Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 18 aprile 2017

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO/ PERLE AI PORCI

Che cosa può mai unire Il sogno di un uomo ridicolo (1877) di Dostoevskij e Perle ai porci (1965) di Vonnegut?
A un primo sguardo nulla. Si tratta di due opere nate in  momenti storici diversi, scritte da autori che davvero non hanno niente in comune. Accostare questi due scritti sembrerebbe una forzatura.
Diverso è lo stile: accorato e visionario il racconto di Dostoevskij, ironico e paradossale il breve romanzo di Vonnegut.
Diversi sono i protagonisti: il personaggio dostoevskijano si autodefinisce un uomo semplicemente ridicolo e il lettore non conosce nessun aspetto della sua vita; invece di Eliot Rosewater si sa che è l’erede di un enorme patrimonio e che tutti, a cominciare dal padre, lo ritengono incapace di intendere e di volere. Egli, pertanto, viene giudicato inabile ad amministrare l’incommensurabile ricchezza di cui è titolare.
Certamente diverse sono le ambientazioni delle due vicende: un novembre cupo e piovoso fa da sfondo alle strade probabilmente pietroburghesi, forse le stesse del sognatore delle Notti bianche, e gli spazi intergalattici lontani dalla Terra e vicini alla stella Sirio, costituiscono lo scenario in cui l’uomo ridicolo ha la visione di un Eden che è l’esatta inversione delle dinamiche esistenziali terrene.
Perle ai porci, invece, si svolge in una piccola città dell’Indiana, da cui ha avuto origine la fortuna dei Rosewater. 
La città dei Rosewater, che da loro prende il nome, è il centro dell’azione di Eliot, stravagante presidente della Fondazione Rosewater, un uomo completamente in antitesi con l’individualismo americano, incarnato dal padre, il senatore Rosewater, fedele cultore del “Sistema della Libera Impresa”, quello in cui i veri nuotatori restano a galla, mentre quelli che vanno a fondo si sistemano da sé. Amen!
Eppure, nonostante questa evidente lontananza, i due scritti hanno molto in comune.
Cominciamo dai protagonisti: sono pazzi.
Nell’incipit del racconto dostoevskijano l’uomo ridicolo si presenta: Sono un uomo ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo.

Su Eliot Rosewater non ci sono affatto dubbi: la scena finale si svolge in una clinica psichiatrica.
Perché, a distanza di circa un secolo, Dostoeevskij e Vonnegut danno voce a personaggi pazzi? La risposta è semplice: come già Erasmo da Rotterdam chiariva a suo tempo, la follia è solo il modo di vedere le cose da una diversa prospettiva. I personaggi delle due opere in esame sono “diversi”: il loro modo di vedere il mondo e la realtà “diverge” dal senso comune.

L’uomo ridicolo, per quanto creda di essere completamente anestetizzato ai sentimenti, sebbene sia convinto che ormai nulla al mondo abbia importanza, al punto che niente sembra poterlo trattenere dal proposito del suicidio, improvvisamente è richiamato alla vita dal pianto disperato di una bambina. Lui prima la allontana da sé, poi, tornato a casa, ripensando a quella bambina prova un inusuale senso di pietà che lo distoglie dal suo progetto autodistruttivo.
L’uomo ridicolo capisce, allora, che qualcosa nella sua coscienza si muove e forse resta un sottile filo che lo lega al mondo e probabilmente proprio in quel mondo c’è ancora un posto per lui. Improvvisamente fa un sogno: si immagina morto, trasportato da un ignoto compagno di viaggio lontano dalla Terra. Insieme giungono in un regno felice,  incontaminato, fondato sull’amore fino all’arrivo dell’uomo ridicolo che contagia quell’Eden: a causa sua si diffondono la menzogna, la prepotenza, le discordie e le contese. Schiacciato dal senso di colpa egli vorrebbe uccidersi, ma nessuno lo capisce, tutti lo scambiano per un folle: in fondo quella gente ha ricevuto da lui solo ciò che desiderava, quella dose di egoismo che è diventato il presupposto, il motore dell’esistenza.
Al risveglio l’uomo ridicolo ha una certezza: ha conosciuto la Verità e vuole realizzarla, ha capito che tutto dipende da noi, dai nostri comportamenti. Sceglie di vivere, si rifiuta di credere che il male per gli uomini sia la normalità e decide, perciò, di far rinascere l’Eden che ha sperimentato, vuole restituire senso e vigore a una verità scomoda e sottovalutata: ama il prossimo tuo come te stesso. E diventa felice. Questo gli ha insegnato la bambina disperata: in noi c'è la compassione e, quindi, è possibile un’umanità diversa e la chiave di volta consiste nella capacità di amare e di distinguersi dai più in virtù della propria apertura all’amore.

Con una maggiore concretezza e prendendo le distanze dal sogno visionario dell’uomo ridicolo, Vonnegut racconta una storia simile.

Eliot si presenta definendosi molto vicino all’Amleto di Shakespeare, anzi si sente peggio di Amleto: è confuso più di lui. Amleto aveva almeno lo spettro del padre a suggerirgli cosa fare. Eliot sa di avere una missione importante da compiere, ma non ha un libretto di istruzioni da consultare! C’è una cosa che, però, lo disgusta con certezza: il fatto che il governo avrebbe dovuto dividere equamente le ricchezze del paese, invece di permettere che certa gente avesse più del necessario, mentre altri non avevano niente. È esattamente la stessa cosa che denunciava l’uomo ridicolo: nell’Eden contagiato dalla sua misera umanità,  ciò che fa degenerare l’armonia in caos è la lotta per la divisione, per il mio e il tuo, la divinizzazione del proprio infinito desiderio.
E come l’uomo ridicolo prende una decisione coraggiosa – decide di continuare a vivere per farsi testimone della legge dell’amore e dare in questa maniera il proprio contributo al mondo– così Eliot Rosewater attua un progetto eroico, dona tutti i sui averi ai bisognosi: voglio amare questi americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte. E non dona solo soldi, Eliot offre qualcosa di ancora più prezioso dei soldi: il suo tempo, la sua capacità di ascolto, la sua umanità. E quando il cinico avvocato  Norman Mushari cerca di farlo interdire per trasferire il controllo della Fondazione Rosewater ad un altro ramo della famiglia, con la speranza di trarre profitti dall’affare, prontamente Eliot reagisce con una trovata geniale e infinitamente generosa, scegliendo, invece, per sé, la via dell’essenzialità: Aveva una camicia sola. Aveva un vestito solo. Aveva un solo paio di scarpe.
Eliot è malato di utopia? Ama il prossimo tuo è una vecchia verità che non ha messo radici, come nota l’uomo ridicolo?
Forse. Certo è, però, che i protagonisti de due scritti appaiono pazzi, ma sono felici: in una società travolta dagli odi e dagli egoismi, loro scoprono la gioia, la gioia del donare se stessi, il proprio amore, i propri averi e questo li avvicina, nonostante gli anni di distanza.

