Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

giovedì 13 febbraio 2025

DIEGO DE SILVA - I TITOLI DI CODA DI UNA VITA INSIEME

 

I titoli di coda di una vita insieme (Einaudi, 2024) è un libro sulla fine di un amore.

Si tratta di un tema universale, che ha attraversato la letteratura, la musica, è un tema epico: anche i grandi eroi hanno sperimentato il dolore della fine di un amore. Quello tra Calipso e Ulisse fu un amore travolgente, fatto di promesse straordinarie (felicità indistruttibile, immortalità, eterna giovinezza), eppure è finito in un abbandono come tanti, anche se i protagonisti erano un eroe eccellente e una ninfa, una dea: si sono lasciati come due persone ordinarie.

È andata così anche tra Enea e Didone: giorni felici, promesse, passione. Eppure un litigio ordinario li ha divisi: lei che piange, si sente sedotta e abbandonata lo chiama perfidus (“traditore” della parola data) e lui che la lascia, stufo dei suoi lamenti: desine meque tuis incendere teque querellis (“smetti di inasprire te e me con i tuoi lamenti”).

Insomma, Fosco e Alice, i protagonisti del romanzo di Diego De Silva sono gli ultimi di una lunga serie di amanti che mettono fine al loro amore: una storia antica e sempre attuale.

Ci si innamora, si vive, ci si lascia. E ci si lascia evidentemente perché qualcosa si è interrotto

Ma forse il punto è: COME ci si lascia?

De Silva conduce la narrazione secondo due prospettive, una maschile (Fosco) e una femminile (Alice). L’amore non è una storia, ma due: Alice è un’oncologa, ed è interessata ai protocolli specifici cui le separazioni – come le terapie mediche – devono attenersi. E i copioni consueti delle separazioni prevedono discussioni, litigi, scontri con gli avvocati, giornate in tribunale, atti giudiziari. Fosco invece è uno scrittore: delle liti, degli atti giudiziari a lui non interessa nulla.

Perciò quel senso d’impoverimento che ti assale quando ti trovi davanti alle macerie che hai prodotto – così Fosco commenta la fine del suo matrimonio con Alice – genera reazioni diverse nei due coniugi, che per la prima volta sperimentano la povertà del lessico giudiziario rispetto alla complessità del mondo sentimentale e delle relazioni umane.

I titoli di coda di una vita insieme è perciò anche un libro sulle parole. Fosco chiede al suo avvocato di accettare tutte le condizioni di Alice e di scrivere perciò un atto stringatissimo perché una cosa in particolare di questa separazione davvero non tollera: le parole che parlano di noi, le parole nostrequelle che ci raccontano, non possono entrare in un atto giudiziario. Tutte quelle di cui hai bisogno, amore te le ho scritte. Una vita insieme può essere riassunta nel burocratese, nell’antilingua, la definirebbe Italo Calvino, di una memoria depositata in tribunale che un giudice annoiato dalla routine di contese coniugali sempre uguali, forse leggerà distrattamente, perso tra brocardi e frasi stereotipate.

Diego De Silva, avvocato che ha scelto di diventare narratore, con questo romanzo in particolare, dimostra che le parole sono la vita. Alice lo sa bene, le parole che ricordiamo quelle che ci hanno fatto male soprattutto, sono la nostra letteratura individuale. Isolano i momenti in cui abbiamo perso qualcosa per sempre. Forse, a ben guardare, la degenerazione del linguaggio è il riflesso di una involuzione storica, epocale, sovraindividuale: quando Fosco ritorna nella sua casa dell’infanzia che ritrova trasformata in un B&B, nota che dove un tempo c’erano un cassettone sovrastato da un grande specchi liberty, un letto matrimoniale e due comodini con gli sportelli e i ripiani di marmo, ora ci sono mobili dell’Ikea dai nomi bellissimi e impronunciabili. Stiamo assistendo alla fuga della bellezza dal nostro mondo, dal nostro linguaggio, dalle nostre vite e relazioni. Viviamo in un mondo brutto (guerre, orrori, competizioni): anche la lingua ne risente.

Fosco – come De Silva e probabilmente suo alter ego – è uno scrittore. Quindi I titoli di coda di una vita insieme forse è anche un libro sulla letteratura, argomento sul quale sono disseminate osservazioni interessanti nel romanzo.

  • Alice nota a proposito del marito che, in quanto scrittore, è un sabotatore di convinzioni, che poi è il lavoro della letteratura: Fosco/Diego è un maestro del sospetto, un disvelatore di quello che si cela dietro le apparenze?
  • La contraddizione è il lievito madre della scrittura.
  • Scrivere è fare un uso sincero delle parole: Fosco parte dall’esempio di Àgotha Kristòf, che a dispetto della realtà assurda e allucinata che descrive nei suoi romanzi, tuttavia ha uno stile limpido, chiarissimo, asciutto. Lei, ungherese, usa un francese essenziale, compresso; il francese che le serve per fare la spesa. E nella sua povertà di linguaggio c’è una sincerità addirittura violenta. Fosco ammette di avere un’insofferenza per le frasi sciatte, ma forse ciò che detesta di più è l’antilingua, quella che non dice, che impedisce la comunicazione, e dunque le relazioni. Aveva ragione Nanni Moretti: chi scrive male, pensa male e vive male.

C’è inoltre nel romanzo di De Silva un’analisi dettagliata dell’estraneità che spesso nel matrimonio genera solitudine e che deriva dall’incapacità di inventarsi.

Fosco avverte profondamente l’amarezza che gli rimane per essere piombati nella peggiore estraneità: quella fra due persone che non si spiegano come abbiano fatto a vivere per tanti anni con qualcuno con cui non hanno più niente da dirsi.

E aggiunge, ricordando i giorni della sua relazione con Alice: la pratica dello stillicidio da cui ogni volta rinasceva l’amore si era sciolta nella quotidianità della convivenza. Trascinare una lite e non guardarci in faccia per ore finché un dei due non si stancava e bastava una carezza per ritrovarci era una manutenzione sentimentale a cui avevamo smesso di ricorrere. Forse a questo servono i matrimoni. A disimparare. A non inventarsi più niente.

Finita la fase del rapimento passionale, il matrimonio appare come il luogo in cui l’invenzione viene meno, prevale l’incapacità di trovare ancora qualcosa per cui valga la pena lottare (invenio significa “trovare qualcosa dentro”). La relazione coniugale può diventare solitudine. Lo notava anche Roland Barthes: il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine. E riportando una frase di Nietzsche, Barthes scriveva a proposito del rapporto tra due persone che si sono amate: eravamo amici e ci siamo diventati estranei. Noi siamo come due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada; possiamo benissimo incrociarci, forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e i soli ci hanno mutati.

