Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

venerdì 16 giugno 2023

ANGELO PIEMONTESE - IL LUNGO ADDIO ALL'IMPEGNO

 

Con Il lungo addio all’impegno. La narrativa italiana dalla ricostruzione alla caduta del Muro di Berlino, Angelo Piemontese prosegue l’analisi critica del panorama letterario italiano iniziata con la monografia su Pavese (Riflessi sull’anima) e maturata poi con il successivo saggio Realismo e Neorealismo. Correnti involontarie.


Il lungo addio all’impegno indica le tappe del cedimento progressivo di quella passione intellettuale, che aveva avuto nel Neorealismo la sua vetta apicale e che aveva trovato alcune delle sue traduzioni etiche più nobili nell’esplicito rifiuto di Pavese verso il modello di vita fascista e nella distinzione operata da Vittorini tra Uomini e no. Ne è derivato uno spazio vuoto che - nota chiaramente Piemontese - è rimasto incolmato o che si è tradotto nella produzione di una semplice letteratura di consumo.

Con il trionfo di un pensiero unico a sfondo mercatista, il dominio della società delle immagini e la conseguente trasformazione del ruolo dell’intellettuale da mediatore valoriale a mero intrattenitore, ad opera dei mass media, e infine con l’avvento del Postmoderno e il crollo di ogni ubi consistam, ben registrato da Eco nel suo bestseller Il nome della rosa, gli intellettuali sono stati costretti a prendere atto della marginalità della letteratura e del suo ruolo rispetto ad un mondo assuefatto a un “ilare nichilismo” (per usare una definizione cara a R. Luperini), ad un edonismo fatto di soddisfazioni istantanee, caratterizzato dalla pretesa dell’I want it all, I want it now, come cantavano i Queen. Sullo sfondo di questo mondo senza orizzonti di significato e segnato dall’evaporazione di senso, A. Piemontese registra la rinuncia del ceto intellettuale a tracciare possibili prospettive, a cercare risposte pur nella rassegnata consapevolezza della loro insufficienza e mancanza di definitività. Si affermano di conseguenza, tra le tendenze narrative, la graduale chiusura nell’analisi psicologica, nella dimensione privata, lo slittamento verso intrecci antistorici e antimanzoniani, l’approdo ad allegorie intrappolanti come quella del labirinto, scelta per esempio da I. Calvino come emblema di un mondo privo di senso, un ostacolo certo da affrontare virilmente, ma senza alcuna garanzia di una exit strategy.

Angelo Piemontese innesta la sua indagine critica su un quadro storico-culturale accuratamente delineato e individua alcuni fattori di destabilizzazione che costituiscono il background di cambiamenti epocali dal secondo dopoguerra in poi:

-       la crisi dell’agricoltura e il conseguente abbandono della terra e dei comuni del Mezzogiorno d’Italia;

-       la fine della famiglia tradizionale e l’avvento di nuove forme di vita in comune;

-       boom economico e radicale trasformazione di stili di vita, immaginario, ruoli sociali, dinamiche relazionali;

-       influsso massiccio dei media nella omologazione di gusti e comportamenti.

Il fallimento, poi, dell’azione bellica intrapresa dagli USA in Vietnam, con il carico enorme di perdite umane e materiali, con il lascito pesante di un’umanità impoverita sotto tutti i profili, è considerato da A. Piemontese un momento estremamente significativo, da cui prende avvio una nuova condizione culturale: vengono meno le residue persistenze di forme di impegno intellettuale e tendono a prevalere, invece, atteggiamenti di ripiegamento, sfiducia, smarrimento che segnano l’abbandono di ogni slancio propositivo, di qualsiasi spinta attivistica o anche solo volontaristica.

Ancora prima dell’abbassamento della letteratura a prodotto di mercato – effetto della forza pervasiva di concezioni iperliberistiche che hanno nel tempo colonizzato ogni campo d’azione umana – Piemontese fa coincidere, per esempio attraverso l’asse Tomasi di Lampedusa-Morante, la fine dell’impegno con la fine della Storia, cioè della storia manzonianamente intesa come un cammino progressivo verso un fine ultimo positivo e le cui tappe, pur dolorose, si configurano come momenti, sì, critici, ma pur sempre superabili in vista di uno scopo che sub specie aeternitatis si situa come bene superiore.

Già dopo l’emblematico naufragio verghiano della Provvidenza, Il gattopardo è chiaramente citato da Piemontese come espressione dello smarrimento delle coscienze e come riferimento di un ceto intellettuale che ha rinunciato alla sua carica civile, un ceto che del ripiegamento introspettivo ha fatto la sua cifra ormai distintiva e che nella rinuncia riconosce il marchio della propria impotenza rispetto ad un’azione trasformativa e incisiva sulla società. Del resto, lo dice chiaramente il Principe di Salina a Chevalley, parlando dei Siciliani che di fatto nel suo discorso assurgono a categoria esistenziale e smettono, cioè, di essere un’entità meramente geopolitica: “siamo stanchi e svuotati” esattamente come la generazione di intellettuali che Tomasi di Lampedusa rappresenta, un ceto, cioè, spossato dal peso di un “secolo breve” – espressione con cui E. Hobsbawm ha definito il Novecento – e schiacciato da quell’insostenibile leggerezza dell’essere alla quale Kundera ha addebitato l’irrimediabile perdita di tutti i parametri di riferimento nel magma indistinto di un fluido relativismo.

L’atroce carica distruttiva del Novecento sembra trovare una rappresentazione ancora più chiara nel romanzo La storia di Elsa Morante. Secondo la nota scrittrice la storia travolge tutti, è il regno dell’assurdo. All’incipit del romanzo, lo stupro di Ida Ramundo ad opera di un giovane soldato nazista, è l’allegoria di un’Italia – forse di un’intera Europa – stuprata, violata irrimediabilmente da eventi che hanno prodotto un vulnus non ancora cicatrizzato. E di fronte a questo “scandalo” – termine che Morante usa per definire la Storia come un apocalittico trauma che distrugge senza pietà – quale può essere il ruolo dell’intellettuale? Quali i binari della sua azione? Come può ancora configurarsi il suo impegno?

A simili quesiti c’è forse una possibile, transitoria, risposta: all’esistenza intesa montalianamente come “immoto andare” lungo invalicabili cortine e muraglie, Piemontese oppone con Calvino, il valore della sfida al labirinto dell’esistenza: del labirinto bisogna conoscere le mappe, occorre sapere che non esistono facili vie d’uscita, ma agli intellettuali, alla letteratura, si chiede di non cedere, di non accettare la resa incondizionata all’oggettività come dato immutabile. Gli intellettuali non possono abdicare al loro compito, cioè, dare forma all’informe, nota Piemontese, rendere chiare le cose, “saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno non è inferno, e farlo durare e dargli spazio”, scrive Calvino nelle Città invisibili.