Sì, niente uguaglia la gioia di donare

a coloro che sono più poveri,
e gaiamente, con liete mani
spargere ovunque i bei doni.

Sì, nessuna rosa è più bella
del volto dei beneficati,
quando ricolme, o gioia immensa,
si abbassano le loro mani.

Sì, nulla rende così sereno
dell’aiuto per tutti gli altri!
Se non rinuncio a quello che possiedo
nessuna gioia potrà darmi.
(Bertolt Brecht, Sulla gioia del dare, “Poesia e canzoni dalle opere teatrali”, in “Poesie”, Einaudi, 2014


RAYUELA. IL GIOCO DEL MONDO

Dicono che somigli all’Ulisse di Joyce. Invece Rayuela ha pathos. Leopold Bloom si perde nei meandri e nei labirinti della sua psiche, vaga nella sua Dublino, così come erra nel cerebralismo dei suoi pensieri. Horacio Oliveira, invece, ama, soffre, si interroga, dialoga, e parla al lettore. Joyce fa conto che non esista un lettore e costruisce un personaggio che vive solo del dettato automatico della sua psiche.
Cortázar plasma Oliveira dandogli un’anima pulsante. Noi lo capiamo quando dice: finisco sempre coll’alludere al centro senza la minima garanzia di sapere quel che dico, cedo al facile tranello della geometria con cui si pretende di far ordine nella nostra vita.
Cortázar comunica al lettore lo smarrimento umano del suo personaggio e il lettore sente l’incertezza di Oliveira, la vive con lui e la riconosce come sua.
Cercare un centro, avvertire l’insufficienza del Logos (pensiero e parola) nella storia è ciò che inchioda Oliveira al suo male di vivere: quel che non mi va giù è la mania delle spiegazioni, il Logos inteso esclusivamente come verbo. Intellettuale e amante, in entrambi i casi è imperfetto e incompiuto.
Cercare un centro, aspirare alla conquista di un’identità, tendere all’assoluto, forse, significa perdersi e smarrire per sempre anche il senso della bellezza. Quando la sua donna, detta la Maga, gli chiede che cos’è l’assoluto? Horacio le risponde che è il momento in cui qualcosa raggiunge il massimo della sua profondità, il massimo della sua portata, il massimo del suo significato, e smette completamente di essere interessante.
Oliveira avverte il peso di vivere in un mondo in cui si è sempre meno uomini, legati alle etichette di una società che definisce e che, definendo, svilisce. La società riduce la libertà a un gioco estetico o morale, la vita a una scacchiera in cui sei alfiere o cavallo. Questa è la libertà che si insegna nelle scuole, esattamente nelle scuole dove mai si è insegnato e mai s’insegnerà ai bambini il primo tempo di un ragtime e la prima frase di un blues… Emerge il rimpianto per la "vita", che non si situa mai nelle geometrie razionali; è forte il desiderio di terra, di cose vive. E le cose vive si vivono, non si indagano, non si esaminano. Non bisogna togliere loro il mistero che le anima. Anche nell’amore è così: c’è un gioco di nomi, in Rayuela, che lo chiarisce. La donna di Oliveira si chiama Lucia, ma vuole essere chiamata la Maga. Lucia evoca la luce: far troppa luce sulla realtà significa toglierle il mistero. L’uomo, con il suo Logos, di questo è colpevole: ha tolto l’incanto e la magia alle cose. Questo scontro di prospettive si chiarisce in un dialogo tra Horacio e la Maga che riflettono sui loro incontri senza appuntamento tra i labirinti delle strade di Parigi. Horacio  si abbandona all’analisi delle probabilità, la Maga alla bellezza del fato. E alla domanda di Oliveira: e se non ti avessi incontrato? prontamente la Maga risponde con un non so, comunque sei qui. Quello che conta è l’attimo di bellezza che rivela il volto dozzinale degli strumenti logici, degli interrogativi, dei perché e dei se.
Rayuela ha un sottotitolo emblematico: Il gioco del mondo. Non si può incasellare l’esistenza in uno schema precostituito fatto di convenzioni o di formule dal potere definitorio. Bisogna saper preservare la sua natura di “gioco”, di avventura, la sua irriducibilità a gabbie e regole che finirebbero solo con l’incapsularla in un grigio susseguirsi di giorni. Forse un centro non c’è. È perdente, quindi, la fatica di ridurre la vita e la realtà in termini di metodo. Perciò è nostro il grido di Horacio che chiede alla Maga, la implora: lasciami vedere un giorno come vedono i tuoi occhi.
La struttura del romanzo è sperimentale, è personale. L’autore stesso ne parla all’inizio dell’opera. Ma non è questo l’aspetto più alto del romanzo, ne è solo l’aspetto più insolito. Su tutto aleggia un senso di confuso smarrimento e di profonda solitudine: in fondo non esiste otherness … la vera alterià non poteva realizzarsi con un solo termine, alla mano tesa doveva corrispondere un’altra mano da fuori, dall’altro.

La vita mette alla prova: sospetti, dolori, incomprensioni soffocano i sentimenti, indeboliscono i desideri. Restano i ricordi e la certezza di incolmabili distanze, mancanze.

giovedì 19 gennaio 2017

IL DIO DEL MASSACRO

IL DIO DEL MASSACRO
Genitori e figli: finzione letteraria e realtà.

Hoc patrium est, potius consuefacere filium
sua sponte recte facere quam alieno metu.                  
 (Terenzio, Adelphoe, atto I, vv. 74-76)
Traduzione
“Questo è il compito  di un padre,  abituare il figlio ad agire rettamente per scelta autonoma, piuttosto   che per paura  di ricevere una punizione da altri.”

