Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

domenica 29 settembre 2019

ACATI



    Un viaggio, amori che s’intrecciano, tentazioni vissute e allontanate, la nostalgia di casa e degli affetti, il ritorno: una storia antica.
    L’Odissea era il racconto di un eroe sofferente, ma  invincibile e forte. Che cosa accadrebbe se cambiasse il punto di vista, se l’Odissea diventasse il viaggio non di Ulisse, ma di Laura, non di un eroe, ma di una donna qualsiasi; decisa, ma fragile; volitiva, ma umana? L’Odissea si trasformerebbe in Acati, anagramma di Itaca,  e Alfonso d’Errico diventerebbe il tessitore di un nuovo canto d’amore e d’avventura.

    Acati si snoda lungo un percorso che inizia con un’improvvisa partenza verso New York e che si conclude con il ritorno ad Acati, non solo un luogo, ma una dimensione esistenziale.
    Acati è la storia di ordinarie crisi coniugali, di sfide tra sessi, di scontri ideologici, ma è anche  la narrazione di una generazione stanca del viaggio senza meta, consapevole del fatto che il naufragio non può essere affrontato solo da passivo spettatore, perché, per chi lo vive, è una tragedia.
    Acati è un romanzo che suggerisce l’idea del ritorno non come immobile ripetizione di schemi antichi e anacronistici, ma come capacità di recuperare l’essenziale, ciò che conta davvero.
    Il progetto di d’Errico è duplice: da un lato c’è il deliberato intento di rivisitare l’Odissea invertendone la prospettiva e conservandone alcuni aspetti, dall’altro c’è il desiderio di dar voce alla propria idea di mondo, quella con cui ogni scrittore cerca di contribuire a costruire il mosaico della storia.
    La strategia di inversione del poema omerico si sviluppa attraverso precisi rimandi: Laura è certamente Ulisse e anche lei ha la sua Circe al maschile in George Sketton; Andrea è Penelope e come lei è assediato da seducenti Proci al femminile (Brigida, Lucia); Telemaco si trasforma in Marta e anche la Telemachia di questa intraprendente fanciulla si conclude con un prezioso incontro e con affetti rinsaldati.
    E, come Omero, anche d’Errico ritrova nell’epica del ritorno il messaggio fondamentale da trasmettere ai suoi lettori.
    Nel corso del Novecento, alla luce dei suoi esistenzialismi e nichilismi sfumati da tendenze postmoderniste, Ulisse è stato variamente riletto come eroe del naufragio o del vagabondaggio senza approdo, un uomo perso in labirintici mari senza rotte, simbolo della condizione esistenziale contemporanea.
    Scriveva Saba in Ulisse,  identificandosi nell’eroe omerico e dando voce al senso di smarrimento nel labirinto dell’esistenza, ma pure al fascino del viaggio verso ignoti orizzonti, tutti da scoprire: Oggi il mio regno/ è quella terra di nessuno. Il porto/ accende ad altri i suoi lumi; me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito,/ e della vita il doloroso amore.
    Al rifiuto delle certezze e alla vitalistica spinta verso il caos dell’esistenza, d’Errico oppone, invece, il mito antico e rinnovato del ritorno: senza nulla togliere al valore delle esperienze che arricchiscono e all’energia delle sfide necessarie a sfaldare impalcature millenarie (maschilismo, sessismo, subordinazione della donna ancora imprigionata in ruoli subalterni, in società solo apparentemente evolute, ma di fatto ancorate a tradizioni androcratiche), Acati individua nel nostos la sola via verso l’autenticità.
