Massimo Recalcati spiega con parole chiare e precise il senso della lettura: è un incontro tra due storie, quella del lettore e quella dello scrittore. Chi legge a sua volta "viene letto" dal libro: noi siamo libri scritti con le parole dell'Altro. L'atto della lettura è un momento di scoperta di sé, significa lasciarsi attraversare dall'esperienza di chi scrive e vuol dire riconoscere nelle parole di un libro frammenti della propria vita dimenticati, rimossi o ancora sconosciuti.Ciò che colpisce nel testo di Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri, è l'aver posto attenzione a testi che direttamente o indirettamente fanno leva sul potere della parola.Nelle pagine del saggio domina il personaggio di Ulisse, l'eroe del ritorno e della riappropriazione di sé nell'approdo a Itaca. Però, su quella dell'eroe, senza dubbio, prevale l'immagine dell'uomo che attraverso la parola dà forma al mondo e esprime in modo inequivocabile i propri desideri: piange, guarda l'orizzonte e con parole nette spiega alla ninfa Calipso - la dea gli ha proposto l'immortalità e l'eterna giovinezza - che lui, invece, ha Itaca nel cuore ed è lì che vuol tornare. Nella parola di Ulisse prende forma il suo destino, con la parola lui lo decide.Recalcati, poi, dichiara che nella sua formazione ha rivestito un ruolo fondamentale Gesù, non quello del sacrificio, della passione, del dolore, ma l'Uomo della vita, dell'amore, del perdono, valori che si associano alla Parola e, è noto, Gesù è il Verbo per eccellenza. Ogni suo miracolo si associa a parole incisive, rimaste nella memoria collettiva.
Sartre: Recalcati lo considera un punto di riferimento ineludibile. Tra i filosofi Sartre è il più artistico, scrive romanzi e La nausea appare a Recalcati un testo magistrale e iniziatico da cui ha ricavato un insegnamento capitale e cioè che la scrittura può sottrarre la vita alla disperazione. Si tratta del concetto - riportato in esergo da Recalcati - che Sartre esprime nell'opera Le parole: farò dei libri; ce n'è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell'uomo: egli ci si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine.
Infine viene individuato dallo psicoanalista un libro per lui particolarmente significativo, La strada di C. McCarthy, la storia di un padre e un figlio, smarriti in una terra desolata dopo un'apocalittica e non precisata catastrofe. Recalcati racconta che nel finale del romanzo, il padre muore e il figlio vorrebbe seguirlo fin nel regno dei morti per non separarsi da lui. Tuttavia il padre spiega che un filo indistruttibile li legherà per sempre: il fuoco della parola non è destinato a spegnersi. Qualcosa del padre sarà indelebilmente scolpito nel cuore del figlio: resteranno uniti dal legame stabilito dalla parola.
Recalcati con le parole lavora, perché è uno scrittore, perché è uno psicanalista.
Il messaggio di questo libro non sta tanto nel voler suggerire una certa idea di mondo - per usare il titolo di un noto testo di A. Baricco - attraverso una selezione di libri imperdibili. A Recalcati non importa suggerire cattedraticamente, con aria da professore, la chiave di lettura del mondo e della storia stilando la top ten dei libri da consigliare.
A libro aperto dice una cosa semplice: nel mutismo solipsistico di un mondo ingabbiato nella pseudocomunicazione del web, solo la parola/relazione ci salverà.
A libro aperto sembra insistere proprio su questo punto: la forza della parola. La vita è sempre una resistenza al gelo, scrive Recalcati parlando del libro di Rigoni Stern, Il sergente della neve.
Solo la parola, quella pensata, calibrata, ha il potere di sciogliere il gelo di un'umanità che, senza accorgersene, sta diventando sempre più anaffettiva.
Leggere vuol dire...
Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)
martedì 2 aprile 2019
mercoledì 27 febbraio 2019
THE WEIRD AND THE EERIE. Lo strano e l'inquietante nel mondo contemporaneo
Come in un triste sogno, piange di un pianto inconsapevole.
(F. Kafka, In galleria)
In principio fu Kafka. Nessuno come lui ha saputo tradurre il senso di angoscia e di impotenza di fronte all'assurdo che entra nella quotidianità e con cui l'essere umano è costretto costantemente a misurarsi, sperimentando la completa inadeguatezza delle proprie categorie conoscitive e interpretative rispetto a ciò che enigmaticamente lo sovrasta e inspiegabilmente lo schiaccia. Nella narrativa di Kafka il soggetto ha l'impressione di vivere un triste sogno, un incubo che rende terrificanti i giorni. Non resta che un pianto inconsapevole, espressione della totale incapacità di trovare una spiegazione alla rottura di ogni equilibrio: un'esperienza spaventosa e inquietante, ma vera. Gregor Samsa che si sveglia scarafaggio spera, certo, che si tratti di un brutto sogno, ma tutto congiura contro di lui. L'uomo-in(s)etto disperatamente constata ciò che la voce narrante subito conferma: non era un sogno. E non c'è niente da fare.