L’autore del Lungo addio all’impegno attraverso la sua puntuale analisi della letteratura del Novecento traccia un quadro della nostra storia e scegliendo di chiudere il suo saggio con le opere di Calvino sembra condividerne la prospettiva aperta, l’interesse, cioè, per “l’uomo nei rapporti con ciò che lo circonda, nei suoi cambiamenti senza certezze assolute a cui appoggiarsi, ma legato alla sua responsabilità e libertà, anche a costo di sofferenze” (p. 443). Tuttavia proprio la parabola dell’attività letteraria di Calvino, nota il saggista, contiene un punto di svolta: “egli ha prima combattuto per un’Italia diversa, ha vissuto poi le vane speranze di un suo profondo rinnovamento, non arrendendosi di fronte al loro evidente naufragio e, cercando fuori dall’angusta realtà italiana, nuove risposte, non sempre soddisfacenti” (p. 464-465) ed è alla fine approdato – con i suoi ultimi testi narrativi, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Il castello dei destini incrociati -  a quelle che F. La Porta ha definito “sapienti macchine combinatorie, narrazioni elegantemente vuote” che dimostrano un solo dato: “non ci sono più storie da raccontare”, ci ricorda Piemontese (465).

Questa constatazione costituisce il presupposto dell’amara tesi del saggio in questione: proprio l’evoluzione della poetica e della riflessione di Calvino ha reso evidente che è venuta meno negli scrittori “la necessità di impegnarsi nel tentativo di mutare le storture della società” (p. 468).

L’addio all’impegno ha una radice ancora più profonda: “lo sviluppo impetuoso dei mass media e l’inarrestabile avanzata del consumismo e delle leggi di mercato hanno portato gli scrittori a perseguire una narrativa più vicina alle richieste del pubblico e alle esigenze di vendita dei lettori” (p. 468).

La fine dell’impegno ha una sua evidente matrice: “conta esclusivamente il mercato”, scrive lapidariamente Piemontese.

E all’intellettuale non resta che accettare la sua condizione degradata “al servizio di istituzioni pubbliche e private” o di “addetto alla cultura come spettacolo” (p. 472). In un panorama di forte saturazione, di trionfo del “già detto”, di inevitabile rinuncia a “scoprir nuovi mondi” (476) - parole di V. Spinazzola che Piemontese non tralascia – non possono che restare frammenti disarticolati incapaci di restituire senso a un mondo naufragato, incenerito.

L’intellettuale dunque, conclude Piemontese, non può che “riutilizzare i reperti del passato per ottenere risultati spettacolari” (p. 476), ma non certo per indicare vie da seguire o fornire messaggi rivelativi. È emblematico il riferimento, al termine del saggio, a Il nome della rosa. Nella pagina conclusiva del romanzo di U. Eco, il protagonista Adso da Melk dichiara inequivocabilmente: “non mi resta che tacere (…). Fa freddo nello scriptorium”.

Così, nel silenzio e nel gelo di un immenso deserto, l’intellettuale dà il suo definitivo addio all’impegno.

 

Angelo Piemontese, Il lungo addio all'impegno,  Genesi editrice, Gennaio 2023, pp.479

venerdì 7 aprile 2023

GIULIANO DA EMPOLI, "IL MAGO DEL CREMLINO"

 LE LEGGI DELLA POLITICA

Il mago del Cremlino (Mondadori, 2022), romanzo con cui Giuliano da Empoli esordisce nella narrativa, è la storia di Vadim Baranov, spin doctor di Putin, figura probabilmente ispirata a Vladislav Surkov.

L’autore traccia una vera e propria anatomia del potere. Attraverso lo sguardo di Baranov, che dal terzo capitolo è di fatto la voce narrante, emergono gli ingredienti fondamentali su cui pare reggersi l’esercizio del potere da parte di Putin (ma forse non solo di Putin). La prima legge è saperafferrare le circostanze”: lo diceva anche Machiavelli, il principe deve saper “riscontrare el modo del procedere suo con le qualità de’ tempi”. Saper “afferrare le circostanze” corrisponde al principio del “comportarsi secondo l’occasione”, la norma politica precisata da Baltasar Gracián. Ebbene, proprio questo fa Putin: come un predatore sa cogliere il momento da volgere a proprio favore.

La seconda legge è la legge dei bulli, ben esemplificata dal famoso episodio del Labrador che con crudele compiacimento Putin – ricorda efficacemente Giuliano da Empoli - lascia circolare intorno a una Merkel “impietrita e sull’orlo di una crisi di nervi”, cioè in posizione di debolezza per la sua nota fobia dei cani: è “la stessa logica del cortile di scuola”, scrive l’autore, “dove i bulli impongono la loro legge”.

Tuttavia al di là di teorie politiche complesse, che mescolano il lucido calcolo all’impassibile freddezza, Baranov constata che da Ivan il Terribile in poi “la Russia si è sempre fatta così, a colpi di sciabola”: l’essenza del potere, quindi, non è affatto – come potrebbe sembrare a una prima lettura - la “razionalità machiavellica”, l’azione, cioè, anche spregiudicata, ma sempre scelta in nome della Ragion di Stato e che, dunque, non si risolve semplicisticamente in forme di crudeltà fine a se stessa; piuttosto, precisa Baranov, la politica è il teatro in cui si scatenano l’irrazionalità, le passioni, la cattiveria gratuita”. E d’altra parte i recenti fatti in Ucraina lo dimostrano.

Giuliano da Empoli si addentra in maniera profonda nei meandri della realtà politica attraverso ricercati riferimenti culturali, a volte diretti e a tratti, invece, non proprio espliciti. Un punto di partenza sembra essere il poema ideato dal personaggio dostoevskjano Ivan Karamazov, nel quale Il Grande Inquisitore conduce una cinica analisi del concetto di potere e rivolgendosi a Cristo, gli dice: “noi abbiamo rettificato la tua opera e l’abbiamo rifondata sul miracolo, il mistero, l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati nuovamente come un gregge”.  Nel Mago del Cremlino Putin interiorizza perfettamente l’amara verità che Dostoevskij riconosce nel bisogno umano di “cercare un essere dinanzi al quale inchinarsi” e perciò elabora quella che Baranov definisce teoria della verticalità: dopo aver descritto un Gorbacev che si fermava a discutere con le persone e uno Eltsin che si presentava come compagno di bevute, Vadim Baranov liquida questa orizzontalità come pericolosa prossimità alla gente da parte di chi esercita il potere. E quindi commenta così: “l’eccesso di orizzontalità ha portato al caos. I Russi nutrono un nuovo desiderio di verticalità, cioè di autorità”.  E per riportare l’ordine in una Russia che rischia di somigliare alla brutta copia di un Occidente iperliberista, edonista, individualista e atomizzato, forse non bastano il bullismo di Stato, la legge del Labrador. Bisogna essere in grado, osserva Baranov, di “osservare gli altri”, le loro angosce, le loro paure. La politica non si riduce “all’amministrazione di un condominio. Ha un solo scopo: dare una risposta ai terrori dell’uomo”. E “la verticale del potere è l’unica risposta soddisfacente”.