    Non si tratta certo di un ritorno all’antico che azzera le conquiste sociali e culturali, ma, piuttosto, di un ritorno all’essenziale, nel segno del più autentico Ulisse omerico, che tornando a Itaca recupera quello che per lui conta davvero, esattamente come Laura. Certo, ribadire che il nostos consiste nel riappropriarsi degli affetti, della vita familiare, delle piccole cose di ordinaria semplicità, sembra quasi un voler ingabbiare l’uomo entro orizzonti riduttivi: che ne è della polis, della vita attiva, dell’impegno e delle lotte verso quelle tanto agognate magnifiche sorti e progressive?
    Questione di punti di vista.
    Negli anni dell’Illuminismo e delle inimmaginabili conquiste culturali, del filantropismo e del cosmopolitismo, dell’uguaglianza e della solidarietà, Voltaire, nel Candido dava un messaggio apparentemente controcorrente: un uomo è degno di questo nome solo se impara a “coltivare il proprio giardino”. Un invito all’egoismo? Ovviamente no. Significa che l’uomo deve imparare dai contadini il tempo della paziente attesa, deve saper dissodare l’animo, liberarlo dalle sterpaglie cerebrali e ideologiche che rendono la sua vita un cumulo di ipocrisie, menzogne e falsità condite di perbenismo, per nutrire, invece, quello spazio nel quale solo con una quotidiana, paziente cura potrà far nascere frutti buoni, che saranno, a loro volta, nutrimento per chi vorrà assaporarne il gusto.
    Semplicità, dedizione, attesa, capacità di comprendere verso che cosa vale la pena orientare i propri sforzi nel viaggio dell’esistenza sono gli ingredienti dell’ars vivendi che  d’Errico recupera da Omero e da Voltaire.
    Se, infatti, il soggetto della trama è un’Odissea riletta e adattata ai tempi, lo stile umoristico e a tratti paradossale nelle trovate volutamente da fiction (figli ritrovati dopo decenni, gravidanze inattese e magicamente scomparse, personaggi che ritornano dal passato e indisturbati se ne tornano da dove sono venuti, figli maturi e intraprendenti che diventano consulenti o addirittura guide morali per genitori spesso inadeguati al ruolo che rivestono) richiama alla mente lo stile di Voltaire, esperto nell’inversione dei grandi modelli letterari e filosofici del suo tempo.
   Riscoprendo maestri antichi, Alfonso d’Errico costruisce un romanzo in cui il perfetto equilibrio tra ironia e serietà dà corpo a una “certa idea di mondo”, per usare un’espressione cara ad Alessandro Baricco, che induce ogni lettore a riflettere sulle gerarchie dei valori in base ai quali ha impostato la propria vita.
    Carriera, successo, fama, visibilità: senza escludere il valore delle sperimentazioni utili ad una proficua autoaffermazione, d’Errico sente di ridimensionarne la portata e  sembra rilanciare il monito plotiniano: Fai come lo scultore di una statua che deve diventare bella: toglie questo, raschia quello, rende liscio un certo posto, ne pulisce un altro, fino a fare apparire il bel volto nella statua. Allo stesso modo anche tu togli tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purificando tutto ciò che è tenebroso per renderlo brillante, e non cessare di scolpire la tua propria statua finché non brilli in te la chiarezza divina della virtù (Plotino, Enneadi VI, 7, 10, 27 sgg.).
    Acati insegna questo: a scoprire che cosa togliere per imparare ad aggiungere.
                                                  Teresa D’Errico