L'impotenza a spiegare l'assurdo che rompe quel fragile cielo di carta - direbbe Pirandello - delle certezze tradizionali (scientifiche, religiose, razionali) oggi ha nomi nuovi e più incisivi. Mark Fisher parla di weird and eerie, "strano e inquietante".
Attraverso un viaggio nella letteratura e nella musica contemporanee, Fisher ridefinisce e arricchisce di sfumature l'unheimlich freudiano che ha avuto in Kafka uno dei suoi migliori interpreti.
Attraverso un viaggio nella letteratura e nella musica contemporanee, Fisher ridefinisce e arricchisce di sfumature l'unheimlich freudiano che ha avuto in Kafka uno dei suoi migliori interpreti.
Vivere la dimensione del weird significa sentire che nella realtà in cui viviamo c'è qualcosa di inspiegabilmente stonato, fuori posto, non corretto. Si tratta della percezione di svuotamento di senso del mondo, destrutturato e privato di ogni "semantica fondativa", spiega nella postfazione Gianluca Didino. Vengono in mente le atmosfere grigie e sospese del paesaggio post apocalittico - carbonizzato e devastato - che, per esempio, Mc Carthy descrive nel romanzo La strada. È effetto del weird la serpeggiante e irreversibile sensazione di aridità esistenziale.
Prendendo, poi, le mosse dal racconto di Daphne du Maurier, Gli uccelli e dalla sua tanto magistrale quanto impressionante trasposizione cinematografica ad opera di Hitchcock, Fisher spiega il concetto di eerie: una disintegrazione progressiva delle certezze, il fallimento di ogni capacità di intervenire con efficacia costruttiva e trasformativa sul mondo circostante.
Viviamo in tempi strani e in un mondo reso strano dai tempi, scrive Didino alla fine del libro: surriscaldamento globale, incombenti dittature digitali, fake news che s'imprimono come verità e condizionano l'immaginario collettivo e i comportamenti delle persone, l'ombra immateriale eppure tirannica del capitalismo che dispoticamente dirige le nostre vite, sono il vero trauma del presente.
Se, tuttavia, nei testi di Kafka la dimensione allegorica è ancora preponderante - sebbene si tratti di allegoria vuota, come ha osservato W. Benjamin - nell'interpretazione di Fisher, sottolinea ancora Didino, weired e eerie sono l'attualizzazione sul piano del Reale del perturbante freudiano. Insomma, Fisher ci dice che è la stessa realtà ad essere ormai assurda, incredibile, innaturale al punto da sgretolare la nostra usuale nozione di mondo, vita, umanità.
Abbiamo visto in TV il crollo delle Twin Towers come se fosse stato un disaster movie e invece era storia; abbiamo visto circolare sul web video di attentati jihadisti e appelli di ostaggi catturati da Daesh e non era una fiction; siamo stati testimoni della vittoria elettorale di Trump dopo Obama ed è un fatto vero, non un triste sogno; abbiamo pianto per bambini naufragati e mai giunti sulle nostre coste, negate loro non dal destino, ma da umane follie e non era un film.
Distopicamente affidiamo le sorti del nostro Paese alle istintive reazioni di un manipolo di iscritti ad una piattaforma dal vago nome illuminista (Rousseau) che ambiguamente gioca tra il nobile principio di volontà generale e quello pilatesco di volontà popolare.
Questo è weird and eerie.
Fisher avverte che le distopie non si collocano più in un futuro lontano ed eventuale - forse pure affine al presente per certi versi, ma comunque di là da venire - come Orwell e Huxley credevano.
Ormai è la realtà quotidiana ad essere distopica. Non bisogna pensare, infatti, al perturbante come a qualcosa di vampiresco o soprannaturale: anche un buco nero, ci ricorda Fisher - è per noi strano, misterioso ed inquietante. E oggi (ma forse è stato sempre così) la storia sembra proprio un buco nero: reale, non sondabile, imprevedibile.
E, dunque, non c'è alternativa, non esiste una possibile exit strategy?
Fisher non lo spiega.
Eppure non possiamo arrenderci e normalizzare il nostro disagio di fronte a una simile realtà che, invece, tocca a noi riumanizzare.
Scriveva Brecht, acuto conoscitore di tempi inquietanti:
Se, tuttavia, nei testi di Kafka la dimensione allegorica è ancora preponderante - sebbene si tratti di allegoria vuota, come ha osservato W. Benjamin - nell'interpretazione di Fisher, sottolinea ancora Didino, weired e eerie sono l'attualizzazione sul piano del Reale del perturbante freudiano. Insomma, Fisher ci dice che è la stessa realtà ad essere ormai assurda, incredibile, innaturale al punto da sgretolare la nostra usuale nozione di mondo, vita, umanità.