Ebbene su queste basi Putin costruisce quella che Giuliano da Empoli definisce la “politica del profondo”, che poi diventa nei fatti una “democrazia sovrana”, espressione ossimorica che descrive una struttura politica perversa: un involucro democratico svuotato di senso che racchiude il cuore autocratico di una dittatura a sfondo nazionalistico e con mire imperialistiche.

 

SCENARI DISTOPICI

Abilmente Giuliano da Empoli tratteggia uno scenario da incubo, dalle sfumature perturbanti. All’inizio del romanzo è esplicito il riferimento a un classico della narrativa distopica, Noi di Evgenij Zamjatin, che descrive una società governata da una razionalità estrema, dove le persone sono identificate con codici alfanumerici e ogni cosa – dal sesso, alle conversazioni per strada, alla politica - è regolata nei minimi dettagli per garantire la massima efficienza del sistema controllato dal cosiddetto “Benefattore”: in questa realtà tutto è trasparente e non c’è bisogno di segretezza perché non c’è nulla di cui vergognarsi, niente da nascondere. Nello Stato Unico descritto da Zamjatin anche le elezioni si svolgono alla luce del giorno. Il protagonista del romanzo Noi dice: io vedo tutti votare per il Benefattore e tutti vedono me votare per il Benefattore, e chiarisce così che il sistema trasparente è in effetti una sorta di Panopticon. Zamjatin intendeva denunciare le regole della dittatura staliniana, ma di fatto ha colto, con molto anticipo sulla storia, le disfunzioni della nostra società, quella algoritmica della sovraesposizione nel web, la società in cui tutti ci sentiamo liberi di esprimerci attraverso i social senza capire che forse proprio questa pornografia dei dati che noi stessi forniamo nasconde una profonda opacità: l’altra faccia della razionalità algoritmica è infatti il controllo digitale.

Mark Fisher ha parlato di weird and eerie a proposito della società contemporanea: quella descritta da Zamjatin, quella che Baranov sta contribuendo a creare nella Russia di Putin, hanno in effetti tutti i tratti della distopia, ma uno in particolare: la normalizzazione dell’assurdo che gradualmente entra nelle abitudini. Scriveva a tale proposito Margaret Atwood nel Racconto dell’ancella: “la normalità significa ciò cui si è abituati. Se qualcosa potrà non sembrarvi normale al momento, dopo un po’ di tempo lo sarà. Diventerà normale”.

 

CHI SCRIVE NON È IL SUO PERSONAGGIO

Va apprezzata l’audacia di Giuliano da Empoli che affronta temi molto attuali scegliendo al posto della saggistica un romanzo, abbandonando, quindi, la scrittura argomentativa per sperimentare la creatività narrativa. Scrivere un romanzo mobilita emozioni, in chi scrive e in chi legge, è un’esperienza coinvolgente, che però espone anche a un rischio, lo stesso in cui sono incorsi molti grandi della letteratura: il rischio cioè che il pubblico sovrapponga l’autore al personaggio da lui creato e, che, quindi, proceda per sommarie identificazioni tra le idee dell’autore con la vicenda e i pensieri del personaggio. Nel caso di Giuliano da Empoli l’accusa di putinismo (oggi così frequente nei confronti di chi voglia affrontare in modo problematico le questioni relative alla crisi russo-ucraina) sembrerebbe una possibilità per chi si accontenta di letture superficiali. Naturalmente – per fare un esempio - noi sappiamo benissimo che Nabokov non è Humbert Humbert e non si identifica certo con la sua smania di possesso per Lolita. E infatti proprio Nabokov ha precisato nella postfazione al suo romanzo che è infantile studiare un’opera di narrativa per trarne informazioni sull’autore”. Un romanzo, insomma, è un romanzo e come tale va letto. E questo vale anche per Il mago del Cremlino.

 

L’AMORE COME ANTIDOTO

Forse come tributo alla natura romanzesca della vicenda raccontata, nel Mago del Cremlino c’è spazio anche per i sentimenti umani. Alla politica come dimensione oscura, fatta di trame, inganni, violenze, Giuliano da Empoli oppone l’amore. Quello tra Vadim Baranov e Ksenia è un rapporto che attraversa incomprensioni e tradimenti, ma che pure si trasforma in un incontro, rigenerato e reso più maturo dal fatto di aver resistito a molte difficoltà. In un mondo che intorno sembra crollare, si fa strada in Baranov, il Rasputin di Putin, una nuova, profonda esigenza che è all’origine della sua metamorfosi: “ciò che volevo, adesso, era tornare indietro, ristabilire un rapporto con tutto ciò che avevo trovato di bello nel mondo”.

Alla solitudine del potere, alla solitudine di Putin – un uomo senza moglie, senza figli, senza amici – si contrappone la decisione di Vadim Baranov: “è venuto il momento di smettere di voler ricoprire il mondo, ma piuttosto di sceglierne un frammento. E di farlo vivere”.

Si tratta di parole che ricordano il Calvino delle Città invisibili, quando scrive che bisogna cercare ciò che non è inferno e farlo durare, dargli spazio.

L’amore tra Baranov e Ksenia rappresenta l’inaspettata svolta sentimentale di un romanzo ideato per esaminare il cinismo del potere: una scelta precisa, un messaggio rivolto forse alle nuove generazioni che ormai sembrano fagocitate solo da prospettive fosche. L’amore, gli affetti possono definirsi, per usare le parole di Baranov, come “un antidoto negli eventi caotici” dell’esistenza individuale e collettiva, un antidoto necessario, diceva Winston in 1984, a preservare la nostra sostanza umana, quella che Clarisse fa scoprire a Montag in Fahrenheit 451 e che Baranov ritrova grazie a ciò che costruisce con Ksenia. Anche nella realtà più distopica resta un varco aperto alla speranza.

Resta però un fatto: solo il ripiegamento nel privato garantisce la riconquista di sé.

Giuliano da Empoli scrive un romanzo che quanto più esamina le strategie del potere tanto più sembra negare il senso della politica - almeno di quella che il nostro tempo conosce - come realizzazione piena della vita umana e dell’uomo come πολιτικὸν ζῷον.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


giovedì 5 gennaio 2023

G. ZAGREBELSKY, "LA LEZIONE"

 Nel suo agile saggio, La lezione  (Einaudi – Gli Struzzi, 2022), G. Zagrebelsky ha fornito un’analisi del mondo scolastico senza cedere alla lamentela per tutto quello non va, per le palesi disfunzioni e la caotica disorganizzazione che penalizza gli studenti, ma senza neppure proporre modelli didattici ideali o, peggio, retrotopici e anacronistici. 

Zagrebelsky parte da ciò che è necessario: occorre restituire alla scuola non tanto una teorica centralità – da molti politici sbandierata propagandisticamente e di fatto non realizzata – ma soprattutto la sua originaria dignità culturale.

Due sono le parole-chiave attorno alle quali si concentra l’analisi dell’autore: parola e piacere.