Non riconoscersi, non saper trovare nell’altro qualcosa di familiare, non riuscire ad avere l’intimità necessaria: è quello che Magritte rappresenta nel suo noto quadro Gli amanti.

Dobbiamo dunque rassegnarci alla fine del sogno, al crollo dell’utopia del non lasciarsi mai? Oppure c’è un modo per tornare capaci di inventare, di trovare dentro l’altro qualcosa che ci appartiene e che siamo in grado di riconoscere come affine a noi?

Spesso si dice che in un matrimonio occorre tolleranza. Ma Fosco non sarebbe d’accordo: durante un’intervista, infatti, spiega che a lui la parola tolleranza proprio non piace e che persino nella Costituzione non esiste: la Costituzione non tollera, riconosce.

Forse la chiave sta tutta qui: riconoscere l’altro, lasciare che sia. Meno Ego e più Noi. Inventarsi e riconoscersi.

A dire il vero, che cosa sia l’amore è un problema enorme, è una questione ampiamente dibattuta e forse non ha trovato ancore risposta, anche se quelli che parlano d’amore sono convinti di sapere tutto sull’amore, come De Silva scrive nell’incipit di Sono felice, dove ho sbagliato?

Carver nel suo racconto Di cosa parliamo quando parliamo d’amore nota che tutte le conversazioni sull’amore, tutto questo amore di cui parliamo è solo rumore umano. Nessuno sa che cosa sia l’amore e definirlo è quasi impossibile. Eppure in questo romanzo scritto per parlare delle macerie di un amore, Fosco arriva a sentire profondamente che cosa sia l’amore, anche quando finisce.

Se le parole sono importanti per raccontare la fine di una relazione, non sono invece i discorsi a dare sostanza all’amore. Anzi. La tradizione ci insegna che spesso le parole e i bei discorsi nascondono le peggiori intenzioni: è quello che Medea rinfaccia a Giasone nella tragedia euripidea: ora non venire con quella maschera di rispetto rivolta a me e l’aria di uno abile nel parlare (v.586). La parola spesso è una maschera, non è affatto espressione di sincerità: εὐσχήμων (euschémon) è l’aggettivo che indica l’atteggiamento ipocrita di chi si finge buono nell’aspetto (eu, avverbio che traduce il concetto di “buono” + schema, aspetto) attraverso un uso ambiguo e manipolatorio delle parole.

Giuseppe Pontiggia – intellettuale che De Silva stima e cita nel suo romanzo – scriveva in Nati due volte“Parliamoci chiaro”. Ho sempre temuto questa frase, che non è mai un invito alla trasparenza, ma l’apertura delle ostilità.

Per amarsi non servono tante parole, ma forse una sola, come dice Elsa Morante citata in esergo dall’autore: la frase d’amore, l’unica, è: “hai mangiato?”.

Ci sono episodi nel romanzo di De Silva, a questo proposito, molto indicativi. Uno, in particolare, riguarda due personaggi minori del romanzo, Innocenzo e Cristina, due amici che Fosco ritrova nel suo paese d’origine. Mentre sono seduti in silenzio, Cristina offre a Innocenzo uno spicchio d’arancia: piccole cose, gesti, sguardi più autentici di tante parole. Dice Fosco: ho sempre pensato che fosse quello il modo di amarsi. Sono queste le cose che fanno la punteggiatura della convivenza.

 I titoli di coda di una vita insieme è anche un romanzo sul senso della perdita. A un certo punto Fosco ha una conversazione con la sorella sulla vendita della loro casa estiva, vendita di cui Fosco è pentito. E la sorella gli dice una frase che lo fa riflettere: hai perso una casa, e allora? Tu ci campi di questo. Non si scrive forse per raccontare quello che si è perso? Fosco avvia allora una seria analisi interiore: uno scrittore non colleziona cimeli. Tiene le cose che ha perduto in una stanza interiore dove nessuno può entrare.

Spesso si associa la perdita a una condizione luttuosa, di definitiva irrecuperabilità. Invece non è proprio così. C’è un verso di Montale, che in Piccolo testamento (da La bufera e altro) scrive:

una storia non dura che nella cenere

e persistenza è solo l’estinzione

Ciò che siamo oggi deriva anche da quello che abbiamo perso.

Persistenza è solo l’estinzione

 Nulla finisce mai davvero. Le cose esistono. Sono affetti. Rimorsi. Oppure promesse, il più delle volte non mantenute, osserva Fosco.

Alcune cose poi, sono simboli, ci dicono: ho avuto un posto nel cuore di un altro. Perché una sola cosa vogliamo, arrivati alle sette di sera della vita: sapere che qualcuno ci ha amati.

In questo romanzo che è molto ancorato alla realtà c’è tuttavia un profondo tratto simbolico che vale la pena sottolineare.

Dopo due anni dalla separazione Alice, lontana per un convegno, chiede a Fosco di andare a casa sua per controllare la chiave di arresto dell’acqua. Fosco vede un libro di Alice, lasciato sul divano, e lo chiude dopo aver fatto un’orecchietta per conservare il segno della pagina.

I libri si chiudono, come le nostre storie, le nostre relazioni.

Ma alla fine ciò che conta è conservare il segno tra le pagine di una vita scritta insieme, perché lasciarsi non vuol dire perdersi, cancellarsi, annullarsi.

                              Teresa D'Errico 

domenica 2 febbraio 2025

TRITE PAROLE

        IL SUR

… l’odore del gelsomino e della madreselva,

il silenzio dell’uccello addormentato,

l’arco dell’androne, l’umidità

– queste cose, forse, sono la poesia.

J. L. Borges, Il Sur da Fervore di Buenos Aires, in “Poesie 1923 – 1976”.


Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

E. Montale, Non chiederci la parola da Ossi di seppia, 1925.


Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza 

di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo.

Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. Naturalmente per ragioni pratiche.

P. P. PasoliniComunicato all’Ansa (Scelta stilistica), da Trasumanar e organizzar, 1971.





In principio fu il μύθος: la parola come espressione del fantastico e perciò opposta al λόγος che implica, invece, l’argomentazione razionale.

Il termine μύθος ha la stessa etimologia di “mistero” e “mistico”, parole che derivano dal verbo μυέω, che significa “chiudo la bocca”. Μυέω indica l’atto di restare in silenzio, atteggiamento tipico degli iniziati agli antichi culti misterici. Se la poesia originariamente è μύθος, legata al mistero, alla sfera mistico-religiosa, il poeta è sacerdos, vate, portatore, cioè, di una verità ineffabile che solo lui conosce, che non può essere comunicata con gli ordinari mezzi espressivi e che perciò va affidata a formule oracolari, non necessariamente comprensibili, anzi, spesso volutamente ambigue, adatte cioè all’imperscrutabilità divina di cui il poeta-profeta è voce, in preda alla sua θεῖα μανία. In questa accezione la parola è poetica per il suo suono, per l’aura di mistero di cui è circonfusa, per la seduzione orfica che esercita.