Abbiamo visto in TV il crollo delle Twin Towers come se fosse stato un disaster movie e invece era storia; abbiamo visto circolare sul web video di attentati jihadisti e appelli di ostaggi catturati da Daesh e non era una fiction; siamo stati testimoni della vittoria elettorale di Trump dopo Obama ed è un fatto vero, non un triste sogno; abbiamo pianto per bambini naufragati e mai giunti sulle nostre coste, negate loro non dal destino, ma da umane follie e non era un film.
Distopicamente affidiamo le sorti del nostro Paese alle istintive reazioni di un manipolo di iscritti ad una piattaforma dal vago nome illuminista (Rousseau) che ambiguamente gioca tra il nobile principio di volontà generale e quello pilatesco di volontà popolare.
Questo è weird and eerie.
Fisher avverte che le distopie non si collocano più in un futuro lontano ed eventuale - forse pure affine al presente per certi versi, ma comunque di là da venire - come Orwell e Huxley credevano.
Ormai è la realtà quotidiana ad essere distopica. Non bisogna pensare, infatti, al perturbante come a qualcosa di vampiresco o soprannaturale: anche un buco nero, ci ricorda Fisher - è per noi strano, misterioso ed inquietante. E oggi (ma forse è stato sempre così) la storia sembra proprio un buco nero: reale, non sondabile, imprevedibile.
E, dunque, non c'è alternativa, non esiste una possibile exit strategy?
Fisher non lo spiega.
Eppure non possiamo arrenderci e normalizzare il nostro disagio di fronte a una simile realtà che, invece, tocca a noi riumanizzare.
Scriveva Brecht, acuto conoscitore di tempi inquietanti:
E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto ‘è naturale’ in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile”. (B. Brecht, L’eccezione e la regola)
giovedì 24 gennaio 2019
SOLO PAROLE, AMICA. Poesia inedita di Antonio Caione
Solo parole, Amica.
Niente
sguardi, niente strette di mano.
Niente
saluti, niente abbracci
di ritrovata nel tempo
anima
allora incrociata,
sfiorata
e perduta
nel gioco di vita tessuta
da
divinità ignota.
Solo orecchie, Amica.
Solo
orecchie ho io per te.
Per
ascoltare, leggendo,
parole
che dici scrivendo di te.
Non
ho fiori per i tuoi capelli,
non ho vino per le tue labbra.
Forse
musica ho io per te?
Solo
parole, solo silenzi,
parole
non dette,
ho
io per te, Amica mia.
Antonio Caione
Ut pictura poësis,
sosteneva Orazio. Eppure, scrivere della mancanza, rappresentare ciò che non
c’è e non c’è stato, rendere tangibile il desiderio, dare forma a una realtà
immateriale, significa forzare i mezzi linguistici, trasformare l’affermazione
in negazione. Plotino parlava di teologia negativa: è più facile dire ciò che
Dio non è, piuttosto che definire l’ineffabile. Questo principio, però, non
dovrebbe valere anche per i sentimenti. Loro non ci eccedono, ci abitano; d’altra
parte non sappiamo più definirli. O forse è lo spirito dei tempi che ci ha resi
disarmati rispetto ai nostri sentimenti. Nell’era del videor ergo sum, guardarsi dentro è difficile.
Solo
parole, Amica è un testo fondato interamente sul
senso della perdita e della dimensione residuale: la possibilità di ascolto che
pure Antonio Caione pare inizialmente lasciare aperta (solo parole, ho io per te …
solo orecchie ho io per te), si converte presto in occasione mancata, in incontro
negato. Restano parole non dette; la quadruplice anafora del niente (vv. 3-4) sottrae le attese di un contatto fisico ad ogni ipotesi di
concretezza; e la duplicazione del non
(vv. 14-15) ne è un’ulteriore conferma: prevale, nella selezione linguistica operata
dal poeta, la dimensione negativa, la più appropriata per spiegare il senso
della privazione. Anche la domanda introdotta dal dubitativo forse (v. 16), che pure sembrerebbe aprire un
varco alla speranza, si trasforma in rapida, amara frustrazione: le parole,
l’ascolto, la musica diventano
sostanze evanescenti e lasciano il posto a ciò che propriamente rimane, solo silenzi (v. 17).
Eppure la donna proprio
in virtù dell’assenza si accampa come protagonista dei versi; con la sua
fisicità non posseduta dal soggetto lirico, diventa il pensiero dominante. Di lei immaginiamo i capelli (v.14) e le labbra
(v.15) in una vaghezza petrarchesca che evoca e suggerisce: un’anima incrociata, sfiorata e perduta ha
inciso con forza impalpabile, ma incancellabile, la propria esistenza e la propria
permanenza nella memoria di chi scrive. La donna che fornisce all’autore il
pretesto per parlare d’altro, non è descritta nei suoi tratti plastici, ma è
proprio la sua evanescenza che dà corpo e forma agli stati interiori del poeta.
