Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 12 luglio 2016

Candido








VOLTAIRE
Candido

Candido è un racconto filosofico, ma anche un racconto di formazione. Candido  - come spiega il nome – è un ingenuo ragazzo dal dolcissimo carattere e dallo spirito molto semplice, educato dall’ottimista e leibniziano precettore Pangloss, professore di cosmoscemologia, un tuttologo aproblematico, che nonostante i fallimenti e i dolori non esita mai a celebrare l’armonia prestabilita che governa la storia e l’assetto universale delle cose.



Cacciati a pedate dal castello del barone di Westfalia, per aver trasgredito le norme ipocrite del buon costume, entrambi  partono all’avventura, affrontano la guerra, le devestazioni, le torture dell’Inquisizione, si separano.
Candido ha perso tutto, gli manca l'amata Cunegonda e la speranza di rivederla è il motore del suo viaggio. Il racconto recupera l’archetipo narrativo del viaggio – che sin dai tempi dell’Ulisse omerico è sinonimo di ricerca di sé – e si fonda sul valore dell’avventura come sfida agli ostacoli e come percorso di formazione dell’identità. Due sono le tappe particolarmente significative del complesso cammino di Candido. La prima è costituita dalla sosta nel paese dell’Eldorado, una specie di paradiso in terra dove tutti sono felici, non c’è mai la guerra; è il paese dove tutto va bene. Eppure Candido lo lascia e riprende il viaggio, non certo per il piacere del rischio, ma semplicemente perché nel paese dell’Eldorado non c’è Cunegonda, non c’è l’amore. Nella vita puoi avere tutto, sembra suggerire Voltaire, ma se ti manca la persona che ami, è la fine! E Candido l’ha capito: come un nuovo Lancillotto, egli cerca la sua donna, correndo rischi e pericoli per raggiungerla. Un’altra tappa importante nel cammino di Candido è l’arrivo nel paese del senatore Pococurante, un nobile veneziano annoiato dalla vita per saturazione di esperienze. Donne, quadri, concerti, libri: Pococurante ha tutto e a Candido pare il più felice degli uomini. Subito il suo amico Martino, saggio, ma pessimista - esattamente l’opposto di Pangloss - gli fa notare che Pococurante è disgustato da tutto, non è in grado di scorgere la bellezza in niente, nulla lo meraviglia. Candido capisce, allora, che non è certo nei beni materiali che consiste la felicità.

Infine c’è un incontro che colpisce Candido, quello con Paquette e  fra Giroflé, che appaiono felici agli occhi dell’ingenuo ragazzo, ma, in effetti le loro storie sono tristissime: Paquette è costretta a prostituirsi per povertà e fra Giroflé odia l’abito monacale che è stato costretto a indossare in ossequio alle leggi del suo tempo: i miei genitori mi obbligarono a quindici anni a indossare questo detestabile abito, per lasciare un più grande patrimonio a un maledetto fratello maggiore … La gelosia, la discordia, l’ira regnano nel convento. Non sempre la felicità apparente degli altri, spesso persino invidiata da occhi superficiali, corrisponde a un a realtà; nasconde, invece, sofferenze indicibili.

Al termine del suo viaggio Candido ritrova Cunegonda e il suo precettore Pangloss. Insieme ai suoi amici va a vivere in una fattoria nei pressi di Costantinopoli. Lì un derviscio turco spiega alla brigata i segreti della felicità: tra tutti spicca un monito, quello di imparare a coltivare il proprio giardino. Si tratta di una frase che è stata variamente interpretata e spesso anche mistificata come invito all’individualismo. A ben guardare si tratta di una saggia affermazione: coltivare il nostro giardino equivale a occuparci con cura e pazienza di quella parte di mondo che ci viene affidata. Noi non possiamo cambiare la storia, ma possiamo contribuire a rendere un po’ meno infernali il tempo e lo spazio in cui viviamo, allenare il nostro sguardo a cogliere la bellezza e sforzarci di comunicarne il fascino e l’essenza. I greci chiamavano il giardino “paradeisos”, paradiso. Ecco, dice Voltaire, tocca a noi trasformare in un paradiso l’angolo di terra che dovremo imparare a coltivare.