   Nel II secolo a. C. Terenzio pone una questione di stringente attualità: come vanno educati i ragazzi? Si tratta di un problema che assilla molto il commediografo latino, visto che lo affronta in numerose opere. Ne parla, però, in modo specifico in una commedia intitolata Adelphoe. Protagonisti della commedia sono, due fratelli, Demea e Micione che Terenzio ritrae alle prese con l’educazione dei figli, due intemperanti giovanotti: vogliono divertirsi, amare, ritirarsi tardi la notte, avere vestiti con cui far colpo… Terenzio è consapevole del fatto che non ci sono ricette assolute, perciò propone allo spettatore due modelli antitetici: Demea è fautore di metodi fondati sulla severità, sul valore dei famosi NO che aiutano i figli a crescere e ad affrontare la vita; Micione crede, invece, nella forza del dialogo: si sbaglia di grosso, secondo me, chi crede che l’autorità imposta con la forza sia più efficace e più sicura di quella che si conquista con l’affetto. (Adelphoe, atto I, vv.65-67).
   Naturalmente Terenzio scrive commedie e l’happy end è assicurato. Alla fine, infatti, trionfa l’amore, gli affetti non sono messi in discussione, gli equilibri sono ristabiliti; i figli restano figli, i genitori sono sempre i genitori. C’è un confine ben netto che marca la giusta distanza tra i ruoli. E anche se Terenzio resta affascinato dall’humanitas di Micione, in conclusione lascia la parola a Demea, che afferma, dunque, rivolto ai ragazzi vivaci e ribelli: ci sono cose che per la vostra giovinezza voi vedete di meno, desiderate con troppo ardore e non sapete valutare abbastanza: se volete che io vi ammonisca e vi corregga e ceda solo quando è opportuno, eccomi, sono a vostra disposizione.(Adelphoe, atto V, vv 92-95).
   Terenzio lascia emergere la nobiltà della funzione dei genitori che non rivendicano l’autorità del padre-padrone, ma ammoniscono e correggono, per il bene dei figli. Demea, infatti, dice: sono a vostra disposizione. L’obiettivo di un genitore è aiutare i figli nel duro compito di costruire la vita, darle forma .
 Da Terenzio ai giorni nostri l’idea non è cambiata. Educare significa, infatti, guidare, testimoniare con l’esempio come vanno affrontate le vicende della vita: le sfide con coraggio, il successo con senso della misura e i fallimenti come esperienze inevitabili da cui imparare a risollevarsi. Essere genitori vuol dire insegnare ai figli a raggiungere la giusta distanza dal turbinio dell’esistenza senza, però, mai mettere da parte la forza dei sentimenti. Kipling spiega bene questo concetto nella nota poesia If
   Una cosa è chiara: al di là dell’opposizione fra i metodi contrastanti, Demea e Micione sono accomunati dal medesimo spirito: hanno a cuore i loro figli, tanto da interrogarsi sulla validità dei metodi che adottano per educarli. 
   E oggi?
  Stando al recente delitto commesso da due minorenni  a Ferrara – dove uno dei due ha materialmente ammazzato  a colpi d’ascia i genitori dell’altro, il quale ha, però, commissionato il crimine – qualche ingranaggio deve essersi inceppato nel complesso meccanismo che regola i rapporti e la comunicazione tra genitori e figli. C’è stato il ’68. È stato annullato il principio d’autorità che, pure, aveva mietuto innumerevoli vittime. Il testo L’epoca delle passioni tristifornisce un efficace esame della situazione contemporanea. Oggi gli adulti si rivolgono ai giovani seducendoli, a scuola con tecnologie innovative ed effetti speciali, in famiglia mostrando spesso atteggiamenti amichevoli o, addirittura, complici: relazioni di simmetria tra soggetti che, però, simmetrici non sono, per età e ruoli sociali. E se seduzione e complicità falliscono, non rimane altra via d’uscita che quella di ricorrere alla coercizione. Paradossalmente, alla crisi del principio di autorità – crollato dopo le contestazioni giovanili sessantottine - non corrisponde affatto una messa in discussione dell’autoritarismo. Anzi, proprio questa crisi apre la strada a varie forme di autoritarismo. Una società in cui i meccanismi di autorità sono indeboliti, lungi dall’inaugurare un’epoca di libertà, entra in un periodo di arbitrarietà e di confusione. E quando un giovane chiede “Perché devo ubbidirti?” molti adulti sono incapaci di rispondere chiaramente: “Perché sono tuo padre …”. Se il giovane non è sedotto o dominato, non vede nessun motivo di ubbidire a questo suo simile che pretende di meritare rispetto. In nome di cosa, di quale principio? (1)
   E sebbene Recalcati abbia rilanciato la figura leggendaria di Telemaco (2) che aspetta, senza mollare mai, il ritorno di Ulisse per ristabilire con il padre quel rapporto che gli è mancato, a quanto pare Edipo non è stato completamente dimenticato.
   Lo scenario ferrarese dell’efferato omicidio vede un ragazzo stringere un foedus sceleris con un coetaneo perché quest’ultimo commetta l’omicidio che lui non ha il coraggio di compiere, ma che desidera fortemente: odia i genitori e li vuol vedere morti. 
   Questo evento è però l’anello finale di una complicata relazione che investe non solo il microcosmo familiare, ma l’intero contesto sociale, storico, culturale.
La letteratura contemporanea se ne è occupata, entrando nei meandri della complessa relazione genitori-figli.
Il titolo più eloquente e oggi tristemente attuale, è quello della pièce teatrale scritta nel 2007 da Yasmina Reza, Il dio del massacro.

Tuttavia già  nel 1928 Irène Némirovsky fa luce sulle controverse dinamiche familiari
 e trasferisce su Antoinette, la giovane protagonista del suo romanzo Il ballo, i sentimenti che lei ha sempre provato per la madre: inimicizia, rivalità, ostilità appaiono  le parole più proprie per definire un abisso di separazione affettiva.
  Antoinette avverte la distanza dei genitori, impegnati in modo ossessivo a lasciarsi alle spalle un passato anonimo e a tentare di affermarsi nella società che conta.
   Fa da contraltare al loro arrivismo il totale formalismo nel rapporto con la figlia che
cresce come un’estranea, come un peso. Antoinette ne ha la lampante dimostrazione quando le viene inspiegabilmente vietato di partecipare al ballo che la madre, Rosine, sta preparando. Per stroncare ogni richiesta della figlia, Rosine giustifica il suo divieto dicendo comincio soltanto adesso a vivere io. Antoinette capisce ora chiaramente di essere un ostacolo alla fame di vita della madre. Comincia a odiare i genitori. Sogna la vendetta. E la attua.
   Le conseguenze non sono atroci né violente neppure macabre, ma, certo, risultano destabilizzanti. Abilmente, però, la Némirovsky prepara un finale a sorpresa: quella che poteva essere una rottura tragica pare definirsi come possibilità aperta.