Poi il μύθος è diventato ἔπος: la parola ha assunto significati dalla risonanza collettiva. È uscita dal mistero, è diventata λόγος (επ di ἔπος è un tema verbale di λέγω, il verbo che significa “dire” e  da cui deriva λόγος, che in greco indica sia la parola sia la ragione). La parola deve dunque “dire”, non nascondersi in versi sibillini.

Infine nel secolo della democrazia e della rivoluzione culturale d’età periclea, la parola ha preso possesso della dimensione pubblica, è scesa in piazza, è entrata nell’ἀγορά, vocabolo che deriva, sì, da ἀγείρω, “raccolgo, raduno” per indicare l’area fisica delle assemblee, ma pure, e forse più appropriatamente, da ἀγορεύω, “parlare in pubblico”: la piazza  è il luogo del confronto e della comunicazione aperta, il luogo dei molti (πολ-, prefisso che si riferisce alla pluralità, è la radice di πόλις, la dimensione dei molti): la parola non indica più il mistero cui hanno accesso i pochi, non è più indicativa di una verità esclusiva e escludente. Diventa “parabola” che unisce, il ponte di chi fa dono di ciò che sa e sente e dice, per raggiungere l’altro versante, quello di chi ascolta e a sua volta dirà: comunicare (da cum + munus, “dono”) è mettere in comune, aprirsi.

La poesia è dono, anche se questa apertura all’altro non rinuncia mai a quell’alone di indefinitezza che consente a chi legge di essere comunque co-autore nel processo di costruzione di sensi possibili.

I versi come ombre, suoni belli e seducenti, quelli che si originano negli abissi insondabili, le profondità misteriose in cui, peraltro, Orfeo ha perso tutto, i versi del vuoto, del caos, dell’onirico, la poesia “pura” come la tradizione avanguardistico-ermetica l’ha battezzata, è quella nata dagli irrazionalismi che poi si sono tradotti in incendiari messianismi, come diceva Gobetti, insomma, nei peggiori -ISMI della Storia.

La poesia non è enigmistica criptica che fa del difficile e dell’incomprensibile la turris eburnea per chi non ha niente da dire a nessuno. Non è il palpito fugace dell’istante. Non è evanescenza. Orazio la chiamava monumentum: da maneo, perché resta; da memini, perché se è poesia vera non si dimentica.

La poesia è la dimensione della parola responsabile che ha il coraggio di dire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, con chiarezza, con la sintassi tradizionale, con la consapevolezza che l’originalità a tutti i costi è una gabbia e che la novità è la cosa più vecchia che ci sia, come dice Benigni in un suo noto film.

La poesia non ha paura di essere semplice, chiara, diretta: “amai trite parole che non uno / osava. / M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo”, notava Saba, spiegando che la poesia deve essere onesta e capace di tradurre quella verità che giace al fondo e che ogni essere umano sente nel cuore. E la parola onesta sa dire l’angoscia della retta via smarrita, la fatica di muoversi nella selva selvaggia del mondo, i rapimenti dei sensi e dell’anima, l’inadeguatezza di fronte all’ineffabile, lo spleen di una realtà che mortifica ogni aspirazione. La parola onesta dice tutto questo anche quando si professa impotente. Lo dimostra, con un umorismo quasi sfidante, con una chiarezza semplice, Patrizia Cavalli:


Qualcuno mi ha detto

che certo le mie poesie

non cambieranno il mondo.

 

Io rispondo che certo sì

le mie poesie

non cambieranno il mondo.

(P. Cavalli, Qualcuno mi ha detto da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)

 

La poesia non si nasconde mai dietro i bizantinismi che con il profluvio verbale occultano il nulla e rivelano il loro assoluto inanismo. Si obietterà che spesso, però, il nulla è il messaggio. Il punto è che per dirlo non servono scelte criptiche, è sufficiente la limpidezza lapidaria di versi montaliani come “il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”.

Tradizionali? Forse. Certamente sinceri.


Il poeta ha sempre un compito. Non può chiudersi in un’egoarchia solipsistica, deve “fare” (poesia deriva da ποιέω, “fare”), non certo nel senso letterale del termine. Deve dare forma a questo mondo informe: non risolvere, ma destare il desiderio di un altrove possibile, di un altrimenti. Può suggerire alternative, valori diversi da quelli correnti, come fece Saffo (fr. 16 Voigt) che al militarismo imperante oppose coraggiosamente la forza dell’eros, del desiderio:


Ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον, οἰ δὲ πέσδων,
οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν’ ὄτ-
τω τις ἔραται…

Alcuni di cavalieri un esercito, altri di fanti,
altri di navi dicono che sulla nera terra
sia la cosa più bella, mentre io ciò che
uno ama…

 

 

 La poesia è parto. Genera vita.

                                                                                   Teresa D'Errico

 

 

 

martedì 2 luglio 2024

ENRICO GALIANO - UNA VITA NON BASTA

 

I'm in love / with my future.

(…)

Just wanna get to know myself.

B. Eilish, My future

 

Una vita non basta è il racconto delle incertezze dell’adolescente Teo, deluso dalla scuola che lo boccia, impacciato nelle relazioni con le ragazze, incompreso dalla sua famiglia complicata. Fanno da sfondo a questo libro i frequenti riferimenti ai romanzi di S. King – di cui Teo è un vorace lettore – e la musica di B. Eilish, che nel testo di My future sintetizza le ansie di una generazione di giovanissimi sopraffatti da un presente ingombrante, proiettati ansiosamente verso il futuro e in cerca di sé stessi.

Una vita non basta descrive lo smarrimento che travolge i giovani, ma ha un forte impianto propositivo: è un romanzo sulla solitudine e sui modi per superarla, analizza le tensioni relazionali, ma anche le possibilità concrete di (ri)costruire legami nonostante le barriere che la vita innalza, scruta i silenzi che ci separano, però nello stesso tempo suggerisce una via d’uscita dall’afasia nella capacità di restituire valore alla parola, al dialogo.

Incontro, parola, cura sono i tre concetti-chiave su cui Galiano punta per costruire un libro in grado di far virare la letteratura italiana contemporanea dal naufragio postmoderno verso la proposta di un senso possibile, nonostante il caos della Storia, delle nostre storie. Come scriveva Calvino, non si tratta di negare il labirinto, ma di sfidarlo.

Di fronte alla caduta delle solide verità, la letteratura ha risposto finora con il racconto di grandi disorientamenti, di insuperabili solitudini, dell’incomunicabilità senza riparazione.