L'INTERPRETAZIONE DI FRANCESCO TANINI



sabato 9 luglio 2016

La cena

HERMAN KOCH
La cena

La cena è la storia che potrebbe capitare a me, a te, caro lettore.

Due coppie apparentemente stabili e felici si incontrano in un lussuoso ristorante.                     Chiacchiere, banalità, il lavoro, i figli.
I figli. Appunto.
Herman Koch:  "Siamo tutti borghesi annoiati,  perciò diventiamo cattivi"Vite tranquille vengono sconvolte da un evento di incomprensibile, assurda violenza: al ritorno da una festa, due sedicenni - i figli delle due coppie a cena - ragazzi, cioè, di “buona famiglia”, ammazzano una clochard e le danno fuoco. Le immagini riprese dalla videocamera della cabina di un bancomat vengono trasmesse in TV e fanno il giro del web. Non teppisti che incendiano le macchine per far scattare una faida tra gruppi di etnie diverse. Soldi a sufficienza, genitori benestanti. Ragazzi come ne conosciamo tutti. Come nostro nipote. Come nostro figlio.
L’interrogativo è inquietante: che fare? Ancora più grave è la domanda: perché è accaduto?
L’azione efferata dei due sedicenni è la dimostrazione del fallimento della famiglia, della scuola, della società, vittime di  nichilismi irreparabili.

Herman Koch ci inchioda alla lettura, ci fa entrare nei meandri del senso di colpa come genitori, ci fa provare una forte sensazione di impotenza come insegnanti, di inadeguatezza come adulti incapaci di costituire modelli esemplari per i giovani che ci lanciano messaggi, ma noi, ormai, non siamo più in grado di decifrarli, travolti dall’ansia del lavoro, del successo, del denaro, dell’autoaffermazione. Non ascoltiamo, viviamo distrattamente le tappe della crescita dei nostri ragazzi cui diamo tutto, tranne ciò di cui hanno davvero bisogno: attenzione, considerazione, tempo. 
Sì, la quantità del nostro tempo. Non basta la qualità.

Una questione privata

BEPPE FENOGLIO
Una questione privata

Una questione privata è il racconto della Resistenza, narrata senza toni epici: Fenoglio dimostra che la guerra è guerra. Tutto mira a rendere palpabile l’orrore: uccidere è normale, per difesa, per paura; i partigiani non sono eroi, ma soldati; la lotta contro i fascisti e per la libertà vede intrecciate la nobiltà dell’ideale con la corsa umana per la sopravvivenza; accanto agli orrori dei fascisti che ammazzano turpemente il giovane Riccio, un partigiano adolescente che fa la guerra per sentirsi un eroe e trova solo la morte, si situano – non meno raccapriccianti – le azioni violente dei partigiani che a loro volta non esitano a rasare con un certo macabro compiacimento, la testa di una maestra, una di quelle che sognavano di avere un figlio con Mussolini: un gesto violento, di vendetta, compiuto davanti agli occhi tormentati dei genitori della donna.
La Resistenza non è solo la guerra partigiana; c’è, accanto alla storia, una Resistenza privata, quella dell’amore di Milton, il protagonista, per Fulvia. Si tratta di un amore che resiste al tempo, alla separazione, al dubbio atroce del tradimento. E la questione privata è proprio questa: arrivare alla verità su quell’amore, accertare se tra Fulvia e Giorgio, l’amico di entrambi, c’è stato davvero qualcosa e che cosa e fino a che punto. Allora Milton inizia la sua caccia all’uomo: anche Giorgio è un partigiano, Milton deve cercarlo. Li unisce l’amicizia, la lotta antifascista e …l’amore per Fulvia. Non poteva più vivere senza sapere: cercare la verità diventa il primo motore delle scelte e delle azioni di Milton. E la sua è una ricerca eroica, come la quête del Furioso, nel fango e nella pioggia, tra gli spari e i pericoli. In effetti, il tratto epico del romanzo di Fenoglio sta proprio nel nome del protagonista: Milton, come l’autore del Paradiso perduto. Infatti, per Milton sembra perduta la felicità dei sogni di una vita con Fulvia. Eppure il giovane partigiano non si dà per vinto.
Si alterna al rumore dell’artiglieria il suono delle canzoni del passato, dei balli a casa di Fulvia: Over the rainbow è la colonna sonora dell’Eden perduto e delle speranze infrante. Fino alla fine Fenoglio accompagna il lettore nella folle corsa di Milton verso una possibile, incerta, labile felicità.
La Resistenza raccontata in Una questione privata è la Resistenza della dignità contro le miserie umane (tradimenti nell’amicizia, nell’amore) e contro una Storia decisa dai potenti, ma che miete vittime  tra la gente comune.
Da qualunque parte sia l’uomo di Fenoglio è sempre sconfitto.
Il tenente fascista che ha comandato al plotone di esecuzione di uccidere Riccio, che ha visto il ragazzo andare da solo, dignitosamente e orgogliosamente, a farsi giustiziare, non è un vincitore, rimane pietrificato, sente su di sé il peso della Storia che fagocita le volontà dei singoli: restò fermo un attimo solo … si calcò una mano sui capelli che gli si erano tutti rizzati e lentamente, spossatamene camminò …