   La irrisolta questione educativa è anche al centro di una commedia di Yasmina RezaIl dio del massacro (2007).
   Due coppie si incontrano per discutere dei rispettivi figli che si sono picchiati. Non si conoscono le ragioni del litigio. Durante la conversazione dei quattro genitori, diventa sempre più marginale il motivo oggettivo della loro riunione, cioè, la rissa tra i figli.
   Ciascuna coppia, infatti, scopre di vivere in modo evanescente il proprio rapporto coniugale: mogli e mariti tra loro sono estranei e si accorgono che, per gli impegni professionali, sociali, non conoscono affatto i loro figli.
   L’incontro che doveva essere chiarificatore finisce nella più pesante incomunicabilità: un vero massacro  delle relazioni umane.
  Yasmina Reza dimostra che nei rapporti tra ragazzi, tra adulti, ci si sente  nemici: non si sa perché, ma ci si aggredisce. Del resto uno dei quattro protagonisti, Alain, lo dichiara apertis verbis: io credo nel dio del massacro. È il solo che governa, in modo assoluto, fin dalla notte dei tempi.  Questo rende inutile ogni tentativo di procedere ragionevolmente verso la costruzione di un dialogo umanamente – non solo legalmente -  risolutivo.
   Eppure, nonostante i loro maldestri comportamenti, questi genitori sono animati da buone intenzioni, si sforzano di arrivare a una conciliazione. Certo, si scoprono deboli, inadeguati, prima come coniugi e poi come educatori. Ma provano a interrogarsi. Ne è una dimostrazione il fatto che la commedia si chiude con una domanda. Poi cala il sipario.

   Risulta, invece, più inquietante la lettura delle dinamiche familiari che fornisce l’olandese H. Koch nel romanzo La cena (2009).
  Anche in questo caso due coppie apparentemente stabili e felici si incontrano in un lussuoso ristorante: chiacchiere, banalità, il lavoro, i figli.
   Improvvisamente, vite tranquille vengono sconvolte da un evento di efferata, incomprensibile, violenza: al ritorno da una festa, due sedicenni, proprio i figli delle due coppie a cena, ragazzi, cioè, di “buona famiglia”, ammazzano una barbona e le danno fuoco. Le immagini riprese dalla videocamera della cabina di un bancomat vengono trasmesse in TV e fanno il giro del web. 
   Alla violenza non c’è mai un perché. Ma in questo caso l’interrogativo è davvero inquietante.
    C’è un crescendo in termini di gravità delle azioni fino ad ora esaminate.
   Antoinette nel romanzo della Némirovsky odia i genitori: ferisce, ma la sua vendetta non è fisicamente violenta.
    Gli adolescenti nella commedia di Yasmina Reza sono sì aggressivi e rissosi, ma tutto resta nell’ambito dei litigi tra adolescenti non ancora in grado di misurare il rapporto tra emozioni e azioni. Siamo nel campo dei conflitti relazionali ai quali è, comunque, possibile trovare delle spiegazioni e delle soluzioni.
   I ragazzi delineati da H. Koch, invece, sono fuori controllo. La loro violenza si traduce in omicidio.
   E a questo punto a grandi passi usciamo dalla finzione letteraria e entriamo nella realtà.

   Manuel e Riccardo, nella casa dell’orrore a Ferrara, hanno dato un nome più specifico all’omicidio commesso dall’uno e commissionato dall’altro: si tratta di matricidio e parricidio.
    Vittorino Andreoli spiega che oggi questo può avvenire perché la morte ha perso pathos: i giovani abituati alla violenza dei videogames ormai credono che ammazzare sia una partita da vincere. La confusione tra virtuale e reale fa perdere consistenza persino ai legami di sangue. Questo è il fatto oggettivo: contro ogni tabù e ogni ancestrale remora, i giovani ferraresi hanno deciso di dare la morte a chi dà la vita.
   Ma dare la vita non basta. Bisogna dare forma alla vita. E spesso i genitori non ce la fanno da soli. In una società completamente proiettata verso il profitto, lavorare e guadagnare – soprattutto in tempi di crisi come quelli in cui noi oggi viviamo o cerchiamo di sopravvivere – sono imperativi categorici. E il lavoro è diventato una dimensione invasiva, assorbe energie, sottrae tempo alla vita familiare.
  Perciò andrebbe riattivata quella rete che Bauman chiamava communitas (3), un luogo che si allarga dalla famiglia al vicinato, al quartiere, alla città, fatto di aiuto solidale e concreto, di vicinanza fisica, affettiva, amicale. Purtroppo fagocitata dai social network, l’idea stessa di communitas è andata in frantumi, sostituita da legami virtuali.
   Ne deriva un nuovo impegno collettivo. Nel nobile e necessario compito di ricostruzione della communitas - soprattutto come comunità educante - siamo coinvolti tutti, non solo in qualità di genitori, ma anche come insegnanti, amici, conoscenti, cittadini di una stessa patria, uomini e donne,  persone che appartengono ad una medesima stirpe, quella umana. L’educazione è un processo infinito e ci riguarda tutti.
 Resta, dunque, interessante la diatriba tra Demea e Micione negli Adelphoe. Severità (non autoritarismo) e dolcezza (non complice “lasciar fare”) sono false alternative, vanno calibrate: in medio stat virtus.
   Il vero punto focale – e Terenzio stesso lo fa capire – è tutto in quel sua sponte recte facere: l’educazione consiste nel saper insegnare ad agire rettamente per scelta autonoma.
1 – M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 2003
2 - M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, 2013
3 - Z. Bauman Communitas, 2013