Dalla lontananza affettiva dei verghiani Gesualdo Motta e Isabella, al solipsismo dei personaggi pirandelliani, dal bacio impossibile tra Gli amanti di Magritte, all’incontro mancato tra Baudelaire e la sua memorabile passante dalla bellezza fuggitiva, fulminea e inafferrabile, fino alla ben nota solitudine dei numeri primi, l’incontro con l’altro difficilmente ha superato lo stadio del conato, del tentativo, del passo frenato e abbiamo assistito di fatto alla sua evaporazione piuttosto che alla sua realizzazione.

Anche laddove l’incontro sia riuscito a trovare una strada (N. Ammaniti, Io e te), raramente è diventato – per circostanze certo non riconducibili alla volontà dei protagonisti – un rapporto concreto, è rimasto piuttosto un’epifanica rivelazione, un illuminante suggerimento su possibili alternative alle prospettive consolidate, ma rimane comunque un incontro che finisce. Non ha futuro. Forse lascia un segno, ma non dura nel tempo. E quello che resta al lettore, dell’incontro, è solo il bisogno, la triste conseguenza della sua mancanza, la nostalgia per un vuoto non colmato.

E invece, con una storia apparentemente semplice, vicina al vissuto quotidiano di molti adolescenti,  Galiano inverte la rotta.

In Una vita non basta non solo l’incontro è possibile, ma diventa il vero protagonista della vicenda narrata, si realizza, e con la sua forza costruttiva è in grado di imprimere una svolta decisiva alla vita di Teo.

L’incontro che costituisce il fulcro del romanzo, avviene in un parco pubblico tra il giovane Teo - addetto a lavori di pulizia socialmente utili per effetto di una sanzione disciplinare - e il professor Bove, un uomo dal passato oscuro, misterioso, certamente doloroso.

Tra coinvolgenti conversazioni e dialoghi di stampo maieutico, in perfetto stile socratico, il giovane Teo è gradualmente condotto dal prof. Bove alla scoperta di sé.

Nell’era del dominio tecnologico che non risparmia neanche la scuola, Bove riesce a tener desta l’attenzione di Teo con strumenti infallibili e intramontabili: la parola, l’ascolto, il confronto, il dialogo. Attraverso l’esempio di Bove, Galiano dimostra chiaramente che senza le parole, la lezione è vuota, come scrive G. Zagrebelsky non suo agile saggio La lezione.

C’è nello stile di Galiano una sensibile impronta classica, che non si limita ai miti che Bove attualizza nelle sue anticonvenzionali conversazioni con Teo. La didattica di Bove è una vera e propria sintesi del socratismo, racchiude l’essenza del percorso che ognuno di noi dovrebbe compiere – come recentemente ha dimostrato Goleman nello studio da lui condotto sull’intelligenza emotiva degli esseri umani – per la costruzione del proprio rapporto con la vita e con gli altri. I punti che Galiano nel suo libro affronta sono riassumibili in pochi, ma fondamentali imperativi:

-    - conosci te stesso, per imprimere alla vita la direzione che tu intendi darle;

- - ascolta il tuo daimon, quella cosa che ti urla dentro, che ha un potenziale enorme e che, se ben indirizzata, diventa fonte di creatività;

-   - vivi secondo misura, imparando a conoscere le tue capacità, i tuoi limiti, i sogni veramente tuoi, senza farti catturare da quelli spacciati da una società che adesca e distrugge;

 - non pretendere di avere sempre tutte le risposte: una vita non basta a trovarle...

Galiano attraverso Teo si rivolge al pubblico giovanile, invitandolo ad affrontare la vita con il coraggio che nasce dalla forza di affrontare anche i propri lati fragili. L’esortazione è quella di abbandonare l’abitudine a volare basso per paura di cadere, di non adattarsi mai alle sirene del quieto vivere, di non aver timore, dunque, di nutrire sogni, di impegnarsi a realizzarli, anche se questo implicherà il rischio di errori o insuccessi.

Galiano, però, dando vita al personaggio di Bove, si rivolge anche a un pubblico di adulti, ai genitori, ai docenti, a coloro che hanno responsabilità educative e compie un’azione di coraggiosa emancipazione dal mito didattico del mentore carismatico, sul modello del prof. Keating, protagonista del noto film americano L’attimo fuggente.

Bove è l’evoluzione di Keating, rappresenta il suo volto migliore: liberato dal narcisismo che attraverso il motto “capitano, mio capitano”, trovava in Keating una perfetta incarnazione, Bove è invece un uomo che ha fatto dei propri errori un’occasione di crescita, di presa di coscienza. Bove con la sua vita dimostra che la saggezza si conquista sbagliando.

Keating si è spinto dove non doveva, troppo oltre: ha alterato in giovani ancora impreparati alla vita, equilibri fragili e instabili, ha finito con l’avere sulla coscienza il suicidio di uno studente, ha forse generato in lui l’ansia di raggiungere la meta, privandolo così del piacere del viaggio. Bove, invece, sa bene che un docente può trasformarsi nell’inferno per qualcuno se con le sue parole non calibrate si spinge verso limiti che non vanno valicati. È perfettamente consapevole del fatto che insegnare è un terreno scivoloso e che il confine tra carisma e manipolazione è sempre molto labile. Keating probabilmente questo confine l’ha oltrepassato, infondendo nei suoi studenti una vorace ansia di esperienze senza fornire loro i mezzi per la gradualità necessaria a viverle. Bove, al contrario, ha saputo individuare la giusta misura, insegnando al suo Teo, sulla scia di Orazio, che la vita è un eterno ritmo tra salite e discese: non, si male nunc, et olim sic erit,  "se adesso va male non sarà così anche in futuro". E diversamente da Keating, per Bove carpe diem non vuol dire premere l’acceleratore sulla vita, ma saper eternare quell’attimo che davvero conta.

Attraverso il personaggio di Bove, Galiano restituisce alla figura del docente la funzione di Maestro: in quel venite con me che rivolge agli studenti, nella sua scuola a cielo aperto, senza voti e senza registri, Bove dimostra che nella parola c’è qualcosa di salvifico che nessuna Intelligenza Artificiale o sofisticata, avanguardistica, tecnologia didattica potrà mai riprodurre. Cristo, che con la parola si è sempre identificato, con il suo venite con me ha incoraggiato i discepoli a usare la parola per curare anime, lenire dolori, riscattare quanto di umano c’è nella vita.

La parola è cura dell’Altro, con la parola si costruiscono i legami di humanitas su cui si reggono le democrazie migliori, perché, scrive Galiano, non esiste persona senza il sostegno di un’altra persona. Lo diceva anche Terenzio nel I secolo a. C.: homo sum, humani nihil a me alienum puto, “sono un essere umano, niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me”. In fondo la scuola proprio questo deve insegnare.