Il Male non è stare dalla parte sbagliata: il Male è la guerra in sé, il fango dell’orrore, l’esplosione della violenza, la persecuzione del dubbio, la paura del tradimento, la certezza che il passato non torna e che la vita potrebbe non bastare per ricostruire la speranza.


BEPPE FENOGLIO DA PARTIGIANO A SCRITTORE

giovedì 7 luglio 2016

Notti bianche

FEDOR DOSTOEVSKIJ
Notti bianche

Il protagonista delle Notti bianche è un ragazzo, uno studente: non ha un nome. Dostoevskij in tutto il romanzo lo chiama il sognatore. Il giovane salva per caso, da un'aggressione in strada, una fanciulla, Nasten'ka. Da questo momento il sognatore e Nasten'ka trascorrono insieme, le loro notti bianche, fatte di parole, di racconti, di confessioni. I due giovani scoprono che oltre il buio dell'esistenza c'è un cielo stellato: basta avere il coraggio di alzare lo sguardo per ammirarlo. La sofferenza fa parte dell'esistenza umana, ma non bisogna  lasciarsi fagocitare dal dolore. Il sognatore grazie a Nasten'ka e alla sua vitalità comprende di non aver mai vissuto, si scopre un cittadino malaticcio, semisoffocato dalle mura della città, un ragazzo incapace di cogliere la bellezza fuggitiva delle cose, che pure brilla davanti ad occhi spesso disabituati o non esercitati a scorgerla. In Nasten'ka il giovane sognatore vede la vita, sente che la felicità esiste e le dice: sognerò di voi tutta la notte, tutta la settimana, tutto l'anno.
Nasen'ka invita il sognatore a parlare di sé: non è solo per gratitudine, è per puro desiderio di creare un contatto umano, in una società in cui le relazioni sono fugaci e impermeabili. Un ragazzo l'ha salvata in un momento di pericolo e Nasten'ka si accorge di non sapere niente di lui! Non conosce nessuno che possa darle informazioni su questo generoso benefattore e, allora, con semplicità gli dice: dovete essere proprio voi a raccontarmi tutto, vita, morte e miracoli. Insomma che persona siete? Suvvia, incominciate a raccontarmi la vostra storia.
Il sognatore rimane spiazzato da questa domanda, da questo strano invito: a chi potrebbe mai interessare una vita di studio e solitudine come la sua? inizialmente reagisce con un certo disagio, Dostoevskij lo definisce addirittura spavento: chi ha detto che ho una storia? Non ho una storia ...
Il giovane percepisce in questo momento, durante questo incontro che la sua fino ad ora non è stata "vita". Estraneo al mondo e chiuso nelle sue fantasticherie o nei suoi cerebralismi astratti che lo hanno portato lontano dalla realtà, solo adesso scopre che quanto più semplicemente si fanno le cose, tanto meglio!
Nasten'ka non gli crede e con semplicità, con calma, con umana partecipazione riesce a far emergere la parte migliore del sognatore, riesce a trasformare i suoi sogni in desideri e lo esorta a parlare, lo invita a raccontarsi e a superare lo scoglio dell'incomunicabilità che paralizza le relazioni umane: ... c'è una panchina; sediamoci! ... non ci sentirà nessuno, incominciate pure la vostra storia! Perché ne sono convinta, voi avete una storia...
Le storie attraggono, creano affinità e presto anche Nasten'ka inizia a raccontare la sua vita, la sua delusione per un amore finito, l'amarezza di giorni sempre uguali.
Van Gogh, Notte stellata sul Rodano
I due scoprono la bellezza delle parole, della comunicazione: perché non dire subito, apertamente quello che si ha nel cuore, se le proprie parole non sono gettate al vento? Ognuno si mostra molto più duro di quanto non sia realmente, come se temesse di offendere i propri sentimenti rivelandoli troppo presto ... 
Dostoevskij è un maestro nella conoscenza delle emozioni umane: spesso ci lasciamo sopraffare dal pudore, dalla diffidenza e non ci rendiamo conto che proprio nella capacità di ascolto e nel bisogno di raccontarsi si fa strada l'umanità. Perché Boccaccio fa allontanare da una Firenze distrutta dalla peste i dieci giovani e dà loro lo statuto di "novellatori"? Per questo: per raccontare la possibilità di un mondo migliore, per costruire, attraverso le storie, l'impalcatura di un'umanità più bella.
Raccontare, parlare, scambiarsi emozioni sono atti semplici che rendono l'esistenza più umana, consentono di prendere la giusta distanza dagli inferni quotidiani.
Incontro, relazione, comunicazione: ogni possibilità di essere felici è sempre duale.