domenica 15 gennaio 2017

CROCE SENZA AMORE

HEINRICH BÖLL, CROCE SENZA AMORE

  Heinrich Böll, convinto antinazista, attribuì alla scrittura l’alta funzione critica contro ogni conformismo e accettazione passiva del potere e dei suoi abusi. Vinse il premio Nobel per la Letteratura nel 1972. Anche se di formazione cattolica, rinnegò il cattolicesimo ufficiale, a causa dell’ipocrisia della Chiesa tedesca. Attraversato, tuttavia, da un profondo senso del divino e attratto dalla radicalità rivoluzionaria del messaggio evangelico, conservò sempre un impeto religioso, libero, ribelle, antigerarchico.
  Croce senza amore è la denuncia di un sacrificio inutile: quello di tanti giovani tedeschi costretti alla guerra, irretiti dalle  promesse di un capo demoniaco, spossessati dei loro sogni, indotti a credere in un progetto collettivo, quello di un pangermanesimo violento, da cui la Chiesa non prese mai effettivamente le distanze: il colpo più terribile fu vedere preti in uniforme da ufficiali, curati e terribilmente cristiani, che portavano come distintivo la croce diabolicamente rovesciata accanto alla croce di Gesù Cristo; sì, li vedeva recitare la santa messa, ascoltare la confessione e tenere prediche insulse sull’adempimento del dovere.
  Queste sono le riflessioni di Christoph Bachem che vede nel nazismo la notte della storia, la negazione più profonda del sacrificio di Cristo, tradito da un’umanità sedotta dalla potenza mefistofelica di un capo, di un partito: comprese che la quotidiana ripetizione, a tutte le ore, del sacrificio di Gesù nel mondo è anche una ripetizione del suo dolore, e che da qualche parte nel mondo anche Giuda è ogni giorno davanti all’altare e precipita Cristo nel sanguinoso abisso del tradimento.   Böll analizza il nazismo non dalla parte delle vittime storiche (gli ebrei, i detenuti dei lager), bensì dalla prospettiva di un altro tipo di vittime: i giovani tedeschi, come Christoph, dotati di coscienza critica e costretti alla leva forzata, alla guerra decisa dall’abiezione del potere, al sacrificio di ogni desiderio, alla presa d’atto della fine di ogni possibilità di pace.
  Sono vittime anche i giovani come Hans Bachem, fratello di Christoph. Hans incarna il prototipo dei ragazzi affascinati ingenuamente dal progetto satanico di Hitler, dalla divinizzazione dell’idea di Patria, dall’idolatria del capo carismatico e delle sue promesse palingenetiche, dalla sacralizzazione dell’idea di Stato, percepito come un ente che non tiene in mano la spada per ornamento e che, dunque, deve proteggere il suo diritto col sangue.
  Hans crede nell’equazione Stato = forza impositiva e coercitiva, è certo del valore assoluto della Legge, ignora il principio - che già Antigone aveva insegnato – della disubbidienza civile. E alle osservazioni coraggiose che gli rivolge Joseph, il giovane amico dissidente – quello che proprio lui farà arrestare e consegnerà ai gerarchi nazisti – Hans sente aprirsi una ferita nel cuore, avverte la lacerazione del dubbio, che però reprime sotto l’impeto della forza seduttiva e trascinatrice delle nuove idee; soffoca le latenti incertezze perché le leggi hitleriane gli appaiono risolutive e considera necessari anche il potere persecutorio e l’autorità malvagia che lo stato nazista esercita.      Joseph con acutezza fa fare ad Hans un passo indietro nella storia e gli ricorda che persino Cristo fu ucciso dallo Stato in nome della cosiddetta legge. Böll insiste su questo concetto: Gesù Cristo è stato crocifisso come vittima di quella che agli occhi di tutti era formalmente giustizia e fu giudicato secondo tutte le regole del gioco della giurisdizione. Joseph, dunque, pone una questione attualissima: la consapevolezza che non tutte le leggi sono giuste deve generare il coraggio del rifiuto. E, coerentemente, Joseph oppone al Reich il suo rifiuto. Paga con la deportazione e con la prigionia, ma salva l'onore e la dignità.
  L’accusa di Böll non è tanto verso l’ingenuità di molti che come Hans caddero vittime della retorica nazista.
  La condanna dell’autore è per una Chiesa che ha predicato il valore della croce disgiungendolo da quello dell’amore, facendosi, così, complice di una follia omicida, spacciata come ideologia politica da assassini dello spirito. Si tratta di una Chiesa che, in questo modo, tradisce il suo mandato, che supera Giuda, che non “vende” Dio, ma addirittura lo elude.
  Per Böll non è tanto esecrabile il rapimento intellettuale cui giovani come Hans non vollero, non seppero opporre solide difese. Secondo Böll è pericolosa la disperata inquietudine che ciclicamente s’impossessa degli animi umani e che durante il nazismo fu lasciata a se stessa da parte di chi, invece, avrebbe potuto esercitare il proprio mandato spirituale per curarla. Anzi, peggio, fu addirittura, strumentalizzata, regolata e irreggimentata nella “Gioventù hitleriana”, da parte di un movimento politico destinato a diventare un regime.
  L’accusa di Böll si rivolge ai falsi profeti, seduttori indegni di giovani cuori delusi, serpeggianti e insinuanti corruttori politici che portarono molti ragazzi a credere in una mistica della distruzione, illusoria e ingannevole àncora di salvezza dal vuoto, dal grigiore di esistenze anonime: Hans voleva una linea che procedesse forte e dritta verso l’alto … ma cos’era l’alto? Già, la madre e Chrisoph, per loro la religione era una fiamma luminosa che si leva verso l’alto … ma a lui sembrava che quella strada sfiorasse le esigenze della realtà senza toccarle; le parole croce e sacrificio dovevano avere anche un senso terreno, dovevano essere incluse nel circolo ardente dell’azione; sì, lui voleva vivere di azione. Nessuno, nessuno aveva saputo aiutare il popolo, nessuna comunità religiosa, nessun imperatore … e se ora d’un tratto lo stato otteneva la piena autorità e la assoggettava a una grande opera, voleva esserci anche lui.
  La colpa, certamente, non è dei giovani idealisti febbricitanti d’azione né si situa nel loro bisogno di credere; sta, piuttosto, nei fabbricatori di falsi sogni (Hitler) e nell’incapacità di una secolare istituzione religiosa di rispondere alle esigenze della realtà (cattolicesimo tedesco, Chiesa).
  L’uomo non ha bisogno di dogmi o di verità teologiche astratte, l’uomo vuole trovare un senso terreno, una ragione forte alla sua esistenza, alla sua presenza nel mondo. Se queste istanze vengono deluse, se si lascia spazio all’inquietudine, alla disperazione – sembra dire Böll – vince lo storytelling più accattivante, che, presentato secondo le categorie della Legge, della Giustizia, della Verità, non può che affermarsi.
  Per questo Böll non condanna Hans e i suoi errori: alla fine del romanzo gli restituisce, anzi, dignità, rendendolo autore di un coraggioso atto, un sacrificio eroico che abbina all’idea della croce, quella dell’amore.
  Non c’è redenzione, non c’è assoluzione, invece, per gli allegri babbei che negano la povertà e la miseria, i cui occhi sono velati dal muco disgustoso della mediocrità che nasconde loro il reale: un ceto politico incapace, assetato solo di potere; un corpo religioso distratto e colluso; uno Stato che produce leggi lontane dal senso umano dell’esistenza; una Chiesa senza amore, ma che pure predica la croce: una morale del sacrificio che rende le masse assuefatte all’ubbidienza e le conduce alla distruzione, un’etica della rassegnazione che azzera ogni impeto alla rivoluzione.
  Ubbidienza, rassegnazione: in nome di che cosa?
  In un saggio Böll scrisse: l’evoluzione della società occidentale è improntata da due gerarchie, che ci dominano: lo Stato e la Chiesa, che collaborano sempre molto bene insieme, anche quando eventualmente si combattono, perché naturalmente la subordinazione e l’assoggettamento a questa o a quella gerarchia, serve talora all’altra. Non capiterà mai che, ad esempio, in Germania un qualsiasi partito prenda delle misure serie, critiche o fin aggressive nei confronti di qualsiasi Chiesa. Le Chiese servono ancor oggi da istituzioni addomesticatrici, cosa che a uno Stato può far sempre molto comodo. (1)
  Croce senza amore è un romanzo-denuncia che affronta problemi attuali.
  Se il vuoto esistenziale non viene colmato da risposte all’altezza dell’essere umano, si apre la strada alle pseudo-risposte, alle narrazioni seduttive, che, appunto, seducono e non rispondono. Ma possono improvvisamente trasformare il mondo in una massa sottomessa. Afferma ancora Böll, rispondendo ad un suo intervistatore: la cosa più tremenda che io conosca è la sottomissione, la sudditanza oppure il desiderio di sottomettersi incondizionatamente, questo fare come gli altri, correre con gli altri, cantare con gli altri, marciare con gli altri.
Vorrei soltanto additare le premesse esistenziali, diciamo, per cui sorgono sottomissione e subordinazione. Non c’è bisogno di discutere sugli orrori della guerra, ma la medesima tirannia, ordinata gerarchicamente, lei può trovarla in una scuola, in una parrocchia, sempre là dove sorgono ordinamenti gerarchici, dove si creano dei superiori. L’autorità superiore crea una tale sorta di orrori, crea sottomissione e tirannia. Anche nella vita civile, anche in tempo di pace.(2)
  Croce senza amore non è solo un libro sull’affermazione del nazismo, è una lucida analisi dei processi che conducono alla nascita delle dittature: processi graduali e semplici, che partono dalla apparente normalità delle vite. Ma proprio lì, nel cuore di quella apparente normalità, segretamente pulsano frustrazioni, inquietudini, delusioni pronte ad essere intercettate da chi avrà interesse a sfruttarle.