È impossibile non
riconoscere nel testo di Antonio Caione, la risonanza poetica della bellezza fuggitiva che Baudelaire
attribuisce alla protagonista del noto componimento A una passante.
La modernità disorienta, attesta l’incapacità di controllo sull’esistenza che si fa anarchica e sfugge rispetto ad ogni progettualità. Perciò l’incontro si smaterializza, lascia gli effetti di un’incontrollabile e sentita vis attractiva, ma non si attua. Il contatto mancato non è, però, un dato biografico e individuale: è la metafora di un’epoca. Questo è il non detto di A. Caione. Nel gioco di vita tessuta /da divinità ignota si situano la chiave di lettura e l’origine del rimpianto. L’arcano mistero della vita, una partita che l’uomo gioca a dadi con il destino, è uno scacco: circostanze, casualità, imprevisti, imponderabili incroci di ombre che si sfiorano e non comunicano, non possono essere decriptati. Siamo sopraffatti dall’esistente che come una valanga travolge corpi, emozioni, sentimenti, non abbiamo il tempo e l’attenzione necessari a riconoscere ciò che si agita nell’animo. Ci lasciamo sfuggire le emozioni, non sappiamo forse neanche più nominarle, scriviamo emoticon invece di poesie. È la modernità, appunto: percepire e non accorgersene.
Quello che resta da
fare ai poeti, tuttavia, è dare voce ai
silenzi, ritrovare nel tempo attimi
di una felicità mancata e chiamarli con il loro nome: desiderio.
In fondo è
dalla mancanza che nasce l’eros.
I versi sono polvere
chiusa
di un mio tormento
d’amore
(A. Merini, da La Terra Santa, 1984)
mercoledì 16 gennaio 2019
IL TRAMONTO DELLA REALTÀ
Sbagliava Platone a condannare le immagini: lui riteneva che
producessero effetti illusori e ingannevoli. La rivoluzione digitale ha,
invece, dimostrato il contrario: nel
mondo digitale tende a scomparire ogni differenza tra l’originale e la sua
copia, la realtà diventa più reale
della realtà, più vera del vero,
cioè “iperreale” e la sua
forza comunicativa si intensifica. Ne parla Vanni Codeluppi nel saggio Il tramonto della realtà. Come i media stanno
trasformando le nostre vite.
Che cosa accade se la vita reale si trasforma in un reality? Certo, ci sono senza dubbio
conseguenze se il reality show consente il facile successo di persone comuni e
l’interazione con gli spettatori a casa, sempre
più coinvolti nei programmi televisivi; ma, in fondo, questo è
semplicemente marketing neotelevisivo che ha tolto alla “paleotelevisione” la
sua antica funzione pedagogica, per usare espressioni care a Umberto Eco, lo
ricorda giustamente V. Codeluppi.
Piuttosto, c’è da chiedersi, che cosa succede
se la vita quotidiana diventa un reality
show, se la politica diventa spettacolo, con una trama, personaggi e spazi
d’azione, suspance, colpi di scena, e, infine, se persino la scuola si esibisce
in performance da postare sui social e sui siti web, sui media digitali? E,
soprattutto che cosa accade se questa dimensione costruita per la visibilità
diventa più reale, anzi, forse l’unica a cui la società dà credito?
Spettacolizzare, per esempio, l’arresto di un terrorista per
costruire una narrazione delle forze politiche al governo, agire con abiti di
scena – divise delle forze armate - che trasformano agli occhi di moltitudini
spaventate da una crisi che non passa più, un uomo politico in un supereroe
macchiettisticamente dannunziano, fa sì che lo storytelling lasci sedimentare un
preciso messaggio nell’opinione pubblica. E questo messaggio è tanto più
penetrante non solo se i canali di comunicazione sono molteplici (radio,
televisione, stampa, media digitali, social network), ma soprattutto se chi
recita la parte e il copione finisce col crederci, fino a considerare vero quello che ha
narrato, immedesimandosi perfettamente nel ruolo e facendo così coincidere il
personaggio con la persona.
Si tratta di un processo abbastanza fuorviante, piuttosto
pericoloso perché contamina vari ambiti della vita sociale.
Si pensi a ciò che avviene a scuola, il posto in cui
mandiamo i nostri figli perché diventino persone complete, colte, capaci di
affrontare la vita e le sue sfide.