SAVIANO INTERPRETA LE NOTTI BIANCHE
http://www.robertosaviano.com/amici-il-testo-del-mio-intervento/

D'AVENIA INTERPRETA LE NOTTI BIANCHE
http://www.librimondadori.it/news/dostoevskij-in-classe.-il-prof.-alessandro-d-avenia-a-lezione

lunedì 4 luglio 2016

L'eleganza del riccio



MURIEL BARBERY

L'eleganza del riccio                                  





Non vediamo mai al di là delle nostre certezze

e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro,

non facciamo che incontrare noi stessi

in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci.




L'eleganza del riccio è la storia di un incontro che trasforma la vita delle due protagoniste. Renée, portinaia di un lussuoso appartamento parigino, sembra sciatta e trascurata, ma in realtà è una donna dalla profonda sensibilità: la portinaia che legge Tolstoj e ascolta Mozart, è l'unica a cogliere il disagio della giovane Paloma, adolescente colta e inquieta che vive con disgusto e con distacco la mediocrità del mondo che la circonda. Paloma ha deciso di uccidersi e di dar fuoco al suo appartamento per cancellare ogni traccia della sua esistenza e questa sua determinazione sembra irrevocabile. Sarà proprio l'incontro con Renée e con l'amico giapponese Kakuro Ozu a cambiare le prospettive della giovane Paloma.
L'eleganza del riccio è un romanzo sulla forza dell'amicizia, sulla potenza dell'ascolto, sul bisogno di cercare con pazienza la bellezza della vita, nonostante il dolore e la tristezza.


UN VIAGGIO NEI VALORI: IL RICCIO E LA COLOMBA
L'incontro tra Renée e Paloma dimostra che la vera amicizia guarda oltre le barriere anagrafiche e sociali. La portinaia è l'unica a cogliere la sofferenza della sua giovane amica, costretta a vivere a contatto con quella che la stessa Paloma definisce  stupida vacuità borghese, in una società tesa solo al raggiungimento di obiettivi materiali e impegnata nella triste aggressività dei giochi di potere.
Non è un caso che la fanciulla porti il nome di Colomba (in spagnolo "paloma"), con chiaro riferimento al suo animo puro, innocente, dolce, nascosto dietro un carattere difficile, polemico e critico.
A sua volta Paloma è la sola a capire la vera natura di Renée, sintetizzata nell'espressione l'eleganza del riccio:

Madame Michel ha l'eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti.