1 – H. Böll, Une mémoire allemande, 1978
2 – H. Böll, op. cit.

mercoledì 4 gennaio 2017

BARTLEBY LO SCRIVANO


Bartleby, lo scrivano nato dalla fantasia di Melville, è un mistero, un enigma.
La sua storia si svolge nel cuore pulsante del centro economico d’America, Wall Street. Viene assunto come copista in uno studio legale da un avvocato abbastanza venale, un uomo abituato a comandare con l’attesa, peraltro, di ottenere immediata obbedienza.
H. Melville
Ebbene, con Bartleby si trova di fronte a un muro: ogni sua richiesta rimane sospesa nel vuoto. Bartleby non oppone una netta e rivoluzionaria insubordinazione, il suo è un rifiuto assoluto espresso sottoforma di “preferenza” indefinita e indeterminata. La formula inglese I would prefer not to lascia aperta ogni possibilità; l’espressione conclusiva NOT TO lascia nel vago ciò che Bartleby rifiuta e rende vano ogni tentativo di ridurre alla ragionevolezza il suo incomprensibile comportamento.

C’è, però, una cosa che Bartleby fa con inspiegabile costanza, quasi con insistenza: da una finestra fissa un muro grigio al di fuori dell’ufficio dell’avvocato. Il copista finisce in carcere perché, dopo il trasferimento del suo datore di lavoro presso un altro studio, lui continua ad occupare il vecchio appartamento e i nuovi inquilini che lo hanno acquistato non possono fare altro che affidare questo stravagante uomo all’autorità giudiziaria. L’avvocato dopo aver tentato invano di trovare una dignitosa soluzione alla randagia vita del suo dipendente, va a trovarlo in prigione, dove Bartleby si sta lasciando morire di inedia e gli chiude, con un gesto di pietà, gli occhi quando ormai il copista cessa di vivere, accasciato sul muro del cortile del livido carcere di Tombe. L’avvocato aggiunge una nota a questo triste finale: prima di fare il copista, Bartleby aveva lavorato in un ufficio postale di lettere smarrite.
Che cosa Melville volesse dimostrare con questo strano racconto, non è chiaro. Ci sono, però, alcuni dati che non si possono trascurare: il muro che Bartleby guarda con interesse e le lettere smarrite. Se non avessero senso, Melville non ne avrebbe fatto menzione. Il  muro evoca da sempre l’immagine di un barriera invalicabile che rappresenta un limite tra noi e il resto del mondo. Il muro è quello che c’è tra Bartleby e il resto del mondo: il muro è il rifiuto di Bartleby, è il suo NO all’efficientismo, all’economicismo, all’affarismo del mondo borghese;  il muro è anche quello che il mondo borghese erige per tagliare fuori quelli che non si adattano, gli scarti di una società darwinisticamente organizzata.
In un simile sistema Bartleby è un uomo senza ruolo, senza posto, senza identità: è una lettera smarrita, una fra tante anonime lettere perdute di cui nessuno sa nulla e senza le quali la vita di tutti va avanti comunque.

Un libro pessimista? Certo, si conclude tragicamente, con la morte del protagonista.
Eppure, la stravagante rivoluzione non violenta dell’I would prefer no to ha prodotto un effetto straordinario e inimmaginabile. Bartleby ha compiuto un miracolo. Forse è stato necessario il suo sacrificio, ma Bartleby ha vinto: è riuscito a trasformare l’avvocato in un essere umano, ha cambiato il profilo di un arido professionista, chiuso nel microcosmo della sua lucrosa attività, in quello di un uomo generoso e altruista; ha costretto l’avvocato a fare i conti con l’alterità, a spostare la prospettiva da un egotico cosmo al rapporto con l’altro, alla cura per l’altro, alla preoccupazione per l’altro. E nel mondo competitivo di Wall Street – metafora della società occidentale industrializzata – questo è un prodigio che fa di Bartleby un eroe!

domenica 4 dicembre 2016

L'ARTE DELLA VITA



Bauman pone in epigrafe al suo saggio, L’arte della vita, una frase di Seneca, tratta dal “De vita beata”: tutti vogliono vivere felici, ma hanno l’occhio confuso quando devono discernere ciò che rende felice la vita. Seneca sapeva che  rendere felice l’esistenza umana è un’impresa difficile. E oggi non sembra che le cose siano molto cambiate: questo è il senso  del libro di Bauman. Il denaro non dà la felicità; quello che compriamo nei negozi non dà la felicità; la libertà è sempre un atto di responsabilità, una costrizione a operare una scelta e scegliere significa sempre rinunciare a qualcosa: questo non dà la felicità; l’amore e il desiderio si concentrano sempre su qualcosa che ancora non è, i loro oggetti sono tutti nel futuro … inaccessibile ai sensi e non indagabile da parte della ragione.