Contro le didattiche semplificanti che marginalizzano il docente riducendone la funzione a quella di mero “facilitatore” e contro le illusorie promesse di metodi ludocentrici e tecnocentrati, l’autore coraggiosamente rilancia la centralità di uno strumento immortale per la sua indiscutibile efficacia: la parola, un mezzo che da Socrate in poi non ha mai deluso.

- La lezione è parola.

 "Senza le parole, la lezione è vuota". Quello di Zagrebelsky non è un retorico elogio della parola, è un’analisi necessaria a ricostruire il legame tra la scuola e la forza generativa della parola.

Che il nesso parola-ascolto abbia nella vita scolastica un ruolo determinante è dimostrato da Zagrebelsky anche attraverso la ricostruzione etimologica del termine che indica il luogo privilegiato in cui la lezione avviene: l’aula. La parola “aula”, sottolinea l’autore, deriva dal greco aulós, flauto, e allude alle onde sonore della musica che si diffondono in uno spazio deputato all’ascolto. Ebbene, la parola avvolge le coscienze, è come l’aria: cultura e scuola non possono farne a meno.

Immagini, input digitali di varia natura possono integrare, accompagnare l’azione d’insegnamento, ma il nesso parola-ascolto non può essere sostituito da nessuna innovazione tecnologica spacciata per avanguardia didattica. Gli uomini e le donne del futuro hanno bisogno di acquisire la consapevolezza necessaria per muoversi nel mondo e "se non si hanno le parole, le cose, di qualunque genere siano, fisiche o metafisiche, materiali o immateriali, non si possono afferrare e trattenere, cioè non si possono acquisire". Sono infatti le parole che permettono di "pensare il mondo".

Viviamo in un’epoca di forte mistificazione o, addirittura, come ricorda G. Carofiglio, di evidente, orwelliana, "manipolazione delle parole". Perciò la scuola e la lezione hanno un dovere preciso: liberare la parola dal "veleno dell’equivoco". Solo "attraverso la vita e la storia della parola possiamo portare alla luce le esperienze dell’umanità". Zagrebelsky fa riferimento al macabro esperimento messo in atto da Federico II: sottratti alcuni bambini all’affetto delle loro madri, l’imperatore li fece allevare senza la tenerezza delle parole che accudiscono e fanno crescere, limitandosi a farli nutrire da balie. I bambini morirono tutti, perché – è questo che Zagrebelsky vuol dimostrare – la parola è vitale: una vita senza parole è solo mera esistenza (zoé), non esperienza di relazione (bíos). La democrazia, che è relazione continua, infatti, si nutre di parole. I Greci chiamavano agorá lo spazio pubblico atto al confronto e al dialogo politico. L’agorá era il luogo dell’agoréuein, del dire, del parlare per trovare la chiave utile al benessere della vita collettiva. Infatti è solo parlando che ci definiamo. Oggi più che mai, in un momento storico in cui tutti si appropriano, per esempio, di parole come libertà e democrazia, facendosene paladini proprio mentre le negano o ne alterano il senso, bisogna recuperare il rapporto tra le parole e le cose, per evitare il rischio di tenere soltanto nomina nuda.

- La lezione è piacere

Zagrebelsky, poi, mette l’accento su un altro aspetto che dovrebbe connotare la lezione e che è strettamente legato all’uso efficace e sapiente della parola: il piacere. L’autore parte dalla critica esplicita contro i due punti estremi della deriva didattica: da un lato, la pratica riduttiva e semplificante dei test standardizzati, che sembrano pensati per “umiliare l’etica dell’apprendimento”; dall’altro il narcisismo della seduzione intellettuale di docenti che suggestionano con il loro carisma manipolatorio e non grazie al fascino delle materie che insegnano. Zagrebelsky cita, a questo proposito, tra i cattivi maestri, il prof. Keating, il noto trascinatore di studenti nel film L’attimo fuggente, in cui affronta una rivoluzione che finisce per sfuggirgli di mano e che si conclude, per uno dei suoi allievi, in modo disastroso.

Ma, allora, che cos’è una lezione? Zagrebelsky lo spiega attraverso la metafora di P. Florenskij, filosofo e matematico fucilato nel 1937 all’epoca delle purghe staliniane. "La lezione è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale, una meta… Per chi passeggia è importante camminare, non solo arrivare". Florenskij pone l’accento sul piacere di imparare osservando, guardandosi intorno, parlando, scambiandosi sguardi, idee e opinioni, inoltrandosi in sentieri secondari. È questo il piacere della lezione: il piacere digressivo, il piacere della domanda, la scoperta della complessità delle cose che sfuggono alle gabbie dei programmi prestabiliti, dei tempi programmati, delle scansioni pianificate. La lezione è libertà.

Educare o istruire sono false alternative. La lezione è il piacere di camminare insieme.

- Perché riflettere sul senso della lezione

Con La lezione, Zagrebelsky offre lo spunto per una riflessione sul mondo della scuola in un preciso momento storico come il nostro, che la vede travolta da riforme, circolari ministeriali che confondono invece di chiarire, ordinanze gattopardesche che cambiano tutto per non cambiare niente. Accusata – in molti casi a buon diritto – di perpetuare le disuguaglianze invece di eliminarle e distorta nelle sue finalità – soprattutto se le si attribuisce il compito di premiare il merito senza però far nulla per garantire a tutti gli studenti pari opportunità e omogenee condizioni di partenza rispetto alle quali osservare se ci sia o meno un merito da premiare – annegata tra miriadi di progetti e naufragata nel mare della burocrazia, la scuola oggi non è più un centro culturale.

Separazioni sempre più dicotomiche tra saperi scientifici e discipline umanistiche, reiterati tentativi di svilimento e continui attacchi ideologici diretti contro i saperi definiti “inutili” – perché considerati non immediatamente spendibili sul mercato del lavoro – celebrazioni neoavanguardisitiche del “nuovo” e di tutto ciò che abbia a che fare con la dimensione tecno-pratica, hanno appiattito la scuola a ente certificatore di mai ben definite “competenze” illusoriamente misurabili attraverso prove ritenute oggettive, sul modello INVALSI.

È vero, il mondo è cambiato e la società si trasforma rapidamente, tuttavia non sempre in meglio. Forse solo la scuola può costituire il baluardo estremo di quella cultura che ci mette di fronte ai nostri limiti e ci ricorda che in fondo "siamo nani sulle spalle di giganti".

La lezione insegna ai nostri giovani proprio questo: a raccogliere (“lezione”, ricorda Zagrebelsky, deriva dal greco lego, che oltre a “parlare” vuol dire appunto “raccogliere”), a selezionare e a scegliere dal passato ciò che può servire a interpretare il presente.

                           Teresa D'Errico 



L. MENEGHELLO, "FIORI ITALIANI": CONTRO LA DISEDUCAZIONE DI STATO

 L. Meneghello apre i suoi Fiori italiani con una domanda: “Che cos’è l’educazione?”. E nella nota introduttiva al libro dichiara: “avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione”. Lo sguardo retrospettivo sul mondo scolastico dell’Italia fascista gli aveva saputo chiarire una sola cosa: quello che la scuola non è e, di conseguenza, quello che la società può diventare a causa di una capillare diseducazione.