Renée e Paloma sono accomunate dalla medesima profondità che consente loro di guardare il mondo con ironia e disincanto, ma di conoscere anche la vera essenza della felicità.


 Io credo che ci sia una sola cosa da fare:
scoprire il compito per il quale siamo nati
e portarlo a termine il meglio possibile.

Il segreto di Kàlena

ALFONSO D'ERRICO

Il segreto di Kalena 

Il segreto di Kalena di Alfonso d’Errico (Bastogi, 2006) si presenta come un romanzo nel romanzo: la vicenda di Astolfo e Rachele nel manoscritto di Astolfo stesso, monaco benedettino, si genera dalle vicende-cornice di Filippo e Miglena e dalla incessante brama di verità dell’architetto Zaiana. L’autore ricorre al topos antico del rinvenimento di un manoscritto intorno al quale ruota l’intreccio, ma lo rinnova arricchendolo con giochi d’identità che mescolano piani temporali, sogno e realtà, fantasia e verità.
Dunque Il segreto di Kalena si costruisce su due elementi uno tematico, il tempo e uno tecnico, strutturale, il rapporto tra racconto interno e cornice, che alla fine arrivano a coincidere proprio in virtù dell’azione del tempo che sembra annullare le distanze tra sogno (racconto interno) e verità (cornice).
Filippo dichiara che va progressivamente convincendosi che “il mondo non sia altro che l’immagine dei nostri sogni, un quadro che non stessi dipingiamo”. E l’esplicito richiamo - a pag.13 - a Cervantes chiarisce inequivocabilmente come d’Errico voglia sostenere che il confine tra sogno e realtà sia molto labile. Come don Chisciotte, Filippo vive sul filo della follia, in un equilibrio precario con se stesso e con il mondo, forse disancorato rispetto alla realtà per colpa dei libri, per quella malattia di carta da cui è affetto pure l’hidalgo. Don Chisciotte filtra la realtà attraverso stereotipi letterari che gli servono a nobilitare la dimensione bassa nella quale egli vive, Filippo, invece, arriva a fare coincidere la realtà e le persone che la popolano, con le fantasie di testi antichi, si immerge in una dimensione allucinata come il suo sguardo perso all’orizzonte nella scena finale del libro.
E’ sogno? E’ follia? Invece è solo un altro modo di leggere la realtà, un modo nuovo che affida alla parola scritta l’enorme responsabilità di sfidare il tempo e di attribuire verità agli accadimenti. E allora la malattia di carta, la letteraturazione della vita diventano l’essenza della vita stessa: al monaco Astolfo, preoccupato che la sua relazione con Rachele venga scoperta, la fanciulla dice, con tono rasserenante: “Se nessuno scrive questa storia su un libro, è come se non fosse mai accaduta”. Dunque Astolfo, a pag. 52, conclude che “solo la parola scritta vive in eterno” ed è per questa convinzione che egli decide di affidare allo scritto le sue riflessioni teologiche, pur consapevole del fatto di incorrere nell’accusa di eresia e di lasciare così prove evidenti delle sue deviazioni dottrinali.
La malattia di carta che caratterizza Filippo – e lo differenzia da don Chisciotte – non è la tendenza a filtrare la realtà attraverso modelli letterari che la nobilitino, bensì è l’ossessione di cercare nei testi scritti, nella parola scritta le coordinate necessarie ad orientarsi nel quotidiano.