Va notato, inoltre, che una parte consistente della nostra vita – e, dunque, della nostra ricerca della felicità - si svolge nel mondo del lavoro, di cui Bauman fornisce un’analisi amara. L’idea di dare ordine alla vita, di organizzarla, vuol dire considerare il caos un male da sconfiggere. Quindi, ogni forma di management orientato al controllo del disordine è sempre stato considerato un paradigma vincente. Tuttavia la storia dell’economia sembra dimostrare che il managerialismo è un modello verticistico che favorisce solo chi è al potere e schiaccia i dipendenti, trasformando le fabbriche in giganteschi ingranaggi nei quali gli operai sono ridotti a mere estensioni dei nastri trasportatori. Oggi, in verità, il mondo delle imprese tende verso organizzazioni che danno più spazio agli aspetti vitali dell’esperienza, valorizzando l’immediatezza, la soggettività, lo spirito ludico. Ne derivano apparenti crescite in termini di libertà, creatività, forme di autogestione e di autoaffermazione nei processi di lavoro, che renderebbero i dipendenti più autonomi e più soddisfatti nel vedere umanizzata la loro attività. Va, però, considerato il fatto che nell’era dei telefoni cellulari e dei computer portatili tale condizione di libertà è solo, come si è detto, apparente: non ci sono più attenuanti per la propria irreperibilità. Essere costantemente agli ordini dei propri capi, familiari, amici, non è più solo una possibilità, ma un dovere, anzi, una spinta interiore. Si arriva a un paradosso: ora che i dipendenti sono più autonomi e si autogestiscono, molte aree del loro sé, della loro dimensione privata e personale, si aprono allo sfruttamento. La nuova organizzazione più democratica del lavoro, nei fatti è, invece, pronta a divorare tempo, energie, emozioni dei dipendenti, ai quali si arriva a chiedere -  o, meglio, essi stessi sentono quasi l’obbligo di dare – un’appassionata dedizione, sollecitata da uno stato di allarme e di emergenza artificialmente montato per accrescere la performatività di coloro che fanno parte del sistema-azienda.
Il dipendente ha la percezione che la strategia delle nuove organizzazioni d’impresa sia il “codice dell’amore”: non contano più i contratti scritti, ma le continue dimostrazioni di dedizione assoluta, di abnegazione, utili a meritarsi la simpatia del capo, come accade in un rapporto in cui ci si adopera per ottenere l’affetto del partner. Essere amati è qualcosa che non sarà mai confermato a sufficienza. E la condizione per essere amati è l’offerta costante di prove sempre nuove della propria capacità di riuscire, di essere sempre un passo avanti, competitivi, rispetto ai concorrenti anche solo potenziali. E questa è una vita emozionante? No. È una vita logorante. Sembra davvero una presa in giro il bel parlare di sinergie e spirito collaborativo. Il codice dell’amore è esclusivista: non si può collaborare con i/le potenziali amanti del proprio partner! Il mondo del lavoro oggi è questo: instabilità, sospetto reciproco, ansia.
Può l’essere umano raggiungere la felicità in queste condizioni?
Secondo Bauman, l’incertezza è parte strutturale dell’esistenza umana, che non concede nulla senza dura fatica. E ognuno di noi è disposto allo sforzo incessante pur di costruire la propria felicità. Ma se la dimensione del lavoro è diventata pervasiva, tanto da annullare desideri, è ancora possibile immaginare la felicità? Rendere l’uomo un essere condannato a esistere per la mera sopravvivenza  e ridurlo al solo "dum spiro, spero" può davvero bastare? Siamo disposti ad accontentarci del “finché c’è vita c’è speranza”?
No, l’uomo è fatto per credere che da un malchiuso portone  - direbbe Montale - si possa vedere il giallo dei limoni, si possano sentire le trombe d’oro della solarità.

mercoledì 28 settembre 2016

UNO STUDIO. Preservare la sostanza umana.



Ciò che accomuna le società distopiche (e, quindi, per uno strano gioco di parole, anche dispotiche) è la sacralizzazione della scienza applicata, da un lato, e la demonizzazione della cultura umanistica, dall’altro.
La società di Fahrenheit 451, per esempio, è completamente meccanizzata, nelle case le comunicazioni sono annullate e sostituite da maxischermi che monopolizzano l’attenzione degli inquilini.