E invece anche a scuola quello che conta non è ciò che si fa, ma la sua narrabilità. Siamo
assistendo, in vari campi, ad un lento, graduale, programmatico svuotamento di
senso, alla costruzione di una realtà deformata dalla trama narrativa che viene
costruita esattamente come nel mondo politico: chi governa cerca consenso, la
scuola vuole ottenere iscrizioni. Il punto fondamentale è che non è più
possibile fare a meno della trama narrativa. I dirigenti scolastici adoperano i
media come cassa di risonanza per la propria propaganda, esattamente come facevano
Alessandro Magno e Augusto per celebrare le proprie res gestae o, in tempi più recenti, i grandi Dittatori per
costruire l’ideologia del potere: amplificare la portata dei fatti attraverso
la loro narrabilità. Però, va ricordato, quelli citati non furono fulgidi
esempi di democrazia.
A scuola si opera perché tutto possa diventare esperienza
visibile, pubblicabile, “postabile”. I dirigenti scolastici travolti dal
vortice della competizione fra istituti ormai strutturati come aziende in
concorrenza, non puntano più sulla qualità delle conoscenze e delle proposte
culturali, ma solo alla narrabilità delle iniziative: un’attività conta per la
narrazione che se ne può dare e che possa tradursi in un quantum di iscrizioni, è merce di scambio. Perciò non sono affatto
importanti i libri che i docenti fanno leggere ai ragazzi, vale solo il fatto
che si possa dire, raccontare, che è in atto un reading in classe, perché l’elemento anglofono fa più effetto;
oppure l’idea conta solo nel momento in cui si decide di riabilitare quella
materia “inutile” come il latino per trovare un titolo stravagante all’idea,
non troppo appetibile in sé, di far leggere un libro in classe agli studenti: e
allora dare un nome straordinario, in latino,
- per esempio, verba … manent
- alle ordinarie ore di lettura, trasforma una cosa antica e sensata, ma dai
più giovani evitata - come appunto è la lettura - in un post, in un video che
amplifichi l’evento e trasformi l’ordinario in straordinario, la classe in
eccellenza, il docente in intellettuale carismatico e la scuola nell’Empireo
della novità, ergo, nella scuola “da scegliere”!
Licei che organizzano corsi di
addestramento per bagnini e velisti, angoli relax con tavolini da bar, scale
decorate con titoli variopinti di opere classiche e scientifiche sembrano dire
molto di più, spettacolarizzano, aggiungono l’effetto speciale ad una scuola
che se si limita a fare ciò per cui è nata (istruire, insegnare, formare) non
attrae “utenti”. Il punto è che chi costruisce la narrazione crede alla
finzione che ha inventato e l’immagine cattura, seduce, attrae più della sostanza:
si chiama “imagocrazia” (definizione che fa capo a Guerino Bovalino). Insomma, come scrive Marc Augé nel saggio La
guerra dei sogni, non è più la finzione che imita la realtà, ma la realtà che
riproduce la finzione. Si costruisce così una mitografia: quello che conta
è il nome … nomina nuda tenemus.
giovedì 10 gennaio 2019
SCRIVERE IL FUTURO
Del futuro gli antichi ci hanno insegnato a diffidare:
Orazio scriveva malinconicamente carpe
diem, quam minimum credula postero. In tempi recenti il futuro ci è stato presentato come un
incubo: M. Benasayag e G. Schmit, nel loro saggio L’epoca delle passioni tristi, hanno ben spiegato il passaggio dal futuro-promessa al futuro minaccia che segna ormai i nostri giorni, incombe sulle
nuove generazioni, spoglia il loro occhi dell’energia necessaria ad affrontare
il mondo, la vita.
Anche Bauman, in un suo breve saggio Scrivere il futuro, sviluppa questo argomento e non nega certo che
il carattere fondamentale del tempo attuale sia l’incertezza, una spiacevole
dimensione che precarizza il presente, rende nebuloso l’avvenire e circoscrive
il campo della soddisfazione alle “retrotopie”, cioè a un passato che non può
tornare. Bauman, anzi, precisa che l’errore più frequente che noi ingenuamente commettiamo è quello di
considerare l’incertezza come l’effetto di un nostro deficit di conoscenza. Invece, spiega il sociologo, è
proprio una questione ontologica: l’instabilità e la turbolenza sono sistemiche
e strutturali. Il nostro non è il mondo
dell’essere, è il mondo del divenire.
Può non piacerci, ma è così: siamo come matite che non possono reggersi sulla
punta e se anche ci riuscissero per qualche frazione di secondo, al primo colpo
di vento crollerebbero. Appare chiaro, dunque, perchè il futuro non abbia i tratti della vie en rose.
Bisogna rassegnarsi? No. Bauman non è affatto di questo
parere! Anzi, sottolinea il valore importantissimo dell’azione individuale
nella e sulla storia. De Gregori cantava la
storia siamo noi. E citando Havel, il grande eroe che riuscì ad abbattere il peggior bastione, uno dei più biechi
regimi, quello della Repubblica Ceca, il sociologo riporta una sua
riflessione e cioè che per prevedere il
futuro bisogna sapere quali canzoni una nazione ama cantare.