E allora lo scriptorium, in cui Astolfo finge di tradurre e invece scrive la propria teologia, il proprio vangelo, la propria verità, diviene un emblema avvicinabile alla Biblioteca di Borges e al labirinto di Calvino: luogo d’incontro tra finzione e verità, metafora degli inestricabili e labirintici meandri dell’esistenza in cui non c’è garanzia d’approdo, da cui non è possibile fuggire, nei quali ci si trova a vivere, e saperne accettare il peso è già una grande sfida. La stessa funzione sembra avere il camminamento di Kalena che conduce al luogo del non-incontro tra Astolfo e Rachele, al momento della storia interrotta, alla “nera distesa del mare”, alla spiaggia desolata in cui oltre al rumore delle onde non c’è nessuno se non un’ombra. L’ombra, il flatus vocis, “nomina nuda” cui Eco fa riferimento nel “Il nome della rosa”, sono le cifre dell’esistenza: un inestricabile groviglio di mancanze, di non-sensi dove, dunque, tutto è interscambiabile e possibile e che la ragione questo non se lo spieghi non è cosa affatto importante.
Solo un dato resta inequivocabile: la parola scritta. E’ la parola scritta che giustifica la realtà e fornisce le chiavi di lettura per decodificarla, interpretarla e addirittura completarla nelle sue aporie.
E la parte bianca del libro? Laddove manca la parola scritta, lì allora si apre il baratro della responsabilità: il compito, di “costruire” la verità senza il riferimento scritto, già dato e al massimo solo da interpretare.
Il bianco è, d’altra parte, il vuoto che può essere colmato dalle infinite possibilità delle scelte, dagli infiniti incroci dei tempi, dalle scritture di più mani che s’intrecciano a comporre la storia, le storie.
E lì, nello spazio bianco, Filippo e Astolfo, Rachele, Miglena ed Ela s’incontrano in una sovrapposizione di tempi, in una cronologia dinamica in cui l’aporia tra passato e presente è colmata dall’immaginazione.
E’ questo il senso più profondo del romanzo: “passato, presente e futuro finiscono per intersecarsi in una dimensione unica che ci porta a sovrapporre fatti, ricordi, sogni” Si tratta di una soggettivizzazione estrema del tempo che annulla ogni cronologia matematica ed oggettiva e rende l’uomo veramente artifex sui ipsius, davvero padrone di sé, della propria dimensione interiore che può orientare come meglio crede, a proprio piacimento.
E non si tratta di una semplice questione di naufragio dell’anima di leopardiana memoria, né di rimembranze agostiniane … Se di extensio animi si può parlare, è solo nel senso che la fluttuazione tra i tempi è tale che ogni cronologia sembra falsata come in un gioco di specchi deformanti. Nasce così un tempo indeterminato, sinuoso come un labirinto, “una rete crescente di tempi divergenti, conseguenti e paralleli”, “una trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli”, un tempo che “comprende tutte le possibilità”, un tempo che “si biforca perpetuamente in innumerevoli futuri” tutte immagini care a Borges.
In un tempo siffatto c’è l’attimo, l’eternità, la coincidenza, c’è Eraclito, il divenire, c’è Parmenide, l’immobilità, c’è Ulisse, il ritorno.
Ma soprattutto c’è lo spazio bianco, la storia che ogni uomo, in ogni tempo, scrive nella propria vita, guardando lontano, verso l’orizzonte e talvolta girandosi indietro verso un passato che lo accompagna e vive in lui, sempre, perché “nessuno può vivere senza portarsi dietro il proprio passato”
Ma la quarta categoria del tempo che si biforca è il lampo d’incoscienza, l’immaginazione che ricompone frammenti di verità: finzioni, giochi di specchi, illusioni e allucinazioni che intrecciano trame. E allora, sì, “la vita è sogno”, non tanto perché è breve, evanescente – certo è fatta della stessa materia dei sogni, scriveva Shakespeare – ma soprattutto perché, come i sogni, ha una dimensione multipla, parallela, e perciò è impalpabile il confine tra sogno e realtà … la verità ha i contorni sempre più sfumati, come l’irraggiungibile linea all’orizzonte là dove il profilo di Filippo si confonde con quello di Astolfo.