                        Teresa D'Errico 

(Cfr.: https://www.glistatigenerali.com/letteratura/enrico-galiano-una-vita-non-basta/)


giovedì 13 giugno 2024

FRANCESCO CAROFIGLIO - LA STAGIONE BELLA

 

La stagione bella è un romanzo intenso e propositivo: pur senza sottrarre nulla alla profondità del dolore che attraversa l’esistenza umana, F. Carofiglio suggerisce che esiste comunque un altrove possibile, una stagione bella, una frontiera dell’oltre che, certo, sta a noi saper raggiungere.


La protagonista, una giovane donna, Viola, nel suo laboratorio crea fragranze che sono per lei qualcosa di più che semplici profumi: lei le definisce una strategia terapeutica, aprono le stanze segrete dell’inconscio, raccontano le emozioni senza passare attraverso le regole dell’intelletto. Infatti Viola, laureata in psicologia, consente ai suoi clienti di recuperare le loro memorie olfattive: attraverso le fragranze li riconnette con il loro mondo interiore, con il loro passato, liberando dal rimosso emozioni nascoste.

Viola ha perso recentemente la madre, Barbara. Perciò è prostrata dal lutto, ma trova momenti di sospensione alla sua amarezza nuotando: l’acqua è la sua libertà.

Mentre riordina la casa materna, un giorno, per caso, trova una scatola che contiene lettere e fotografie della madre, persino registrazioni della voce di Barbara, ancora ragazza, studentessa alla Sorbona di Parigi. La sua voce allegra, il suo volto sorridente, portano Viola a una presa di coscienza: lei della madre non sa niente, così felice non l’ha mai vista. C’è un pezzo di vita di Barbara che a Viola è ignoto e che però la riguarda. Viola comprende che senza memoria c’è il buio, anche sulla sua vita, anche sul suo presente.

A questo punto inizia la quête di Viola, un percorso di ricostruzione del passato della madre e soprattutto di ricerca di quel padre che a Viola è sempre mancato, che lei non ha mai conosciuto e di cui la madre non ha mai voluto parlare. Da questo viaggio a Parigi alla ricerca di risposte, da questo percorso di autocoscienza, per Viola nasceranno nuove prospettive su di sé e sul senso del dolore.

La scelta di intersecare il lavoro di olfattivista con quello di psicologa trova nel romanzo un input letterario. La protagonista dichiara di essersi ispirata, infatti, a un racconto di Calvino, Il nome, il naso (che fa parte della breve raccolta Sotto il sole giaguaro): come il personaggio di Calvino, anche Viola cerca di dare un nome a una commozione dell’olfatto. E si tratta di un impegno nobilissimo. Oggi siamo terribilmente dipendenti dalla dimensione visiva e in cerca di visibilità, che è  stata ormai messa da parte la capacità orientativa dell'olfatto. Calvino scriveva che abbiamo dimenticato l’alfabeto dell’olfatto e così i profumi resteranno senza parola, inarticolati, illeggibili e con loro anche le emozioni ad essi collegate. Rischiamo di diventare analfabeti emotivi. Calvino nel suo racconto nota che in passato, quando noi esseri umani non eravamo ancora completamente evoluti e vivevamo a contatto con la terra, tutto quello che dovevamo capire lo capivamo col naso prima che con gli occhi … il cibo il non cibo il nostro nemico la caverna il pericolo tutto lo si sente prima col naso, tutto è nel naso, il mondo è nel naso … l’odore subito ti dice senza sbagli quel che ti serve sapere. La storia umana invece ha ridotto il nostro “rapporto olfattivo” con la realtà, nell’era dell’homo videns, il naso ormai conta poco. E invece per Viola il profumo funziona come una madeleine proustiana, attiva memorie e emozioni.

Al di là dello studio che Viola conduce sulla dimensione interiore delle persone che frequentano il suo laboratorio, il tema dominante del libro di F. Carofiglio è il rapporto tra Barbara e Viola, madre e figlia: un legame strettissimo, fatto, sì, di profondo amore, ma anche di ombre. Con Barbara Viola ammette ossimoricamente di aver avuto un legame insano e perfetto. Il loro è un rapporto caratterizzato da parole dette e svanite, da molti silenzi. La giovane donna sul letto di morte di Barbara riflette sul suo legame con la madre: penso alla sua vita, alla mia, così annodate. ANNODATE è un aggettivo ambiguo: indica due vite unite, sì, ma pure non lineari, fatte cioè di nodi non sciolti che pesano. 

Se del padre Viola ha subito l’assenza, della madre invece dice, con un peso sul cuore, non riesco a ricordare quasi nulla che non contempli la sua presenza. Barbara è stata una madre forte, lei ha imposto alla figlia il nuoto (certo poi Viola lo ha amato, è diventata la sua passione, ma si è trattato in origine di una scelta della madre) anche nei momenti più delicati: Viola ricorda con terrore il giorno in cui ha detto a Barbara di non sentirsi bene, ma la madre senza dare peso alle parole della figlia, l’ha spinta a nuotare ugualmente, non l’ha ascoltata, e nella memoria della ragazza ora c’è solo una piscina allagata di sangue. Quello ricordato da Viola è il giorno del suo primo ciclo mestruale. E ora, dopo anni, questo trauma non si cancella: ti odio, mamma, ti odierò per sempre.

Barbara ha tenuto stretta a sé Viola, non ha fatto entrare nessuno nella loro vita: non abbiamo bisogno di nessuno, tu e io, ha sempre ripetutoUn microcosmo, una prigione? Il lettore scoprirà che Barbara ha solo cercato, per tutta la vita, di proteggere sua figlia, per infinito amore, da un infinito dolore. Ma Viola ancora non lo sa. Lo capirà dopo e rivolgendosi idealmente alla madre morta, ammetterà: mi hai protetta ferocemente.

M. Recalcati nel saggio Le mani della madre, scrive che l’eredità materna riguarda il sentimento della vita. Dalla relazione con la madre deriva il nostro rapporto con la vita. E quella che Barbara ha trasmesso a Viola è un’eredità emotiva complessa, che ha lasciato segni, cicatrici, insieme a un profondo amore.

L’anatomia del dolore di Viola condotta dall’autore rende La stagione bella un romanzo profondamente ovidiano. A Ovidio, infatti, ci sono riferimenti espliciti: viene citato chiaramente l’Ovidio delle Metamorfosi. Ma il libro di F. Carofiglio è ovidiano per un particolare meno esplicito, eppure, forse, più importante, per una frase che condensa il senso di questo romanzo. Quando Viola si reca a Bari per incontrare l’amico Matteo, poliziotto, da cui spera di avere aiuto nella ricerca del padre, Viola dice a se stessa, stanca di soffrire: questo momento passerà e questa sofferenza mi sarà utile.

