verso un altrove fatto di desiderio, di ricerca: la poiana vola maestosa e alta (…) a intervalli regolari (…) vola solitaria nel dominio del cielo (…). “Mi raccomando! Tieni i piedi ben saldi per terra!”. Quanto avrei preferito sentirmi dire: “Vola libero!” e quanto avrei voluto farlo, accompagnato dal battito delle ali, dal loro fruscio nel vento. (p.210)
La leggerezza è, dunque, la forza del sogno che resiste nonostante le dure prove che la realtà ci riserva.
E il filtro della leggerezza si trasfonde nell’idea stessa di letteratura, la sola dimensione possibile dove il senso si svela e dove le storture dell’esistenza acquistano significato e si collocano nelle giuste prospettive, costruendo un quadro in cui tutto ha un suo preciso valore.

Leggerezza significa capacità di vedere oltre il dolore, di affiancare, cioè, alla consapevolezza  del male di vivere - per usare la nota espressione montaliana -  l’insopprimibile spinta propulsiva dello slancio vitale: la vita tiene sempre intrecciati i suoi due volti inscindibili, ἔρως e θάνατος, anzi è proprio la certezza della morte che fa amare la vita e quanto più si è vicini a percepire la fine, tanto più si avverte l’attaccamento alla vita.

Messina dà chiara dimostrazione di questo assunto nel titolo stesso del suo romanzo. Durante il viaggio verso Taranto per rivedere il padre prigioniero, il piccolo Giuseppe è attratto dalla sconfinata distesa di papaveri rossi nei campi (p.94).


Il papavero è un fiore rosso come il sangue dei soldati uccisi dalla guerra, ma, nello stesso tempo, vellutato, come il raso che la mamma ricamava, e morbido, come il suo abbraccio affettuoso.

Non è qui importante l’elaborato accostamento di sensazioni tattili e particolari cromatici che creano un groviglio di sensazioni abbinate a ricordi e sentimenti. Il dato più significativo sta nel carattere complementare tra il dramma della morte e il richiamo della vita, tra ἔρως e θάνατος, tra pesantezza e leggerezza.

La leggerezza diventa, dunque, l’attitudine a cogliere il lato bello dell’esistenza anche quando sembra prevalere il peso della vita. Il rischio di ogni giorno vissuto è, infatti, che – come un vento che gira  e rigira e sopra i suoi giri poi ritorna, come è scritto nell’Ecclesiaste – il destino travolga la spensieratezza della gioventù e la soffochi tra responsabilità, impegni, fallimenti e disillusioni. E, invece, bisogna “catturare” la leggerezza e fare di le un modus vivendi. Scrive Messina: basta ascoltarla, viverla.

È la leggerezza che consente a all’autore di cogliere durante il funerale del professor Santollino, l’allegra gaiezza di un corteo matrimoniale o di alleviare la pena del viaggio triste verso il campo di concentramento di Taranto con una sosta al mare, a Margherita di Savoia. Tutti i passeggeri del camion diretto verso la prigione sono improvvisamente catturati dalla distesa azzurra dell’acqua: la spiaggia si popolò di voglia di leggerezza e di spensieratezza, di desiderio di linfa vitale indispensabile per la sopravvivenza di ciascuno.

Ecco, la leggerezza è la forza che aiuta a sopravvivere.

L’uomo l’ha persa, per la sua stupida indifferenza. Chiuso nel suo microcosmo, ha disimparato a riconoscerla.

 

In Papaveri rossi un posto privilegiato è occupato dall’amore, che aggiunge una nota passionale alle pagine di Messina. Nel libro sono rappresentate tutte le sfumature di questo sentimento.

C’è l’infatuazione infantile di Giuseppe per Laura, sullo sfondo dell’imponente Castello Normanno di Ariano Irpino, dove la fantasia fa rivivere le storie degli amori più antichi e impossibili, quelli di Lancillotto e Ginevra, di Orlando e Angelica.

È un amore fatto di guance arrossate solo per uno sguardo o per un contatto lieve … con il cuore che scoppiava.

Diverso è l’amore per Franca, a San Menaio, fatto di appostamenti e goffi tentativi volti a eludere la sorveglianza dei genitori di lei.

E, poi, ci sono i racconti di Vituccio che sulla spiaggia vende frutta fresca per combattere il caldo estivo. Si tratta di storie d’amore intenso e sofferto, come quello tra Eleonora e Totorre, che vivono un sentimento forte, pronto a sfidare le prepotenti pretese del signorotto garganico Duduccio, intenzionato a esercitare sulla ragazza lo ius primae noctis. E nel ricordare questa terribile usanza Messina porta subito il lettore a riflettere sulle innumerevoli umiliazioni subite dalle donne nella storia.

Uno spazio particolare è, inoltre, riservato a Sofia, ragazza bella e seducente, dalle morbide forme. È lei la donna che porta via con sé verità e segreti mia pienamente svelati.

 

E, infine, un valore particolare assume in questo romanzo la tenerezza.

In una conferenza tenuta nel 1988, Raymond  Carver[5], grande narratore dell’Oregon, ricorda una frase di Santa Teresa, tratta dal cap. XXXV della sua autobiografia spirituale: le parole conducono ai fatti (…) preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza.

Si tratta di una frase interessante perché presenta due parole inusuali per il nostro tempo, dominato dal materialismo e dalla veemenza: “anima” e “tenerezza”.

Nel capitolo dedicato a alla morte del padre, Messina non nomina mai la parola tenerezza in modo esplicito, ma ce ne fa sentire la presenza nei particolari e risveglia una voce nell’anima. In un’epoca che ha visto fallire modelli autoritari e padri/Narcisi[6], Messina ci fa scoprire il vero senso della paternità in un’espressione: la mano nella mano.

Un padre, infatti, non è un supereroe che ha sempre le soluzioni pronte, è un uomo che ti accompagna nel viaggio della vita, con tenerezza, fra gioie e dolori, cadute e risalite.

Messina lascia un tocco leggero su questo messaggio: ce lo fa percepire, ma non lo spiega. Pochi tratti sono sufficienti: si sa, la leggerezza è anche un modo di narrare.

Uno scrittore non ha bisogno di troppe pagine per dire quello che ha da dire. Trasforma le parole in azioni, con un linguaggio chiaro e preciso. Le parole infondono vita alle storie raccontate, se usate bene toccano l’anima.

 

Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura[7].

 

E Papaveri rossi lo realizza pienamente.


                                                                    
                                                                                     Teresa D'Errico







[1] - Orazio, Satire, I, 1, 69-70
[2] - W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013
[3] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi,1972
[4] - I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988
[5] -  R. Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi, 2915.
[6] - Questo tema è ben sviluppato in Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, 2013.
[7]  - Ezra Pound, ABC of reading, 1934, ristampato da Garzanti, 2012.

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