Chi legge Fiori  italiani non può non rivolgere l’attenzione ai giorni nostri, al lavoro meticoloso e programmato volto a diseducare le nuove generazioni, a impedire loro il libero pensiero, a ingabbiare la prospettiva critica, a trasformare la scuola da luogo di appassionato sapere a centro di addestramento passivo. “Addestramento mentale”, così lo chiama Meneghello. E precisa: “non erano dottrine compiute” quelle che venivano insegnate, bensì “una serie di persuasioni” che i giovani assorbivano anche solo “respirando”. Non è questo ciò che accade anche oggi?

Il bombardamento dei pedagogismi ludocentrici, fondati sulla gamification, sul trasferimento in digitale di ogni aspetto della didattica (esercizi, valutazione, verifiche, comunicazioni), le grandi abbuffate di neoavanguardismi tecnologici non sono forse l’humus entro il quale vengono quotidianamente addestrati reggimenti nazionali di giovani esecutori acritici cui si chiede solo di apporre una X nelle caselle giuste? Non è forse questo il volto della scuola postfascista? Antidemocratici test standardizzati oggi impongono quesiti uguali ad alunni di aree geo-socio-economico-culturali tenute dallo Stato in condizioni molto diseguali: l’apoteosi di una politica che coltiva le disuguaglianze, i divari, i gap, invece di abbatterli, come invece dovrebbe impegnarsi a fare secondo il dettato costituzionale; una condizione che con l’autonomia differenziata – o, come G. Viesti l’ha definita, la secessione dei ricchi – è destinata a peggiorare.

E sorprende che, durante gli anni difficili della pandemia, quando la didattica digitale ha salvato la scuola, ebbene, allora, proprio allora, il supporto tecnologico della DAD sia stato ideologicamente demonizzato da una martellante, svenevole, retorica (che ha fatto da cassa di risonanza del mercatismo che vuole le scuole sempre aperte per garantire la presenza dei genitori-lavoratori nelle aziende): le relazioni bloccate, i sorrisi negati, gli affetti recisi, tutta colpa della DAD.

Ebbene, la disfunzione di una società comincia dalla scuola. E parlarne, scrive Meneghello, significa “salvare” lo scolaro, cioè “rintracciare ciò che vi può essere di salvabile in lui” nonostante questa diseducazione sistematica cui è stato sottoposto.

Il primo atto di questa “operazione di salvataggio” consiste in un cambio di prospettiva: bisogna guardare i giovani in un modo nuovo, assumere, cioè, uno sguardo che potremmo definire floreale. In un’epoca in cui i più piccoli erano i figli della lupa, diventavano poi balilla e venivano infine inquadrati nei Fasci giovanili di combattimento, addestrati alla violenza e alla cieca ubbidienza, L. Meneghello fa dire a un “ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese” la frase più rivoluzionaria della pedagogia e che spiega il titolo del libro: “noi siamo vasi di fiori. Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”. Che la scuola dovesse passare dall’imposizione alla delicatezza e che dovesse formare non sudditi ubbidienti o soldati pronti al sacrificio, ma fiori da far sbocciare, era una rivoluzione linguistica prima di tutto e culturale, poi, in senso lato.

Ora gli studenti certamente non sono più figli della lupa o balilla, ma vengono definiti, con lessico aziendalistico, utenti, portatori di interesse, stakeholder. Anche oggi, dunque, la scuola dovrebbe recuperare la prospettiva floreale suggerita da Meneghello, per insegnare ai giovani a fiorire, a irradiare bellezza nel mondo ferito in cui stanno per entrare.

Il romanzo di L. Meneghello si può dividere in due parti: nella prima sezione prevale una serrata denuncia da parte del protagonista S., di quella che potremmo chiamare la diseducazione di Stato e dei suoi fondamenti:

–       distacco della scuola dalla vita e dalla realtà: “una specie di settore separato con leggi e caratteristiche proprie”;

–       classificazione su scala numerica degli studenti secondo categorie naturali: “i bravi, i normali, gli scarsi”;

–       trasmissione di una cultura “esposta come la Sindone”, una cultura” che non c’entra con la gente” e che è” come la Grazia, che non ha una dimensione sociale”;

–       organizzazione di un sistema con i suoi “riti inquistori o giudiziari”, i suoi “skills specializzati” come per esempio quello di “destreggiarsi tra i due colori dell’errore, il blu e il rosso, erogati da matite a sezione poligonale … una specie di teologia del rosso (veniale) e del blu (mortale)”;

–       distacco tra le parole e le cose: “le cose erano cose-parole, non cose-cose”;

–       il docente degradato a “baby sitter intellettuale” o a semplice “pastore”, nel senso che “pasturava i giovani e loro facevano bèee bèee”: una figura orientata più “a smorzare che ad accendere”;

–       ripetizione ciclica degli stessi contenuti, sempre uguali, al massimo presentati “sotto altri angoli visuali”.

Non mancano, certo, nel testo ricordi di insegnanti capaci di suscitare interesse, quelli che, come diceva Dante, ti insegnano come l’uomo si eterna. Però, si corregge subito Meneghello, questi “non possono, non sanno, insegnarti altro”: forse, sembra sottintendere l’autore, i giovani prima di eternarsi, dovrebbero imparare ad affrontare il presente, e l’urto è forte.

Il ritratto finale è il profilo di una scuola vuota e senza idee. “Idee importanti oggi non ce n’è”: è questa l’amara constatazione di Meneghello. E in una scuola così “si potevano insegnare solo cosucce, cos’è uno hysteron-proteron, la struttura delle graminacee”. In definitiva, una scuola inutile: “qualche correlazione tra imparare e vivere si asseriva a parole che esiste, ma di fatto nessuno se ne dava pensiero”.

Appare a questo punto superfluo commentare l’affinità tra la diseducazione di Stato subita dai giovani durante il Ventennio e quella in atto in questo ultimo ventennio dominato dalla trionfante triade morattiana: Inglese, Informatica, Impresa, che ha sostituito quella tetra, più antica, del “credere, obbedire, combattere”.

I Fiori italiani dimostrano che negli anni del fascismo quello che i ragazzi apprendevano, lo imparavano fuori dalla scuola. Il modello di un’educazione costruttiva è incarnato nel libro di Meneghello da Antonio Giuriolo, il maestro-partigiano il cui esempio ha avuto la forza demiurgica di “fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne”, dimostrando con il suo esempio vivente che la cultura è “il principio informante del carattere” e la libertà “l’alimento stesso della vita intellettuale e morale”.

E, naturalmente, è tutta questione di metodo: sull’esempio del maestro Giuriolo, L. Meneghello elabora una didattica che se fosse applicata oggi restituirebbe seriamente alla scuola quella dignità tanto propagandata dagli stessi politici che gliel’hanno tolta.