Ebbene, l’Italia oggi non canta più i testi di De Gregori,
Guccini, De Andrè. Canta e ascolta quelli di Sfera Ebbasta.
Forse dobbiamo ripartire da qui per rifare la storia e
costruire il futuro: impegnarci a scegliere canzoni migliori.
DI NUOVO SOLI. UN'ETICA IN CERCA DI CERTEZZE
A chi importa se l’uomo è degno del suo nome, se fa scelte morali, se nella vita lascia spazio ai sentimenti buoni? In che cosa risiede il fondamento dell’etica? Può essere lo stoico “vivi secondo natura”? Si situa in un orizzonte metafisico come le religioni rivelate insegnano? Oppure sta nella Legge, come gli Illuministi hanno spiegato?
Zygmunt Bauman, nel suo saggio Di nuovo soli , nota che viviamo in un’epoca di netta cesura tra ragione ed emozione e che il mondo oggi sembra aver deciso di soffocare, eradicare le passioni.
Ciò che conta è l’osservanza di codici etici che prescrivono l’obbedienza a regole precise di cui non si chiede affatto l’intima condivisione. Funzionano così la burocrazia e il mondo degli affari: capacità esecutive e razionalità procedurale devono assicurare che il sistema funzioni e forze centrifughe, erratiche, imprevedibili come le emozioni e i sentimenti non possono rischiare di far inceppare la macchina. I soli sentimenti ammessi sono la lealtà al sistema (società, azienda) e – nota Bauman – disponibilità a svolgere la propria mansione a prescindere dal contenuto del lavoro assegnato, come tanti piccoli Eichmann. Nel mondo degli affari il solo principio guida è la razionalità strumentale: i mezzi devono essere sfruttati in modo tale da ottenere il miglior risultato possibile: se la conseguenza è, per esempio, il danno ambientale, è un dato secondario; se “razionalizzare” significa il più delle volte licenziare persone diventate un “esubero”, dimenticando i loro meriti e la gratitudine per il lavoro compiuto, fa parte del gioco. Bauman conclude che la burocrazia soffoca gli impulsi morali e gli affari si limitano a metterli da parte: perché “funzioni”, il mondo degli affari ha bisogno di paraocchi che impediscano in eterno di vedere il volto umano.
Il punto è questo: “funzionare”. Noi cerchiamo ormai solo la perfezione, che è figlia del logos, aborriamo sbavature umane, temiamo l’imperfezione. Le città contemporanee sono ipertecnologiche, progettate dai migliori urbanisti, hanno abbattuto ogni possibilità d’inciampo, sono smart. Però sono brutte. Nella loro serialità (edifici uguali, aeroporti e stazioni uguali, ipermercati clonati) non hanno niente di umano: “funzionano”, sono razionali, perfette, ma brutte. Nessuna di loro è all’altezza di una sola piazza medievale di un borgo del Centro Italia.
Lo stesso discorso vale per i luoghi di lavoro: presentano delle chiarissime Carte dei Servizi, gli utenti sono consumatori o clienti da soddisfare, non hanno il rango di persone, e i dipendenti sono anelli di una catena: ognuno è responsabile del proprio comparto, settore, compito, in una frantumazione spersonalizzante che abbatte ogni relazione umana. Certo, il sistema “funziona”, è efficiente. Ma può dirsi umano?
Il mondo può anche “funzionare”. Ma non vive senza bellezza. Nella sua riflessione sull’equivalenza tra etica ed estetica, recentemente Vito Mancuso ha fatto riferimento al discorso di Trofimovič nei Demoni di Dostoevskij. Trofimovič sostiene che è accaduta soltanto una cosa: uno spostamento di scopi, la sostituzione di una bellezza con un’altra! Tutto il malinteso non è che nel dubbio se sia più bello Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio.
Ecco, oggi l’uomo ha fatto le sue scelte: ha preferito un paio di stivali, il petrolio. Semplice. Ha scelto un’umanità meno bella.
Certo, se il mondo in cui viviamo non ci piace e sentiamo intimamente che calpesta la nostra coscienza, resta la disobbedienza, con i rischi che comporta. Essere responsabili non significa seguire le regole: spesso può richiederci di ignorarle o di agire in modi che le regole non consentono, conclude Bauman.
Ma per essere disobbedienti bisogna aver ben chiaro, nella mente e nel cuore, un ideale bello di umanità, migliore di quello esistente.
domenica 6 gennaio 2019
21 LEZIONI PER IL XXI SECOLO
In un futuro non troppo lontano l’algoritmo ci “seppellirà” … metaforicamente, ma non troppo. È questa in buona sostanza la tesi del libro di Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo. E, in effetti, il controllo totale da parte degli algoritmi pare proprio un fenomeno inarrestabile. Del resto, indietro non si torna, si sa, né sarebbe consigliabile per molti aspetti a cominciare dalla medicina. Tuttavia c’è un rischio grave che dobbiamo prendere in considerazione: quando qualcuno avrà messo a punto la tecnologia per controllare abusivamente i sentimenti e per manipolarli, la politica democratica si trasformerà in un teatro di marionette emotive: la dittatura digitale sarà (oppure già è?) un processo per cui i politici al potere forse potranno anche fare le loro scelte tra opzioni differenti, ma tutte queste opzioni deriveranno dall’analisi dei Big Data e rifletteranno il modo in cui l’Intelligenza Artificiale vede il mondo, più che il modo in cui lo vedono gli uomini e le donne.