Questa sofferenza mi sarà utile è la traduzione di un verso degli Amores di Ovidio: dolor hic tibi proderit olim, “un giorno questo dolore ti sarà utile”.

Viola sta capendo che con il dolore bisogna imparare a convivere per rinascere: è questa la lezione che F. Carofiglio ricava anche dal KINTSUGI, l’arte giapponese che ripara i vasi rotti lasciando in evidenza le crepe, decorate con oro, affinché si vedano. Il vaso riparato è però un vaso nuovo.

Nella vita è così, tutto si trasforma: è il principio ovidiano delle Metamorfosi, omnia mutantur, tutto cambia, anche il dolore. Le ferite a un certo punto smettono di sanguinare e diventano cicatrici.

Dopo aver svuotato la casa della madre e riverniciato le pareti di bianco, Viola dice non so ancora cosa ne farò, ma adesso è una casa vuota, e piena di luce. La stagione bella è quella del cambiamento, della speranza, che non cancella il dolore, ma lascia spazio alla luce, se si impara a perdersi nei propri desideri, se si riesce a riconoscerli e ad ascoltarli. E questa è una delle eredità emotive che Barbara ha lasciato a Viola: se ci perdiamo scopriamo i segreti delle città. Nella nostra vita dobbiamo imparare ad attraversare le strade dei nostri desideri, al di là degli schemi razionali.

Inoltrarsi nella lettura de La stagione bella significa incontrare numerosi e stimolanti riferimenti letterari. In particolare colpiscono le molteplici citazioni di Virginia Woolf, tratte da Mrs Dalloway, da Orlando. Il romanzo si apre in esergo con una frase del più sperimentale dei libri di V. Woolf, Le onde: e se finisse qui la storia?/ Con una specie di sospiro?

Le onde è il romanzo di V. Woolf che meglio ritrae la mutevolezza della vita, la sua mancanza di linearità, la molteplicità delle prospettive che la connotano, il flusso ininterrotto con cui l’esistenza si manifesta e scorre, la sua atomizzazione in frammenti dispersi che non si lasciano ricomporre in un quadro definito e completo. E Viola se ne rende conto, gradualmente: niente somiglia a quello che è stato. La vita scorre, le cose cambiano, omnia mutantur.

Sospeso tra Ovidio e V. Woolf, la stagione bella sembra suggerire che la chiave interpretativa delle nostre vite sta proprio nel deporre la pretesa di definire tutto, di definirci. Forse è questo che va accettato: essere un po’ flaneur dentro la propria vita e avere la forza di vivere come Ginevra, un personaggio secondario de La stagione bella, ma a cui F. Carofiglio riserva uno spazio fondamentale. Ginevra è una donna anziana, libera da formalismi e ipocrisie, ha avuto amanti e un passato abbastanza spregiudicato. In Ginevra, nel suo essere senza filtri, nell’aver capito che non esiste un modello di vita ideale, assoluto, giusto, cui attenersi, Viola vede un punto di riferimento. C’è una frase dal valore epifanico con cui Ginevra assolve il padre che a lungo ha disprezzato: ognuno è quello che riesce ad essere. E questa è la profondissima rivelazione che colpisce Viola e forse la cambia per sempre. È in questo momento che inizia la svolta di Viola verso la speranza che un’altra vita è possibile e che bisogna accettare anche l’imperfezione, l’indefinitezza, le asimmetrie dell’esistenza.

In definitiva potremmo considerare La stagione bella un romanzo sulla ricerca della felicità. Sei felice? è la domanda che Viola rivolge all’amica Valeria, ma più probabilmente a sé stessa.

Verso la fine del libro di F. Carofiglio c’è un’immagine che monopolizza l’attenzione di Viola, giunta in Bretagna per le sue ricerche: l’oceano è di piombo, le onde si infrangono sulla scogliera, un paio di uccelli marini si lanciano a precipizio sott’acqua, riemergendo subito…

Nel dolore si precipita, dal dolore si riemerge.

Omnia mutantur, πάντα ῥεῖ.

                                                                                                                   Teresa D'Errico

(Cfr.: https://www.glistatigenerali.com/letteratura/francesco-carofiglio-la-stagione-bella/ )

 

venerdì 17 maggio 2024

L'ARCO NASCOSTO - POESIA INEDITA DI IDA LUCIA MUSCI

 

Poesia, dal nulla salvami

dalla droga del vacuo

e dell’effimero.

Ridammi l’anima…

(Ida Lucia Musci, Poesia)

Nell’era del digitale, della tirannide mercatista che definisce valori solo quelli funzionali all’economia, in un presente travolto dalle seduzioni della società dello spettacolo, dai vantaggi di uno sviluppo che si rinnova senza soste lasciando però macerie dietro di sé, in una società sul punto di implodere per il cumulo di errori che la sopita memoria storica non ha saputo riconoscere, forse, come già presagiva Montale, non c’è più spazio per la poesia: in un mondo del genere, diceva il poeta ligure ritirando il Nobel, che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo.

Senza dubbio è vero, oggi l’attenzione per la poesia è ridotta. 

La poesia è arte difficile, richiede tempo … e la lentezza è un principio che confligge profondamente con la cultura fast che connota il nostro tempo. Tuttavia scrivere versi resta una delle inclinazioni più profonde dell’animo umano, per alcuni è quasi un’esigenza e forse in un’epoca di profonda crisi dei fondamenti come la nostra, proprio i dubbi dei poeti, i loro slanci propositivi, il loro dolore così vicino a noi, le loro speranze, labili, sì, ma pure espresse, ci salveranno dal vacuo e dall’effimero cui la Storia ci sta consegnando.

Sono i versi dei poeti, la loro voce, la forza della parola scritta che consentono – come nota J. Cortázar - di trovare strade che ci aiutino ad andare avanti quando ci sentiamo frenati da circostanze e fattori negativi che oggi il presente purtroppo non lesina. Sono i poeti che ci donano quello che Borges chiamava il miracolo segreto, la porosità cioè di un tempo che dietro l’apparente suo svolgersi ciclico e cronologico, è fatto di epifanie, dilatazioni, soste, varchi, lampi e miraggi: è lì che si annida la Poesia a cui I. L. Musci si appella e che con apostrofe diretta chiama in causa: dal nulla salvami, ridammi l’anima.

A questo serve la Poesia, forza irrinunciabile anche nei tempi in cui sembra più facile appendere le cetre alle fronde dei salici: a restituire l’anima al nostro tempo del disamore.

Nella silloge ancora inedita di I.L. Musci, intitolata Ascolterò le sinfonie delle stagioni, gli spunti di riflessione sono molteplici. Tra rimandi montaliani e baudelairiani, accanto a una personale rivisitazione della migliore tradizione lirica, c’è in particolare un componimento, (L’arco nascosto) che con originalità, delicatezza e acuta lucidità riesce a cogliere quello che l’essere umano da sempre cerca: un varco – lo chiamerebbe così Montale – che consenta a ciò che conta di avere spazio.