giovedì 12 settembre 2019

IL SOGNO DELLA MORTE


  Scrive Julio Cortázar, in Lezioni di letteratura: penso che in un racconto (…) l’irruzione di un elemento assolutamente incredibile, assolutamente fantastico in definitiva, renda più reale la realtà, faccia arrivare al lettore quello che, se fosse detto esplicitamente o raccontato letteralmente, sarebbe solo uno dei tanti resoconti sulle cose che accadono.
  Il confine labile tra realtà e dimensione onirica, l’alternanza tra sogni e sequenza diaristica dei giorni costituiscono la struttura narrativa del breve romanzo Il sogno della morte, opera prima della giovanissima Miriam Masiello. La protagonista, Teresa, costretta dalla malattia all’immobilità, rievoca il passato, guarda con disincanto il poco tempo che le resta, cercando di rendere intensi i momenti di pienezza che riesce a vivere grazie agli incontri con i familiari, in particolare con la nipote Miriam. Tuttavia gli affetti e le cure che Teresa riceve non placano mai la consapevolezza dell’imminente fine: io mi avvicinavo ad una totale frantumazione giorno dopo giorno. 

  Questo tragico stato di cose è amplificato da inquietanti sogni che di notte tormentano la donna. Tra sdoppiamenti, atmosfere buie e visioni angoscianti, Teresa sente di essere in una morsa: nel buio che mi avvolge mentre precipito nell’infinito assisto a una nitida scena che risalta nell’oscurità. Una signora anziana si alza dalla sedia e chiede a una donna più giovane di ballare con lei. Le osservo meglio e capisco che quelle donne sono io. (…) Entrambe sono me. Si abbracciano e scompaiono nel nulla, lasciandomi un nodo intricato in gola.
  La danza macabra, l’abbraccio fatale tra l’anziana donna e la ragazza proiettano nell’incubo lo strazio fisico, psicologico e emotivo di Teresa che sente con tutte le sue fibre di essere sul punto di lasciare la vita, i suoi cari, il mondo. Le intersezioni oniriche potenziano con immagini quello che il semplice racconto non potrebbe dire con esattezza.
  Sono sorprendenti – soprattutto in considerazione della giovane età dell’autrice, appena diciottenne – la capacità di immedesimazione nella psiche della protagonista, la forza empatica con cui Miriam Masiello dà voce ai sentimenti e ai ricordi della donna, il tratto vivido delle visioni oniriche che traducono plasticamente i grovigli emotivi di Teresa.
  In particolare due tratti colpiscono di questo romanzo: da un lato la profonda sensibilità che porta l’autrice a soffermarsi sulla materia prima che anima il mondo, l’amore; dall’altro la scelta razionale, coraggiosa di aver affrontato un tema scomodo, quello della malattia e della morte.
  È vero, certo, che la letteratura dal Decadentismo in poi, sovrabbonda di intrecci più o meno tragici tra Eros e Thanatos, ma non è questo il punto focale del romanzo Il sogno della morte.
  Nel libro di Miriam Masiello, la morte è semplicemente quello che è: c’è, non le si sfugge, fa parte della vita e può diventare un’ossessione per chi quella vita la sta perdendo. Con il suo manto scuro, come nei dipinti medievali del Trionfo della Morte, lei, la Nera Signora abbraccia col suo buio mantello tutti indistintamente. L’aspetto interessante è il coraggio di parlarne. In una società che ha espunto la morte da ogni riflessione, in un’epoca che prolunga artificialmente la vita e la spinge oltre ogni limite possibile, per un’umanità misera che pretende di vincere il tempo chirurgicamente e che riduce l’estetica a strategia del camuffamento biologico, Miriam Masiello mette a nudo la verità: con la morte bisogna fare i conti, prima o poi. E saggiamente, da scrittrice accorta, dimostra che per sconfiggerla c’è solo un modo: alimentare quella foscoliana eredità d’affetti nella consapevolezza – come scriveva Shakespeare - che nulla può difenderti dalla falce del Tempo/ se non un  figlio, che gli tenga testa quando lui ti prenda.
  La vita è sogno: breve, evanescente come un sogno e spesso orientata alla ricerca di illusorie tracce di felicità, come ricordano i poeti da Calderón de la Barca a J. Keats, citato in esergo da Miriam Masiello. Teresa lo ha sperimentato e perciò ripercorre la propria esistenza focalizzando l’attenzione sull’essenziale, su ciò che davvero conta e la sua eredità spirituale è raccolta dalla giovane nipote, Miriam, le cui parole chiudono emblematicamente il romanzo.
  Nelle pagine conclusive del testo Miriam tributa alla nonna Teresa tutta la stima e la tenerezza che un cuore umano può contenere e che documentano in modo tangibile un dato chiaro: non tutto si conclude con la morte, c’è sempre qualcosa che di noi resiste nonostante la finitezza della vita. E la lettera finale di Miriam è la risposta ideale alla pungente domanda che Teresa si pone nei giorni di agonia in ospedale: mi avrebbero facilmente dimenticata o avevo veramente lasciato qualcosa di importante in loro?
  L’altro aspetto significativo del romanzo è l’analisi del sentimento misterioso e indefinibile che lega le persone, a volte inspiegabilmente: l’amore. È condotta in modo accurato la ricostruzione del rapporto fra Teresa e Pietro e, al di là degli interrogativi che restano aperti sulle dinamiche che si intrecciano nelle relazioni umane, c’è una frase che M. Masiello ha inserito nel testo e che racchiude una verità profonda, spesso trascurata: non è vero che l’amore è distaccato dalla ragione o il cervello lontano dal cuore. L’amore è solo questo, ragionare su ciò che si dice o si fa per evitare di ferire l’altro.
  In modo aforismatico e lapidario il romanzo Il sogno della morte fornisce la formula più precisa per riuscire a vivere: ragionare su ciò che si dice o si fa per evitare di ferire l’altro.























































































































































































































































































































































































































































































































































 evitare di ferire l’altro.