Pochi, illuminanti, tratti:

–       metodo maieutico, il valore della domanda: nel dialogo con il giovane protagonista S. “Antonio non lo contraddiceva, gli faceva delle domande con fermezza e senza ostilità e lui sentiva la forza frenante di queste domande, il giudizio che vi era implicito”;

–       informalità: “era proprio questa la forza del suo insegnamento, non c’era tono didascalico, non svolgeva un programma”;

–       concretezza: “Antonio si rivolgeva sempre a una cosa precisa, questo libro, questo passo, questo concetto. Additava, citava (non a memoria come un retore, ma aprendo e cercando) brani segnati a matita, sottolineati…gli veniva spontaneo richiamarsi a punti dove ciò che stava dicendo si vedesse espresso ed esemplificato;

–       capacità di cogliere e comunicare “l’interesse intrinseco delle cose”: negli argomenti che affrontava “c’era la perfetta corrispondenza tra interesse soggettivo e interesse intrinseco dell’argomento”;

–       un’esposizione guidata dal “discorso lucido della ragione” capace di trasmettere “un senso di suprema pacatezza” e di “calma sovrana”.

Nei ricordi dell’amico-discepolo S., Antonio Giuriolo è “l’insegnante”, colui che cioè lascia un segno nella vita dei suoi allievi: “l’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e se scriviamo, di scrivere”.

L. Meneghello, Fiori italiani, BUR, 2022

mercoledì 8 dicembre 2021

IL DANNO SCOLASTICO

 

Accade spesso che il dibattito sul valore di un libro sia fortemente influenzato da condizionamenti ideologico-politici che privano la discussione di quell’onestà intellettuale, di quella serenità di giudizio necessarie a cogliere del libro il suo significato di fondo e lo spirito che lo anima. Certo, nessuno è completamente immune da personali orientamenti nei criteri di valutazione che adotta, tuttavia sembra opportuno lasciare spazio a letture e a interpretazioni il più possibile obiettive. 


“Il danno scolastico” è uno di quei saggi profondamente divisivi: un forte pregiudizio sul presunto conservatorismo degli autori ha caratterizzato le recensioni finora pubblicate (cfr. Vanessa Roghi e Christian Raimo, https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/come-non-conoscere-o-non-capire-nulla-della-scuola-democratica-ovvero-il-danno-che-provocano-le-confuse-opinioni-di-luca-ricolfi-e-paola-mastrocola/ e Vincenzo Sorella, https://www.doppiozero.com/materiali/mastrocola-e-ricolfi-quale-e-il-vero-danno-scolastico).

Si tratta di critiche provenienti da un mondo che si autodefinisce di sinistra, espressione di una pseudosinistra neoliberista che da decenni ha in effetti snaturato la scuola, allontanandola dalla sua antica vocazione culturale, per curvarla verso orizzonti sempre più marcatamente aziendalistici e economicistici di cui, peraltro, viene goffamente mimato il linguaggio.

Da lettrice e docente, del saggio di Mastrocola e Ricolfi apprezzo la chiarezza espositiva e l’appassionata difesa di un’idea alta della scuola come ultimo baluardo di resistenza contro attacchi – ipocritamente chiamati “riforme” - che da anni la stanno impoverendo e destrutturando. Con una pericolosa operazione di manipolazione del linguaggio – in atto, a dire il vero, in diversi campi, come ha recentemente ribadito G. Carofiglio nel suo recente “La nuova manomissione delle parole” – si dichiara propagandisticamente di voler mettere la scuola “al centro”, ma nei fatti le si sottrae sempre più calibro, valore, spessore: si riempie il tempo scolastico di tutto (progetti, gite, orientamenti universitari, alternanza scuola-lavoro, incontri con esperti di vario genere, test Invalsi), si svuota la vita scolastica di senso. È chiaramente un disegno preciso: si chiama “ampliamento dell’offerta formativa”, ma l’unica cosa che si dovrebbe ampliare – l’orizzonte culturale – resta annebbiato. Non c’è tempo per imparare. Per ora è così e bisogna ammetterlo, con buona pace dei difensori della scuola “progressista”, se per progressismo costoro intendono la costante distrazione da quello che dovrebbe essere l’aspetto prioritario della scuola: la cultura.

Bisogna essere chiari: la scuola oggi offre davvero poco. Nel tempo residuale – tra una videoconferenza con esperti chiamati per fornire delucidazioni sulle possibili scelte universitarie che il territorio offre, e una videolezione sulla piattaforma per l’alternanza scuola-lavoro, che riguardo al lavoro non presenta niente e si riduce a una noiosissima lezione frontale che gli studenti sono costretti a seguire per mero adempimento burocratico – ebbene, nel tempo che resta, si fa solo quel che si può: poco.

E se Mastrocola e Ricolfi denunciano questo deficit di spessore della scuola pubblica, se cioè denunciano il falso progressismo della scuola pubblica che si è tradotto solo in un abbassamento vertiginoso dell’offerta culturale, non sbagliano. A ciò si aggiunga anche la pessima selezione dei docenti, immessi nei ruoli attraverso concorsi facilitati: si capirà perfettamente che agli studenti lo Stato davvero non fornisce le lenti necessarie a decodificare il mondo, la realtà, la storia, la complessità. Ne deriva, ovviamente, che poi abbandonano lo studio, non si iscrivono all’università. La scuola non li prepara abbastanza. Gli autori del saggio “Il danno scolastico” questo dicono: la scuola oggi non prepara. È vero, è sotto gli occhi di tutti, è un dato confermato: all’ultimo concorso in magistratura (luglio 2021) il 94% dei candidati è stato bocciato (https://www.ilsussidiario.net/news/magistrati-concorso-flop-94-bocciati-scrivono-male-allarme-servono-800-idonei/2260936/): gente laureata che ha lacune nell’italiano scritto, nella formulazione scritta del proprio pensiero, costituisce un risultato allarmante. E non è soltanto questione di grammatica, è un problema più profondo che investe la capacità di formularli, i pensieri, di dipanare il groviglio che li intrappola e che impedisce di tradurli in parole. Un problema serio, non solo linguistico: tredici anni di scuola e cinque di studi universitari evidentemente non risultano sufficienti a dotare le persone delle competenze comunicative necessarie a superare un concorso pubblico.

E quale sarebbe la colpa di Mastrocola e Ricolfi? Aver denunciato l’ovvio? Deideologizziamo il dibattito e riconosciamo obiettivamente le falle del sistema scolastico italiano, ammettiamo la colpa più grave della scuola: aver smesso di insegnare in nome di un’ipocrita idea di “inclusività” che garantisca a tutti il “successo formativo”. L’inclusione è un principio sacrosanto (soprattutto se a giovarne sono tutti gli alunni BES, i più bisognosi di attenzione e cura), giustissimo è pure l’impegno ad assicurare agli studenti la piena realizzazione di sé, ma tutto questo non può e non deve essere l’alibi per l’abbassamento degli obiettivi culturali come quello che oggi i giovani stanno subendo. Lo ha spiegato bene A. D’Avenia (https://www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/21_novembre_14/altezza-quadri-bee501f4-458c-11ec-9904-ef3b86729896.shtml): un buon educatore non appende il quadro all’altezza del bambino – deturpando una casa – ma lo appende dove è giusto, dove sta bene, e insegna al bambino a usare la sedia per sollevarsi e guardarlo dal punto di vista più adeguato. E invece oggi la scuola ha scelto la via più facile, ha abbassato gli obiettivi. Così, però, non insegna più, tarpa le ali e i sogni. E non è giusto, Don Milani avrebbe disprezzato questo tipo di scuola che lascia indietro proprio chi pretenderebbe di includere: se per includere smetto di insegnare, finisco con l’escludere. Depoliticizziamo l’analisi: chi può davvero dire di essere soddisfatto da questo sistema di istruzione?