Esercizi spirituali e filosofia antica

PIERRE HADOT
Esercizi spirituali e filosofia antica

La vera filosofia è esercizio spirituale.


Esercizi spirituali e filosofia antica è un saggio necessario. Non è destinato solo agli addetti ai lavori, ai filosofi e agli intellettuali. Pierre Hadot si rivolge a tutti e propone una nuova interpretazione della filosofia: non un sapere iniziatico né un magma di dottrine onnicomprensive neppure il tarlo della domanda  neanche il cammino della ricerca.
Piuttosto un'arte di vivere, lo strumento utile a vivere una vita umana.
Per Hadot la filosofia ha due precisi compiti:
1) rivelare agli uomini l'utilità dell'inutile 
2) spiegare agli uomini che il filosofo non è un professore o uno scrittore, ma un uomo che ha fatto una certa scelta di vita, che ha adottato uno stile di vita.
Pierre Hadot intende dimostrare che la filosofia coincide con la vita di un uomo cosciente di se stesso, che corregge incessantemente il suo pensiero e la sua azione, consapevole della propria appartenenza all'umanità e al mondo. 
Per troppo tempo considerata il regno della chiacchiera, delle parole, un lusso lontano dalle preoccupazioni della vita quotidiana, dalla gravosa realtà di giorni difficili, la filosofia, nel discorso di Hadot, assume la fisionomia di una cosa sacra, imprescindibile, proprio in quanto legata alla vita stessa. La filosofia è l'arte di vivere da uomo, è la capacità di rapportarsi al mondo con la responsabilità propria di chi sa riconoscere in sé e nell'altro la dignità umana. E questa è una lezione che viene dagli antichi. Non è il frutto di architetture mentali complesse, è il risultato dell'esperienza. Socrate è un uomo della strada. Parla con tutti, va in giro per i mercati. Egli osserva e discute. Non pretende di sapere. Non dà risposte. Interroga soltanto; e coloro che sono interrogati si interrogano a loro volta su se stessi. Si rimettono in discussione. Tutto questo accade solo grazie alla forza del dialogo.
E' questa l'essenza della filosofia. Scoprirsi uomini nella parola che avvicina, riduce le distanze, favorisce incontri.
In questo senso, la filosofia appare non più come una costruzione teorica di cattedrali di idee, ma come un metodo inteso a formare una nuova maniera di vivere e di vedere il mondo, come uno sforzo di trasformare l'uomo.
Appunto, si tratta di un esercizio spirituale. Vuol dire imparare a rovesciare i valori riconosciuti come tradizionalmente vincenti. E' la rinuncia consapevole e matura ai falsi valori, alle ricchezze, agli onori, ai piaceri, per volgersi ai veri valori - la virtù, la vita semplice, la semplice felicità di esistere, il colloquio con gli antichi, la rilettura del passato e dei suoi insegnamenti, la capacità di porsi domande, la rivalutazione dei piccoli piaceri spirituali che ci liberano dalle ossessioni dei beni materiali.
Scriveva Petrarca (Canzoniere, VII):
La gola, e ’l sonno, e l’oziose piume
hanno del mondo ogni virtù sbandita,
ond’è dal corso suo quasi smarrita
nostra natura vinta dal costume;
ed è sì spento ogni benigno lume
del ciel, per cui s’informa umana vita;
che per cosa mirabile s’addita
chi vuol far d’Elicona nascer fiume.
Qual vaghezza di Lauro? qual di Mirto?
Povera, e nuda vai, Filosofia,
dice la turba al vil guadagno intesa.
Pochi compagni avrai per l’altra via;
tanto ti prego più, gentile spirto,
non lassar la magnanima tua impresa.
Quello che per Petrarca è un compianto, in Hadot diventa esortazione. Se il poeta aretino concepisce la filosofia come una magnanima impresa per spiriti gentili, Hadot, invece, propone l'immagine della filosofia come sostegno spirituale per l'azione, uno sforzo comune per diventare umani, un impegno responsabile per non farsi sopraffare dalle passioni politiche, dalle ire, dai rancori, dai pregiudizi. Insomma non si tratta del privilegio intellettuale per pochi, ma di un'azione collettiva, di un'occupazione che riguarda tutti. Non esiste il pensatore solitario, ma un'umanità intera volta verso la costruzione di un mondo migliore.
Qual è, allora, la chiave d'accesso alla felicità? Circoscrivere il presente,  liberarlo dalle catene del rimpianto e della speranza, dalle inquietudini e dalle preoccupazioni inutili.
La felicità consiste nel ritorno all'essenziale, a ciò che è veramente "noi stessi", a ciò che dipende da noi. E la filosofia sa spiegarlo.