Non si tratta di auspicare un improponibile ritorno all’oscurantismo o di negare ciecamente gli indiscutibili vantaggi che la rivoluzione tecnologica ha prodotto; però, un dato è certo, non possiamo demandare agli algoritmi le scelte, le decisioni, sui nostri destini individuali e collettivi.
Certo non è facile trovare soluzioni all’altezza del problema, della complessità del mondo, soluzioni capaci di contrastare la seduzione che la tecnologia è in grado di esercitare con il suo fascino e con le sue promesse di felicità. La società è nel caos, non tiene il passo rispetto alle vorticose trasformazioni in atto: la scuola è ferma alle sue nozioni e informazioni di base (che invece Wikipedia, in molti casi, fornisce in maniera precisa e forse più completa); il lavoro richiederà presto competenze oggi imperscrutabili; adattamento e flessibilità saranno le nuove parole d’ordine, con la conseguenza – sottolinea con una certa preoccupazione Yuval Noah Harari – di una crescita esponenziale di malattie legate allo stress perenne che il lavoratore dovrà subire per fronteggiare la velocità del cambiamento e la riconfigurazione reiterata dei profili professionali. Questa sarà (è) la realtà. Chi non si adatta ai tratti di una società perfetta, ma disumana, è già fuori: è capitato a John il Selvaggio che ha deciso di impiccarsi nel Mondo nuovo di Huxley. Ma – molti obietteranno – è solo letteratura! Eppure, in tempi recenti, la sorte di David Foster Wallace e di Mark Fisher non è stata molto diversa. C’è chi con acutezza e sensibilità previsionale avverte e vive su di sé, dolorosamente, la distonia tra il proprio essere e il sistema. La tecnologia naturalmente non ha colpe. Nasce con un preciso obiettivo: “semplificare”. Tuttavia, a forza di semplificare si perdono tutte quelle sfumature che rendono umana la vita. Se odiare è più semplice che comprendere, se imporre è più semplice che spiegare, la conseguenza è chiara: saremo più violenti, meno comprensivi, i governi “semplificheranno” ogni iter fino ad abolire i dibattiti parlamentari, “correggeranno” la lentezza democratica e preferiranno l’efficienza dell’uomo solo (e forte) al comando, che attraverso accorti sondaggi sui social media potrà monitorare e manipolare a proprio vantaggio l’opinione pubblica.
Fuggire dal mondo, fuggire da se stessi? Ovviamente no.
La tecnologia non è cattiva. Se sapete che cosa volete nella vita, la tecnologia può aiutarvi a ottenerlo. Ma se non sapete che cosa volete nella vita, sarà fin troppo facile per la tecnologia dare forma alle vostre intenzioni al posto vostro e prendere il controllo sulla vostra vita. Il contrario della libertà è la schiavitù, ammonisce Yuval Noah Harari e se abdichiamo all’esercizio costante della nostra umanità lo slittamento dalla libertà alla schiavitù sarà un processo inevitabile.
Il rischio sta nell’uso che il prometeismo dell’Homo deus fa della tecnologia; sembra essersi realizzato il sogno baconiano delineato nel profetico libro La nuova Atlantide: allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo. Davvero è questa l’essenza della felicità? Realizzare ogni possibile obiettivo? Tutto ciò che si può fare, si deve fare? E poi, abbattuta ogni frontiera dell’esperibile, quale orizzonte resterà? Quale sarà il prezzo da pagare quando una possibile Intelligenza Artificiale programmata – supponiamo – per salvaguardare l’ecosistema dovrà dirigersi contro chi lo sta distruggendo, cioè, contro l’uomo? Certo, è uno scenario apocalittico: lo immagina Frank Schätzing nel suo ultimo libro, La tirannia della farfalla.
Per Yuval Noah Harari la risposta sembra essere una sola, rivoluzionaria pur nella sua semplicità: imparare a conoscere il proprio sistema operativo. Ciò significa, in altre parole, come disse qualcuno un po’ di anni fa, conosci te stesso. Se riusciremo a indagare chi siamo davvero, rimarremo umani, umanizzeremo la scienza e la tecnologia perché non si convertano nel loro contrario, in incoscienza. E per farlo dobbiamo imparare a vivere il nostro presente, conoscerlo bene, fino in fondo, guardarlo con occhi attenti e non ottenebrati da illusioni, narrazioni, false speranze di lontane felicità: il futuro si costruisce oggi. Marco Aurelio rivolgendosi all’uomo di ogni tempo, gli sussurrava: la verità è che tu non ti ami, altrimenti ameresti anche la tua natura.