martedì 2 aprile 2019

A LIBRO APERTO

Massimo Recalcati spiega con parole chiare e precise il senso della lettura: è un incontro tra due storie, quella del lettore e quella dello scrittore.  Chi legge a sua volta "viene letto" dal libro: noi siamo libri scritti con le parole dell'Altro. L'atto della lettura è un momento di scoperta di sé, significa lasciarsi attraversare dall'esperienza di chi scrive e vuol dire riconoscere nelle parole di un libro frammenti della propria vita dimenticati, rimossi o ancora sconosciuti.Ciò che colpisce nel testo di Recalcati, A libro aperto. Una vita è i suoi libri,  è l'aver posto attenzione a testi che direttamente o indirettamente fanno leva sul potere della parola.Nelle pagine del saggio domina il personaggio di Ulisse, l'eroe del ritorno e della riappropriazione di sé nell'approdo a Itaca. Però, su quella dell'eroe, senza dubbio, prevale l'immagine dell'uomo che attraverso la parola dà forma al mondo e esprime in modo inequivocabile i propri desideri: piange, guarda l'orizzonte e con parole nette spiega alla ninfa Calipso - la dea gli ha proposto l'immortalità e l'eterna giovinezza - che lui, invece, ha Itaca nel cuore ed è lì che vuol tornare. Nella parola di Ulisse prende forma il suo destino, con la parola lui lo decide.Recalcati, poi, dichiara che nella sua formazione ha rivestito un ruolo fondamentale Gesù, non quello del sacrificio, della passione, del dolore, ma l'Uomo della vita, dell'amore, del perdono, valori che si associano alla Parola e, è noto, Gesù è il Verbo per eccellenza. Ogni suo miracolo si associa a parole incisive, rimaste nella memoria collettiva.
Sartre: Recalcati lo considera un punto di riferimento ineludibile. Tra i filosofi Sartre è il più artistico, scrive romanzi e La nausea appare a Recalcati un testo magistrale e iniziatico da cui ha ricavato un insegnamento capitale e cioè che la scrittura può sottrarre la vita alla disperazione. Si tratta del concetto - riportato in esergo da Recalcati - che Sartre esprime nell'opera Le parole: farò dei libri; ce n'è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell'uomo: egli ci si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine.
Infine viene individuato dallo psicoanalista un libro per lui particolarmente significativo, La strada di C. McCarthy, la storia di un padre e un figlio, smarriti in una terra desolata dopo un'apocalittica e non precisata catastrofe. Recalcati racconta che nel finale del romanzo, il padre muore e il figlio vorrebbe seguirlo fin nel regno dei morti per non separarsi da lui. Tuttavia il padre spiega che un filo indistruttibile li legherà per sempre: il fuoco della parola non è destinato a spegnersi. Qualcosa del padre sarà indelebilmente scolpito nel cuore del figlio: resteranno uniti dal legame stabilito dalla parola.
Recalcati con le parole lavora, perché è uno scrittore, perché è uno psicanalista.
Il messaggio di questo libro non sta tanto nel voler suggerire una certa idea di mondo  - per usare il titolo di un noto testo di A. Baricco - attraverso una selezione di libri imperdibili. A Recalcati non importa suggerire cattedraticamente, con aria da professore, la chiave di lettura del mondo e della storia stilando la top ten dei libri da consigliare.
A libro aperto dice una cosa semplice: nel mutismo solipsistico di un mondo ingabbiato nella pseudocomunicazione del web, solo la parola/relazione ci salverà.
A libro aperto sembra insistere proprio su questo punto: la forza della parola. La vita è sempre una resistenza al gelo, scrive Recalcati parlando del libro di Rigoni Stern, Il sergente della neve.
Solo la parola, quella pensata, calibrata, ha il potere di sciogliere il gelo di un'umanità che, senza accorgersene, sta diventando sempre più anaffettiva.

mercoledì 27 febbraio 2019

THE WEIRD AND THE EERIE. Lo strano e l'inquietante nel mondo contemporaneo

Come in un triste sogno, piange di un pianto inconsapevole.
(F. Kafka, In galleria)