L’ ARCO NASCOSTO

Maria dalle mani gonfie per l’artrite

quella che abitava all’arco nascosto

ha passato i suoi giorni

a cuocere verdure e sciorinare bucati.

Ha visto e curato figli e nipoti

ed ha parlato con le vicine del tempo

e della processione del patrono,

né mai ha svelato Orione all’orizzonte

e il sole che cade nel mare della sera;

né ha pensato con Cartesio

pianto con Leopardi

provato il brivido

dell’ Eterno Ritorno

che, solo, poteva consolarla

nel momento di andare.

Pure è stata felice

in un giorno, in un’ora;

ha riso alla vita

e al nuovo sole

senza chiedersi se fosse il suo.

Ma io che vedo

che conosco e so

conto costellazioni

leggo poeti

cerco auspici di voli

vorrei lasciare tracce

e possedere silenzi e aperti cieli,

non riesco a trovare

il mio posto nel mondo

e, nel tempio di memorie,

la mia festa perfetta. 

L’alta sapienza è inutile

nel mio arco nascosto:

dovrò saper cercare

a testa china

pietre sconnesse

per conoscerle

amarle

e non cadere.

 

L’immagine di Maria intenta al suo lavoro ordinario  - cuocere verdure e sciorinare bucati – ha un enorme potere rivelativo e avvicina questa umile donna che abitava all’arco nascosto, ai grandi della letteratura.

C’è un passo di Cent’anni di solitudine che chiarisce ciò che nella sua inconsapevole acutezza Maria comprende bene:

In quella notte interminabile, mentre il colonnello Gerineldo Márquez rievocava i suoi pomeriggi morti nella stanza da cucito di Amaranta, il colonnello Aureliano Buendía grattò per molte ore, cercando di romperlo, il duro guscio della sua solitudine. Gli unici istanti di felicità, dal pomeriggio remoto in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio, li aveva trascorsi nel laboratorio di oreficeria, dove passava il tempo montando pesciolini d'oro. Aveva dovuto promuovere trentadue guerre, e aveva dovuto violare tutti i suoi patti con la morte e rivoltarsi come un maiale nel letamaio della gloria, per scoprire con quasi quarant'anni di ritardo i privilegi della semplicità.

Esattamente come il principe di Salina nel Gattopardo, Aureliano Buendia sta cercando di individuare i momenti della vita in cui è stato felice, fa un bilancio esistenziale: sta isolando attimi e istanti, sta eliminando tutto il superfluo.

Anche Tomasi di Lampedusa infatti fa dire al suo meditativo personaggio che voleva raggranellare fuori dall’immenso mucchio di cenere delle passività le pagliuzze d’oro dei momenti felici e perciò si provò a contare per quanto tempo avesse in realtà vissuto.

Pesciolini d’oro per Marquez, Pagliuzze d’oro per Tomasi di Lampedusa: due immagini simboliche che evocano qualcosa che brilli nel grigiore della vita. Maria nella sua ordinaria quotidianità l’ha saputo trovare: ha saputo ridere alla vita, scorgendo la luce del nuovo sole senza chiedersi se fosse il suo, non ha cercato risposte nell’alta sapienza, nella saggezza dei filosofi o nella cabale delle costellazioni. Ma ha curato, ha parlato: così è stata felice. Ha trovato l’essenza dell’umano nella cura, nell’amore, nella parola, nell’incontro, nella capacità di ridurre le distanze con l’altro.

Quelle di Aureliano Buendia, del principe di Salina e di Maria sono sottrazioni volontarie: consistono nell’isolare quei momenti della nostra esistenza, recuperare dall’archivio della memoria quegli attimi in cui la vita è stata degna di essere vissuta. Maria con la sua aderenza all’autenticità dell’esistenza, lo ha capito.

Noi nasciamo, cresciamo e cerchiamo di aggiungere, accumulando investimenti materiali, esperienze connesse al lavoro, al divertimento, alla realizzazione di noi stessi in molteplici ambiti, perché consideriamo – da sempre – l’addizione come un’acquisizione positiva (in matematica si segna con un +). La sottrazione al contrario tende ad essere vista come perdita, un meno in matematica, al punto che nel linguaggio giuridico parliamo di sottrazione addirittura per indicare un atto criminoso, un furto.

Invece Aureliano Buendia scopre una verità sconvolgente, con quasi quarant’anni di ritardo, ma la scopre: i privilegi della semplicità. E questa luminosa evidenza ha irradiato anche la vita di Maria.

I. L.Musci sa bene quanto pesino le noie dell’eccesso (in Miserere), è consapevole perfettamente del fatto che il pieno della vita ci ha reso vuoto il cuore  (ancora in Miserere)  così come Aureliano Buendia capisce che c’è troppo superfluo intorno a noi e che, invece, l’essenziale è fatto di poche cose, semplicità è la parola-chiave: sottrarre per isolare l’essenziale.

Nella vita IL MENO DIVENTA PIÙ se capiamo dove rivolgere la nostra attenzione e dedizione. Dobbiamo imparare a leggere l’esistenza con gli stessi occhi di Maria e capire che cosa veramente conta. Occorre saperla filtrare e passarla al setaccio, la vita. Orazio diceva alla sua Leuconoe  - nella famosa Ode I,11, nota come Carpe diem - sapias, vina liques: usava l’immagine del filtrare il vino per separare la parte buona da ciò che si deposita sul fondo. E rivolgendosi alla sua giovane, inesperta, amica Leuconoe il poeta le dice sii saggia, la esorta con il congiuntivo sapias, che prima ancora di significare, appunto, sii saggia, vuol dire “da’ sapore ai tuoi giorni” con un atto di attento discernimento nella costruzione della gerarchia di valori verso i quali orientare i giorni dell’esistenza.

La stessa cura e attenzione alla semplicità  ricorre nella Lattaia di Vermeer,

J. 
figura molto vicina alla Maria di I. L. Musci: il fiotto del latte e la ragazza acquistano una forza epica nel loro accamparsi al centro del quadro, dritti davanti allo spettatore. Nel gesto della Lattaia il tempo si ferma, un attimo insignificante si dilata all'infinito e racchiude il segreto della vita.