Non si tratta di auspicare un improponibile ritorno all’oscurantismo o di negare ciecamente gli indiscutibili vantaggi che la rivoluzione tecnologica ha prodotto; però, un dato è certo, non possiamo demandare agli algoritmi le scelte, le decisioni, sui nostri destini individuali e collettivi.
Certo non è facile trovare soluzioni all’altezza del problema, della complessità del mondo, soluzioni capaci di contrastare la seduzione che la tecnologia è in grado di esercitare con il suo fascino e con le sue promesse di felicità. La società è nel caos, non tiene il passo rispetto alle vorticose trasformazioni in atto: la scuola è ferma alle sue nozioni e informazioni di base (che invece Wikipedia, in molti casi, fornisce in maniera precisa e forse più completa); il lavoro richiederà presto competenze oggi imperscrutabili; adattamento e flessibilità saranno le nuove parole d’ordine, con la conseguenza – sottolinea con una certa preoccupazione Yuval Noah Harari – di una crescita esponenziale di malattie legate allo stress perenne che il lavoratore dovrà subire per fronteggiare la velocità del cambiamento e la riconfigurazione reiterata dei profili professionali. Questa sarà (è) la realtà. Chi non si adatta ai tratti di una società perfetta, ma disumana, è già fuori: è capitato a John il Selvaggio che ha deciso di impiccarsi nel Mondo nuovo di Huxley. Ma – molti obietteranno – è solo letteratura! Eppure, in tempi recenti, la sorte di David Foster Wallace e di Mark Fisher non è stata molto diversa. C’è chi con acutezza e sensibilità previsionale avverte e vive su di sé, dolorosamente, la distonia tra il proprio essere e il sistema. La tecnologia naturalmente non ha colpe. Nasce con un preciso obiettivo: “semplificare”. Tuttavia, a forza di semplificare si perdono tutte quelle sfumature che rendono umana la vita. Se odiare è più semplice che comprendere, se imporre è più semplice che spiegare, la conseguenza è chiara: saremo più violenti, meno comprensivi, i governi “semplificheranno” ogni iter fino ad abolire i dibattiti parlamentari, “correggeranno” la lentezza democratica e preferiranno l’efficienza dell’uomo solo (e forte) al comando, che attraverso accorti sondaggi sui social media potrà monitorare e manipolare a proprio vantaggio l’opinione pubblica.
Fuggire dal mondo, fuggire da se stessi? Ovviamente no.
La tecnologia non è cattiva. Se sapete che cosa volete nella vita, la tecnologia può aiutarvi a ottenerlo. Ma se non sapete che cosa volete nella vita, sarà fin troppo facile per la tecnologia dare forma alle vostre intenzioni al posto vostro e prendere il controllo sulla vostra vita. Il contrario della libertà è la schiavitù, ammonisce Yuval Noah Harari e se abdichiamo all’esercizio costante della nostra umanità lo slittamento dalla libertà alla schiavitù sarà un processo inevitabile.
Il rischio sta nell’uso che il prometeismo dell’Homo deus fa della tecnologia; sembra essersi realizzato il sogno baconiano delineato nel profetico libro La nuova Atlantide: allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo. Davvero è questa l’essenza della felicità? Realizzare ogni possibile obiettivo? Tutto ciò che si può fare, si deve fare? E poi, abbattuta ogni frontiera dell’esperibile, quale orizzonte resterà? Quale sarà il prezzo da pagare quando una possibile Intelligenza Artificiale programmata – supponiamo – per salvaguardare l’ecosistema dovrà dirigersi contro chi lo sta distruggendo, cioè, contro l’uomo? Certo, è uno scenario apocalittico: lo immagina Frank Schätzing nel suo ultimo libro, La tirannia della farfalla.
Per Yuval Noah Harari la risposta sembra essere una sola, rivoluzionaria pur nella sua semplicità: imparare a conoscere il proprio sistema operativo. Ciò significa, in altre parole, come disse qualcuno un po’ di anni fa, conosci te stesso. Se riusciremo a indagare chi siamo davvero, rimarremo umani, umanizzeremo la scienza e la tecnologia perché non si convertano nel loro contrario, in incoscienza. E per farlo dobbiamo imparare a vivere il nostro presente, conoscerlo bene, fino in fondo, guardarlo con occhi attenti e non ottenebrati da illusioni, narrazioni, false speranze di lontane felicità: il futuro si costruisce oggi. Marco Aurelio rivolgendosi all’uomo di ogni tempo, gli sussurrava: la verità è che tu non ti ami, altrimenti ameresti anche la tua natura.
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