La scuola non riesce più a insegnare. E le speranze riposte nel digitale, nelle avanguardie didattiche e nelle seduzioni della gamification si sono rivelate false illusioni, se non errori: gli studenti saranno anche bravissimi a svolgere un questionario Kahoot, ma quando scrivono un tema sono in difficoltà. Da anni chi insegna lo constata. Il cammino è sempre da ricominciare…

P. Mastrocola- L. Ricolfi, "Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza", La nave di Teseo.

domenica 17 ottobre 2021

NON HO PIÙ ARMI - POESIA INEDITA DI TONIO CAIONE


 

Non ho più armi

 

Non ho più armi,

Amica mia.

Sono senza difese,

e non ho scudiero che m’assista.

 

Questo settantaduesimo gennaio

è più freddo di sempre,

e non ho vesti per coprirmi;

neanche un alito –

né di madre, né di sposa.

 

Non parole,

né suoni o giochi di bimbi –

 

Tu sola, Amica lontana,

puoi ancora donarmi parole:

il silenzio mi inchioda.

 

Gennaio 2017

 

 

   Scegliere il tema del desiderio è una delle sfide più ardue che un poeta possa affrontare: il rischio di cadere nella banalità è alto, il pericolo di ripetere topoi abusati è forte, la possibilità di scoprire troppo apertamente la propria interiorità diventa quasi una certezza.

   Eppure il dovere dell’originalità il più delle volte delude e copre di una patina d’artefazione la sincerità che i lettori si aspettano e che, in fondo, ognuno di noi cerca nei rapporti umani. Saba definiva la sincerità dei versi poesia onesta e condannava lo sfrenato desiderio di originalità, quello di chi non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto.

In questo consiste la grandezza di alcuni componimenti. Non ho più armi riesce a trasmettere ciò che tutti provano e trova conferma della sua onestà in quello che anche gli altri poeti hanno detto: noi viviamo di desiderio.

   Ciò che voglio mi è negato, scriveva Jaufré Rudel nella sua nota canzone che celebra l’amore di lontano. È una verità antica. E che il desiderio si nutra di assenza, di mancanza, lo suggerisce la sua radice etimologica: dal latino deesse, “mancare” o dalla locuzione de sideribus, “dalle stelle”, espressione che fa riferimento a quella luce, a quel lampo di felicità, che ci manca e che vorremmo brillasse nelle nostre vite. E che noi siamo sostanza desiderante non ce lo dice solo la più alta tradizione lirica, che ha avuto in Petrarca la sua massima espressione. Potremmo sperimentarlo ogni giorno, ma forse non sappiamo più prestare attenzione alle emozioni. La poesia di Antonio Caione che ruota tutta intorno alla forza del desiderio, all’urgenza dell’incontro e alla sua impossibilità di realizzazione, ci costringe a fare i conti con l’anestesia emotiva del nostro tempo.

Oggi la forza del desiderio sembra essersi esaurita, pochi ne avvertono l’intensità. Immersi in un mondo sempre più vorticoso, siamo attori di un eros vissuto distrattamente, velocemente e troppo facilmente. L’imperativo consumistico sintetizzato da Freddy Mercury nell’epocale I want it all, I want it now, “voglio tutto e subito”, ha spinto intere generazioni ad azzerare il desiderio e a sostituirlo con la rapida soddisfazione e l’aproblematica rottamazione. Zygmunt Bauman definiva queste esperienze a basso tasso d’investimento sentimentale, “amori liquidi”, fragili, che nascono sui social e lì finiscono con brevi post di addio. Senza crucci e, al massimo, con le lacrime di un solo momento, i consumatori seriali di rapporti senz’anima sono pronti alla sostituzione del vecchio con il nuovo oggetto di consumo erotico.

Tonio Caione, invece, recupera dalla migliore tradizione lirica le componenti fondamentali di un eros degno di questo nome: la lontananza dell’amante e la tristezza per l’inappagamento del desiderio. Il senso profondo della frustrazione è testimoniato nel testo di Caione, dalla martellante ripetizione della negazione non, neanche, né che sembra condannare il soggetto lirico alla privazione di ogni concreta possibilità di incontro. D’altra parte, domina la dimensione totalizzante dell’eros rispetto al quale chi ama è sempre in condizione di inferiorità, come un guerriero disarmato, metafora cui il titolo del componimento allude e che restituisce attualità a suggestioni tradizionali. Chi ama è esposto ai colpi di un dio, Eros, che possiede con prepotenza e al quale è inutile opporre resistenza.

A costituire, però, la vera forza dei versi di Tonio Caione è l’accento posto sulla sfumatura più intensa dell’amore, un dono di parole: tu sola, Amica lontana,/puoi ancora donarmi parole.

Viviamo nell’era della comunicazione, ma non sappiamo comunicare, dimentichiamo che “fare” l’amore è prima di tutto “parlare” d’amore. Comunicare è un verbo che nasce dall’idea del condividere le emozioni attraverso la parola, lo dimostra chiaramente la derivazione latina del termine, cum (“insieme, con”) e munus (“dono”): comunicare è la capacità di donarsi attraverso la parola, abbattendo i muri che separano.

Noi, al contrario, nonostante l’illusione di entrare in contatto attraverso i social, viviamo in un’epoca di incomunicabilità profonda: siamo come Gli amanti di Magritte, separati da un drappo bianco che copre i volti e impedisce l’intimità facendo da barriera divisiva. Siamo incapaci di guardarci, di parlarci. E a questo punto comprendiamo quanto peso abbia l’amarezza del silenzio: il silenzio mi inchioda, scrive Tonio Caione. Ferisce l’afasia di chi non vuole, non sa comunicare. Sarà per incapacità, oppure per scelta, forse per timore, poco importa: il silenzio inchioda ognuno alla propria solitudine.

 Non ho più armi è una poesia che scava nel cuore e scopre la verità che giace al fondo, per usare ancora le parole di Saba.

L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda, scriveva Montale interrogandosi sui destini della poesia e sulla sua possibile sopravvivenza nella società dei robot.

Non ho più armi è un esempio di poesia onesta, la sola che possa resistere agli imperativi del mercato, alla competizione della tecnologia, alla degradazione di contenuti e forme imposta dal gusto di massa. Non ho più armi dice la verità sull’essere umano: siamo fatti di desiderio, che si nutre di assenze.