Il lavoro ben fatto della Lattaia, il gesto necessario di Maria (cuocere verdure e sciorinare bucati, curare figli e nipoti) ma anche quello non necessario eppure bello (parlare con le vicine del tempo e della processione del patrono) nel mondo che dispiega il suo caos sotto i nostri occhi, giorno dopo giorno: di queste esperienze elementari (la semplicità, dice Aureliano Buendia) è fatta la trama delle occasioni minime che compongono la nostra esistenza, occasioni minime che tocca a noi dilatare e riempire di senso. E per questo non serve Cartesio, scrive I.L. Musci, che con l’amarezza intensa dei Poeti dice a se stessa: ma io che vedo/che conosco e so/…/non riesco a trovare/il mio posto nel mondo. La conclusione cui giunge la poetessa è molto vicina alla dura constatazione di Pasolini quando nelle Ceneri di Gramsci ammette: io possiedo… io possiedo la storia … ne sono illuminato: ma a che serve la luce?

La verità che Maria sa cogliere nella sua schietta semplicità è che nella cura, nelle parole scambiate con le amiche è racchiuso ciò che veramente conta per l’essere umano.

E anche se la vita è fatta di pietre sconnesse, scrive la poetessa, vale la pena imparare ad amarle, perché è forse tra quelle sconnessioni che si nasconde il montaliano anello che non tiene, quella verità, cioè, che la logica ferrea delle leggi deterministiche non potrà mai cogliere e che, invece, solo la Poesia può far intuire.

In fondo, questo è la Poesia, suggerisce I. L. Musci, l’incerto tentativo di procedere sulla polvere di inutili giorni (in La mia strada) alla ricerca di una possibilità. Certo, l’arida foglia/ che rotola sui massi/ha perso linfa… ma pure ritroverà la terra/ germoglierà in future primavere./ Tutto ritorna dall’oblio/ per rinascere ancora (Oblivion)

Rinascere ancora. Sì, nonostante tutto, la poesia può rinascere ancora, per la speranza c’è ancora spazio.

Lo stile di I.L. Musci è denso: parte dalla realtà e fa delle cose del mondo emblemi di stati d’animo universali. L’osservazione va oltre il fenomeno e si spinge dentro l’esistenza: per esempio, il nostro labirintico cercare risposte che mancano, abbagliati da un sole che non illumina, ma, piuttosto, acceca e stordisce, è reso icasticamente con l’immagine di giri di serpi/ abbacinate dal sole (in Cosa resta?).

E questa capacità è propria degli artisti, è il talento di vedere quello che gli altri non hanno visto, o forse, meglio, come scrive R. Carver, è il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato.

                                                                                                                           Teresa D'Errico

 

 

 

 

 

lunedì 25 marzo 2024

RICCARDO CHIABERGE - LA FORMULA DELLA LONGEVITÀ

                     SCHEDA DEL LIBRO 

LA FORMULA DELLA LONGEVITÀ


La formula della longevità testimonia il grande lavoro di studio e di ricerca condotto da Riccardo Chiaberge per ricostruire la biografia di uomini e donne che hanno rivoluzionato la storia e ci hanno allungato la vita con le loro scoperte. Il testo di R. Chiaberge racconta la storia delle grandi intuizioni e invenzioni, non solo per i loro esiti vantaggiosi, ma soprattutto per il fascino del loro “farsi”: l'autore le illustra infatti nel loro nascere a volte grazie all'impegno tenace dei ricercatori, più spesso per improvvise e geniali illuminazioni, oppure per colpi di fortuna, per semplice caso, lampi di serendipity.

R. Chiaberge non si sofferma solo sulle grandi scoperte scientifiche e mediche da parte di scienziati già noti, ma scrive anche di personalità meno conosciute che con la loro curiosità, con i loro ideali e con le loro lotte per una maggiore giustizia sociale, hanno contribuito a rendere la vita umana più degna.

Pertanto il genere biografico scelto da Chiaberge per la Formula della longevità, non è mai celebrazione agiografica, ma si configura piuttosto come l’accurata e piacevole ricostruzione di vite complicate, di personalità sfaccettate, affascinanti, a volte spregiudicate, ma sempre molto vicine al mondo dei lettori proprio per le umane debolezze che caratterizzano i loro comportamenti e che l'autore non omette di descrivere. Raccontare la vita di personaggi in certi casi persino sgradevoli, ma che in varia maniera con il loro genio e la loro passione, hanno contribuito alle grandi svolte della vicenda umana, è un modo originale e accattivante di interrogarsi sul senso della storia.

La conclusione cui l'autore giunge è molto propositiva. Sebbene oggi sia stretto tra rischi di guerre, pandemie e minacce nucleari, questo nostro Occidente ha però conosciuto anche secoli di  progresso grazie al quale abbiamo imparato che non si può vivere in un ambiente malato e in un mondo ingiusto. Le biografie che Chiaberge propone ai suoi lettori dimostrano che la salda unione tra scienza, giustizia e amore per l'umanità è la chiave di volta per un progresso orientato al bene.

Nella Formula della longevità si alternano ironia, umorismo e ricostruzione storica. Il sapiente gusto per il racconto e la vocazione narrativa di Chiaberge catturano i lettori, trasferendo su di loro l’entusiasmo dell'autore per le conquiste intellettuali, politiche, scientifiche.

Il messaggio finale che l'autore affida al suo libro - tra realistica consapevolezza dei pericoli del presente e ottimistica fiducia nel genere umano -  sembra ricalcare la nota esclamazione con cui il galileiano Sagredo sottolineava quanto sia grande l’acutezza dell’ingegno umano.

Infine con una riflessione che ricorda la sapienza senecana e la differenza che il filosofo di Cordova faceva tra il biologico diu esse e il prezioso diu vivere, Chiaberge citando una longeva donna e nota scienziata, Rita Levi Montalcini, sottolinea che è meglio aggiungere la vita ai giorni che i giorni alla vita. 


           L'AUTORE      

RICCARDO CHIABERGE ha diretto le pagine culturali del Corriere della Sera e del supplemento domenicale del Sole 24 Ore. Oggi collabora con Il fatto quotidiano.  È il biografo italiano di GUGLIELMO MARCONI.





Nella biografia dello scienziato curata da Chiaberge e intitolata 
Wireless. Scienza, amori e avventure di Guglielmo Marconi, scopriamo un Marconi non solo scienziato, ma anche uomo, figlio problematico, marito difficile, inguaribile tombeur de femmes (ebbe tra le sue amanti l’attrice Francesca Bertini), e  sostenitore del fascismo. 


Giornalista, saggista, ma anche autore di testi narrativi, Chiaberge nel romanzo Salvato dal nemico, rievoca il mistero di una strage nazista perpetrata in un villaggio del Piemonte contro 51 cittadini innocenti di cui solo uno fu salvato all’ultimo istante. Si tratta di una vicenda che mescola ricostruzione storica, sfumature noir e l’ansia - a tratti fenogliana - della “questione privata”, della ricerca della verità, perché l’uomo risparmiato dall’aguzzino nazista, è il padre del narratore.


INTERVISTA A R. CHIABERGE