ALFONSO D'ERRICO
Un guizzo di brace e altri racconti
Un guizzo di brace e altri racconti
Critica.
Direi quasi scettica. Anzi piuttosto indispettita: un altro esperimento
narrativo di mio padre, la scanzonata occupazione di chi crede che “raccontare”
sia, in fondo, un passatempo, una “cosa” alla portata di tutti … del resto gli
italiani credono di essere un popolo di scrittori, ognuno ha un romanzo nel
cassetto…
Pronta
con la mia matita rossa e blu, decisa più che mai a dimostrare che narrare è
ben altra cosa rispetto al saper scrivere, mi accingo a leggere i racconti di
Alfonso d’Errico, magistrato in pensione, nonché mio padre, con lo stesso
atteggiamento con cui in genere trascorro i miei weekend invernali, tra pacchi
di compiti di Italiano di alunni bravi, ma che credono di essere artisti;
colti, ma che ritengono di poter aspirare al Nobel e che, quando assegni il
compito “ scrivi un racconto su…”, già si vedono inseriti tra le pagine di
manuali scolastici e antologie! Perciò, sentendomi un po’ correttrice di bozze
e un po’ maestrina, sono andata alla ricerca degli errori. E invece …
La
prima frase su cui si imbatte il mio spirito ipercritico ha un significato
dolce, malinconico, vero: ...diceva mia
madre parlando in genovese. Il suo pessimo dialetto voleva testimoniarci la
scia intensa di un pezzo della sua vita. Nelle trenette al pesto che ogni tanto
ci preparava, voleva condensare giorni, gioie, ricordi.( Uno dei mille)
Io
la ricordo proprio così, mia nonna. Non è questo, però, che mi colpisce;
piuttosto, attrae la mia attenzione il modo in cui la frase termina: … condensare giorni, gioie, ricordi.
Renderli densi, fitti, vivi, sottrarli all’indistinto della memoria,
all’anonimato delle vaghe impressioni, per rivivere, tra grumi di emozioni, un
passato che - oggettivamente - non c’è
più, ma che – soggettivamente - non se ne andrà mai dal cuore. Capisco allora
che è questo il desiderio di mio padre, condensare
giorni, gioie, ricordi. Trovo sulla sua scrivania, aperto - credo - non a
caso, un libro di poesie di Ezra Pound. La matita trattiene le pagine per
conservare il segno, il punto in cui la lettura si è interrotta. Trovo una
leggerissima linea tracciata da lui per sottolineare poche parole: il tempo ha visto e non tornerà indietro;/ e
che diritto abbiamo, noi che conosciamo l’ultimo intento,/ di affliggere il
domani con un testamento!
Inoltrandomi
nella lettura ho capito il nesso tra i racconti di questa raccolta e i versi di
Pound. Per mio padre narrare è stato un po’ come vivere: non testamenti e
volontà da far eseguire, non saggi consigli che - l’esperienza lo dimostra -
raramente vengono ascoltati; non insegnamenti che, in virtù della sua autorità
genitoriale avrebbe potuto - legittimamente - impartire, ma racconti di vita
vera, con pazienza e intelligenza intessuti di parole calibrate e ironiche, di
vicende apparentemente biografiche, ma dal sapore universale, in cui un
insegnamento sicuramente lo trovi, ma nel frattempo ti sei goduto il racconto!
E
mentre leggi ti sorprendi, senti che lui ti strizza l’occhio, sa quando ti deve
far sorridere e quando ti deve far riflettere. Questo dialogo silenzioso con il
lettore somiglia a quello che costruivamo io, lui e mia sorella, di sera, prima
di addormentarci: non ci raccontava fiabe, ma “storie” che avevano il tratto
dell’umanità, dell’esperienza, delle gioie, degli errori, dei dolori e delle
vittorie. Non so quanto fossero vere, ma ci hanno aiutato a vivere. Non
testamenti, ma testimonianze. Non monumenti, ma “storie”, che dei monumenti
hanno la capacità di imprimersi nella memoria e di rimanerci e che della storia
conservano il significato etimologico. Sono frutto, infatti, dell’indagine
acuta e della ricerca attenta sui comportamenti e sui sentimenti umani, su quel
fondo comune che riduce le distanze tra le persone.
Continuo
la mia lettura e mi soffermo su un piacevolissimo racconto dal vago retrogusto
oraziano e dal tono tra l’ironico e il bonario; mi incuriosisce un’altra frase:
… se fino a quel momento non avevo visto
l’ora di liberarmi di quel tizio, ora quasi mi dispiaceva distaccarmene.
Avvertivo un inspiegabile senso di vuoto che mi stava attendendo al varco non
appena mi fossi separato da quell’ignoto amico di gioventù sbucato
all’improvviso da un passato che avevo buttato alle mie spalle.( Al parcheggio)
Di
Orazio rivedo l’atteggiamento infastidito di chi si sente importunato e ha
altro di più urgente da fare. Nella satira detta “del seccatore” (Sermones, I,9), Orazio descrive il fastidio,
la noia, che lui stesso prova durante l’incontro inaspettato e seccante con un
tale che lo trattiene in chiacchiere vuote. Il poeta latino suscita il sorriso
complice del lettore perché sa che tutti potremmo riconoscerci ora nel suo
sentimento di tedio ora nello sfinimento provocato dalla tattica messa in atto
dal seccatore. Siamo uomini e sbagliamo sia nell’ascolto distratto sia
nell’invadenza. Ma Orazio è indulgente e con la sua ironia bonaria sa assolvere
chi, vivendo, incorre in inevitabili errori. Ebbene, Al parcheggio conserva della satira oraziana lo smarrimento di un
incontro in un momento poco opportuno, il desiderio di liberarsi quanto prima
dell’ignoto e sedicente amico. Risulta, però, senza dubbio originale quell’inspiegabile senso di vuoto che persino la fine di un incontro fortuito potrebbe
generare; è del tutto personale il graduale affezionarsi alle ombre che
riemergono non chiamate, inaspettate, da un passato che si crede ormai buttato alle spalle e che, invece, non
solo vive, ma addirittura se ce lo dimentichiamo, prepotentemente si rifà vivo.
Esattamente questo accade al protagonista di Ricerca di parole incrociate: un biglietto riemerso casualmente
dalle pagine ingiallite di un vecchio libro di scuola apre il varco a un incontro,
restituisce spazio a un passato che non è poi così lontano, così inesorabilmente
perso. Vive nei ricordi, nei sentimenti, nelle regioni del “cuore” che non è a
compartimenti stagni. Del resto sarebbe una condanna chiudere le porte ai
ricordi e vivere solo di attimi, in un presente convulso di esperienze che se
non si sedimentano non ci formano. Non è
facile vivere dentro i muri di un presente che rinnega il passato e ha
difficoltà ad aprirsi al futuro (Ricerca
di parole incrociate)
…
Già, nella poesia di Ezra Pound c’è un verso che precede quelli sottolineati da
mio padre: … basta che una volta siamo
stati insieme. E ce lo ricorderemo per sempre. Questo mi pare il messaggio
di un libro che non vuole dare insegnamenti, ma che lascia il segno.
Nella
vita “basta una volta”. I ricordi ne conserveranno la traccia.
Teresa, bellissimo post come sempre ma ora devo assolutamente leggere il libro quanto prima!
RispondiEliminaCara Anna, ti ringrazio per i tuoi commenti.
Elimina"Un guizzo di brace..."? ... Una bella lettura tra sorrisi e riflessioni ...