Anche in 1984 Orwell immagina una realtà controllata attraverso schermi giganti che proiettano l’immagine del Grande Fratello, con i suoi capelli e baffi neri, irraggiante forza e una misteriosa serenità, quella falsa quiete che solo le astute menzogne sanno infondere e che fanno credere agli sprovveduti che davvero la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è la forza.
In 1984 una perversa neolingua abbatte il pensiero critico, riduce il campo semantico delle parole e il numero stesso dei termini da utilizzare, perviene, insomma, a una lingua standard, di fatto incapace di  tradurre, per esempio, principi come “tutti gli uomini sono stati creati uguali … forniti di diritti inalienabili: fra questi, la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità … Quando una qualsiasi Forma di Governo opera per la distruzione di questi fini, è Diritto del Popolo mutarla o abolirla, istituendo un nuovo governo”. In una società scientificamente organizzata e altamente burocratizzata, il Grande Fratello arriva a controllare il pensiero e se qualcuno conserva la memoria della lingua tradizionale, capace di esprimere nobili, e per questo eversivi, principi, viene tacciato di psicocrimine.
Nella realtà orwelliana la scienza viene applicata al servizio di un potere tirannico che opera per l’autoconservazione e per lo sconfinato ampliamento del proprio dominio.
Estremamente scientificizzata è, inoltre, la realtà del Mondo Nuovo costruita dalla fantasia di Huxley: coppie gemellari suddivise per livelli di prestazione sociale, vengono geneticamente selezionate e collettivamente allevate, senza legami familiari o vincoli affettivi. Non ci sono coppie stabili, famiglie amorevoli. L’eros è un gioco cui si viene addestrati fin da bambini e la felicità è frutto di una combinazione chimica, il soma, ingeribile per via orale.
Huxley racconta che un giovane Selvaggio, però, casualmente trova una raccolta completa delle opere di Shakespeare, impara a leggere, a pensare, affina i suoi sentimenti e oppone alla dimensione assurda della società del progresso, la passione e l’umanità contenute nei libri e dichiara senza paura io preferirei essere infelice piuttosto che avere questa specie di falsa, menzognera felicità che avete qui. A un mondo anaffettivo, in cui la scienza controlla i sentimenti, i pensieri, i comportamenti, a fronte di una totale assenza di malattie, di un comfort senza paragoni, di una totale stabilità sociale ed economica, il Selvaggio contrappone una sua idea di vita ed esistenza: io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato. Si tratta della rivendicazione del diritto di essere uomo, nel bene e nel male, tra gli abissi del dolore e il volo dei sogni.
Una scienza asservita contraddice il suo statuto epistemologico e riduce il senso dell’umanità. Una scienza strumentalmente orientata al dominio delle coscienze viene meno alla sua stessa natura.
Orwell ipotizza una sorta di resistenza della sostanza umana: Winston pensò al teleschermo e al suo orecchio in perenne ascolto. Potevano spiarti giorno e notte, ma se restavi in te, potevi ancora metterli nel sacco … I fatti certamente non si potevano tenere nascosti. Li si poteva ricostruire per mezzo degli interrogatori, li si poteva estorcere con la tortura. Se però l’obiettivo non era la sopravvivenza, ma la conservazione della propria sostanza umana, che importanza aveva tutto ciò? Non potevano cambiare i sentimenti. Anzi, neppure voi potevate cambiarli, neanche volendo. Potevano portare allo scoperto, fino all’ultimo dettaglio, tutto ciò che avevate detto, fatto o pensato, ma ciò che giaceva in fondo al cuore e che seguiva percorsi sconosciuti anche a voi stessi, restava inespugnabile. (Orwell, 1984)
Quello che Bradbury, Orwell e Huxley delinenano è il ritratto di una società prometeica, improntata al dominio del “fare”, narcisisticamente volta al principio di prestazione, all’ostentazione della propria eccellenza, alla soddisfazione della propria ansia di controllo su ogni aspetto dell’esistenza umana. A ben guardare, in fondo, il quadro coincide con quello della nostra società, in cui la vita può essere artificialmente governata da macchine; la morte è una condizione che si può rinviare rispetto ai limiti imposti dalla natura, attraverso una scienza medica che cerca l’elisir dell’eterna giovinezza, oppure è anticipata grazie a eutanasie sempre più sofisticate. L’homo faber ha costruito un’idea di scienza che sta azzerando ogni traccia di umanità nel mondo. Però, sembra ammonire la letteratura, cercare surrogati esistenziali attraverso la scienza non paga, non è sempre bene ciò che fa stare bene.
La ricerca scientifica ci ha consentito di essere social, un tempo, invece, eravamo socievoli; prima era un complimento essere belli, ora bisogna essere "curati"; in passato si parlava, adesso si chatta; e se prima ci si incontrava, oggi ci si "interfaccia".
D'altra parte, però, è vero che la scienza ha prodotto benessere e non si tratta, certo, di fare masochisticamente l’apologia del dolore in nome di un’etica del sacrificio. No. Qui è in discussione la sostanza umana dell’esistenza.
Non è un caso che nei tre romanzi in esame l’antidoto alla cancellazione dell’umanità venga dalla letteratura: nella società del rogo dei libri immaginata da Ray Bradbury, la sostanza umana viene preservata da uomini che hanno imparato a memoria testi classici, opere del passato e che sono vagabondi all’esterno e biblioteche all’interno, uomini che scelgono di riappropriarsi del tempo, che rivendicano, contro l’efficientismo e l’ipercinesi della società del progresso, il diritto di usare il proprio tempo: c’era il tempo intorno, il tempo di sedersi … sotto le piante, di guardare il mondo. E ad un tratto le voci cominciarono, ed erano voci che parlavano … Il loro suono saliva e scendeva tranquillamente, mentre le voci si rigiravano il mondo sotto gli occhi e lo guardavano; le voci conoscevano la terra, gli alberi, la città… Le voci discorrevano su tutto, non c’era una sola cosa di cui non sapessero parlare. (Fahrenheit 451)
Nella società del silenzio imposto,la parola riprende corpo e vigore. Nella società governata dal sapere scientifico improvvisamente si avverte in modo urgente il bisogno di anima. È la sostanza umana che chiede spazio.
In un’epoca in cui il sapere scientifico sta invadendo la scuola e persino la fantasia dei bambini, travolti da giochi virtuali che sostituiscono la loro vicinanza reale, c’è da interrogarsi sulla bontà dell’assolutismo scientifico-tecnologico.
Manfred Spitzer, nel suo saggio Demenza digitale, osserva che quando la tecnologia diventa invasiva, necessariamente si modificano i processi emotivi e psicosociali e sono condizionate persino  le posizioni etico-morali, le prospettive esistenziali dei soggetti.
E le conseguenze sull’apprendimento sono gravi. Il modo in cui si impara qualcosa determina il modo in cui il contenuto verrà memorizzato nel cervello. Pertanto chi osserva il mondo solo spostando e cliccando un mouse, come suggeriscono alcuni sostenitori della pedagogia digitale, saprà pensarlo “meno bene”. (Spitzer, Demenza digitale).
Insomma, la scienza ci può dire che esiste la scissione dell’atomo. Cosa farcene, dobbiamo deciderlo noi: usarla per curare le malattie oppure sganciare una bomba per uccidere persone?
Spesso la politica dimentica che esiste un’enorme differenza tra agire e fare: si celebra il valore dei governi del “fare”, si spinge la scuola a educare i giovani al “saper fare”; si giudicano le amministrazioni dai “fatti”.
Eppure, a ben guardare, la forza prometeica del “fare” è l’espressione più icastica del positivismo borghese, la cui incessante ansia di produrre si è tradotta, poi, nell’igienificazione del mondo propagandata da Marinetti già all’inizio del secolo scorso: in fondo le guerre sono il prodotto della scienza umana applicata alle esigenze della politica. Sono il frutto di una politica del “fare”.
Invece non funziona così. Fare significa eseguire un input. Quando Paul Tibbets ha sganciato la bomba atomica dall’Enola Gay, ha fatto quel che doveva fare: premere un pulsante, come gli era stato ordinato.
Avrebbe potuto non farlo, ma non ha avuto le chiavi culturali per dire “no”, per agire responsabilmente, per commettere un atto di “disubbidienza civile”, direbbe Thoreau.
Agire significa, quindi, conoscere le conseguenze dei propri comportamenti, operare, cioè, anche scelte morali che si dissociano da ciò che il sistema politico/sociale detta. Agire significa, in breve, saper dire “no” a ciò che viene imposto, iniziare una rivoluzione contro le ali maligne – per usare un’immagine cara a Quasimodo - di una scienza non più libera, ma asservita a poteri autoreferenziali e completamente dissociati rispetto alla condizione e alle esigenze delle persone che compongono la vita reale.
Albert Camus comincia il suo saggio L’uomo in rivolta con queste parole: che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no.
Bisogna avere il coraggio di opporsi alla tirannia del sapere scientifico/tecnologico e restituire spazio alla bellezza di ideali per cui valga la pena vivere e che solo il sapere umanistico può costruire, liberando la scienza stessa dai condizionamenti che la schiacciano e restituendola alla sua più propria specificità.
I veri grandi riformatori non si servono della scienza per controllare la società.
Tutti i grandi riformatori cercano di costruire nella storia quello che Shakespeare, Cervantes, Moliére, Tolstoi hanno saputo creare: un mondo sempre pronto ad appagare la fame di libertà e di dignità che sta in cuore ad ogni uomo. La bellezza senza dubbio non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei… Mantenendo la bellezza, prepariamo quel giorno di rinascita in cui la civiltà metterà al centro delle sue riflessioni … quella virtù viva che fonda la comune dignità del mondo e dell’uomo. (A. Camus, L’uomo in rivolta)

Si tratta di difendere la sostanza umana.