 E la tua assenza so quel che mi dice,

la tua assenza che tumultuava

nel vuoto che hai lasciato,

come una stella. 

(Vincenzo Cardarelli)

 

 

 

 

 

domenica 6 dicembre 2020

IL DONO DI ANTONIA

 Il corpo di una donna è progettato per procreare e dare la vita: ma perché per secoli la biologia ha condizionato le scelte del soggetto femminile relegandolo al solo ruolo di madre? Un figlio è di chi lo mette al mondo o di chi lo ama, lo alleva, lo educa? L’istinto materno è davvero un istinto? Il rifiuto della figura materna è alla base di sofferenze e psicosi che tormentano la vita oppure  questo nesso causale è l’ennesimo addebito fatto alle donne da parte di una cultura androcratica capace solo di attribuire responsabilità, oneri, colpe alla figura femminile?

Alessandra Sarchi pone quesiti che mettono in crisi, destrutturano immaginario e tradizione. Il dono di Antonia è la storia di una donna che in gioventù ha donato un ovulo a un’amica californiana per consentirle di realizzare il suo desiderio di maternità. Poi, però, ha troncato ogni rapporto con l’amica, ha avuto paura del suo stesso slancio, della sua generosità.

Ecco, il fulcro del romanzo di Alessandra Sarchi è questo. La riflessione sul senso della maternità è l’espediente, il pretesto narrativo per avviare una seria analisi sul concetto di dono, spingendolo fino all’esame di quello che è più difficile da donare: la vita, l’idea della vita, la possibilità di dare la vita.

Antonia non esita a mostrare il suo affetto a Myrtha: offre il suo ovulo e crede che la felicità dell’amica sia condizione sufficiente per realizzare anche la propria felicità. Poi, a poco a poco cominciano i dubbi, le paure e i tentativi di autoconvincersi che, sì, la generosità è sempre la cosa giusta: si dona il sangue, dunque si può donare anche un ovulo; poi, noi donne di ovuli ne abbiamo tanti…ne doni uno, altri saranno fecondati. Sì, la generosità è la cosa giusta: questo si ripete Antonia. C’è però una domanda fatale, per la quale non esiste risposta immediata: si è sempre all’altezza della propria generosità? Quale prezzo siamo disposti a pagare per quella che consideriamo generosità? È vera generosità quella di Antonia? Il dubbio che la tormenta è proprio questo: a inquinare l’idea di generosità ci sono due fattori. Il primo, umanissimo, è il rimpianto legato al desiderio comprensibile di conoscere poi la vita che crescerà a partire da quell’ovulo donato: per questo Antonia tronca ogni rapporto con Myrtha, per non affrontare la possibilità di voler vedere il bambino che da quell’ovulo donato, nascerà: avevo paura di vederti, di vedere qualcosa che non sarebbe stato mio …Non volevo sciupare il mio dono con la gelosia

Il secondo aspetto che tormenta Antonia è un dubbio atroce, perché sfalda l’idea stessa di generosità: si possono davvero considerare interscambiabili un ovulo e l’idea di vita che porta dentro? Quando Jessie, il giovane uomo che da quell’ovulo ha avuto vita, arriva in Italia e cerca Antonia, lei vive un’epifania, una rivelazione. No, la vita non è interscambiabile, è unica. E in quella unicità c’è un destino, un percorso fatto di scelte, gioie e dolori che ad Antonia non appartengono, ma che la mettono di fronte ai propri errori, alle proprie fragilità. Essere la madre di Anna non compensa l’atto mancato di Antonia che avrebbe potuto essere la madre di Jessie, ma ha scelto di non esserlo. Inizia un percorso di autoindagine, fatto di domande e sensi di colpa che la ragione da sola non dissolve. Il passato lontano, ma mai rimosso, diventa quasi un’ombra persecutoria: è col passato che bisogna aver a che fare, con la memoria custodita e con quella rinnegata.

Sin dall’inizio del romanzo si afferma questa certezza: la cosa sulla quale si ha meno controllo è il passato, e la memoria, e nel passato può esserci tutto.

Sarchi tocca un punto nevralgico del nostro sentirci moralmente nobili: può definirsi generosità il bisogno di misurarsi? Volevo provare a me stessa di valere qualcosa: Antonia dona, ma alla base del suo gesto c’è l’io. È l’esigenza di “centrarsi” a determinare la sua scelta: provavo un sentimento di inappartenenza che tendeva all’ostilità. È la triste consapevolezza di una vita in cui c’era tutto, fuorché un obiettivo a originare la sua decisione. Ma alla fine l’atto di donare non la tranquillizza, anzi dal momento in cui si offre inizia il suo tormento: sentire di aver oltrepassato un limite e non sapere più esattamente quale sia il proprio posto. Ci si può costruire una vita, intorno a una vergogna così.

Il dono di Antonia, forse, allora, non è quello che lei fa a Myrtha. Il vero dono è quello che Antonia riceve da Myrtha. È Myrtha che dona ad Antonia una felicità possibile, la bellezza di essere cercata e amata nonostante le fughe e le chiusure. Myrtha ha pochi anni davanti a sé, è malata, svela a Jessie, il figlio che ha allevato e amato, la verità sulla sua nascita dall’ovulo donato da Antonia. E come in una Telemachia Jessie cerca l’altra madre, Antonia, quella naturale. Il loro incontro è intenso: i due si riconoscono. Jessie non giudica. Madre e figlio parlano, bevono un succo alla menta. Tonano a casa. Un nostos antico.

Il dono di Antonia è quello ricevuto da Myrtha, che ha capito e non ha condannato la fuga della sua amica italiana, ha custodito la felicità che grazie a lei ha raggiunto: e, pensando a Myrtha, Antonia ammette che ancora una volta la sua amica le ha aperto la strada, l’ha messa nelle condizioni di essere una donna diversa.

Il dono di Antonia è quello che riceve da Jessie, che con la sua tenacia nel cercare, con la sua capacità di aprirsi all’ignoto, di rischiare un rifiuto da parte della donna che non ha mai voluto conoscerlo, ha mostrato ad Antonia la parte più bella delle relazioni umane, la fiducia, la capacità di guardare oltre i giudizi e le valutazioni razionali e ha dato spessore – con pochi, ma forti, strumenti, l’ascolto e la parola – a un legame che fino ad ora è stato solo naturale, biologico, di fatto inesistente.

Jessie ora c’è, esiste.  Non è più “il passato”. Non c’è molto da ragionare sui “perchè” della vita.

Il dono di Antonia è quello che lei riceve, quando meno se lo aspetta: l’incontro che scompagina gli schemi, la dissoluzione dei sensi di colpa, la liberazione dai segreti opprimenti del passato, la matura comprensione del fatto che quello che ci salva, ogni giorno, sono i sentimenti, non la ragione né la natura. I sentimenti. Quelli che servono a colmare i buchi e la distanza. I sentimenti.

ALESSANDRA SARCHI, IL DONO DI ANTONIA, Einaudi