In principio fu Kafka. Nessuno come lui ha saputo tradurre il senso di angoscia e di impotenza di fronte all'assurdo che entra nella quotidianità e con cui l'essere umano è costretto costantemente a misurarsi, sperimentando la completa inadeguatezza delle proprie categorie conoscitive e interpretative rispetto a ciò che enigmaticamente lo sovrasta e inspiegabilmente lo schiaccia. Nella narrativa di Kafka il soggetto ha l'impressione di vivere un triste sogno, un incubo che rende terrificanti i giorni. Non resta che un pianto inconsapevole, espressione della totale incapacità di trovare una spiegazione alla rottura di ogni equilibrio: un'esperienza spaventosa e inquietante, ma vera. Gregor Samsa che si sveglia scarafaggio spera, certo, che si tratti di un brutto sogno, ma tutto congiura contro di lui. L'uomo-in(s)etto disperatamente constata ciò che la voce narrante subito conferma: non era un sogno. E non c'è niente da fare.

L'impotenza a spiegare l'assurdo che rompe quel fragile cielo di carta - direbbe Pirandello - delle certezze tradizionali (scientifiche, religiose, razionali) oggi ha nomi nuovi e più incisivi. Mark Fisher parla di weird and eerie, "strano e inquietante".
Attraverso un viaggio nella letteratura e nella musica contemporanee, Fisher ridefinisce e arricchisce di sfumature l'unheimlich freudiano che ha avuto in Kafka uno dei suoi migliori interpreti.
Vivere la dimensione del weird significa sentire che nella realtà in cui viviamo c'è qualcosa di inspiegabilmente stonato, fuori posto, non corretto. Si tratta della percezione di svuotamento di senso del mondo, destrutturato e privato di ogni "semantica fondativa", spiega nella postfazione Gianluca Didino. Vengono in mente le atmosfere grigie e sospese del paesaggio post apocalittico - carbonizzato e devastato - che, per esempio, Mc Carthy descrive nel romanzo La strada. È effetto del weird la serpeggiante e irreversibile sensazione di aridità esistenziale.
Prendendo, poi, le mosse dal racconto di Daphne du Maurier, Gli uccelli e dalla sua tanto magistrale quanto impressionante trasposizione cinematografica ad opera di Hitchcock, Fisher spiega il concetto di eerie: una disintegrazione progressiva delle certezze, il fallimento di ogni capacità di intervenire con efficacia costruttiva e trasformativa sul mondo circostante.
Viviamo in tempi strani e in un mondo reso strano dai tempi, scrive Didino alla fine del libro: surriscaldamento globale, incombenti dittature digitali, fake news che s'imprimono come verità e condizionano l'immaginario collettivo e i comportamenti delle persone, l'ombra immateriale eppure tirannica del capitalismo che dispoticamente dirige le nostre vite, sono il vero trauma del presente.
Se, tuttavia, nei testi di Kafka la dimensione allegorica è ancora preponderante  - sebbene si tratti di allegoria vuota, come ha osservato W. Benjamin - nell'interpretazione di Fisher, sottolinea ancora Didino, weired e eerie sono l'attualizzazione sul piano del Reale del perturbante freudiano. Insomma, Fisher ci dice che è la stessa realtà ad essere ormai assurda, incredibile, innaturale al punto da sgretolare la nostra usuale nozione di mondo, vita, umanità.
Abbiamo visto in TV il crollo delle Twin Towers come se fosse stato un disaster movie e invece era storia; abbiamo visto circolare sul web video di attentati jihadisti e appelli di ostaggi catturati da Daesh e non era una fiction; siamo stati testimoni della vittoria elettorale di Trump dopo Obama ed è un fatto vero, non un triste sogno; abbiamo pianto per bambini naufragati e mai giunti sulle nostre coste, negate loro  non dal destino, ma da umane follie e non era un film.
Distopicamente affidiamo le sorti del nostro Paese alle istintive reazioni di un manipolo di iscritti ad una piattaforma dal vago nome illuminista (Rousseau) che ambiguamente gioca tra il nobile principio di volontà generale e quello pilatesco di volontà popolare.
Questo è weird and eerie.
Fisher avverte che le distopie non si collocano più in un futuro lontano ed eventuale - forse pure affine al presente per certi versi, ma comunque di là da venire - come Orwell e Huxley credevano.
Ormai è la realtà quotidiana ad essere distopica. Non bisogna pensare, infatti, al perturbante come a qualcosa di vampiresco o soprannaturale: anche un buco nero, ci ricorda Fisher - è per noi strano, misterioso ed inquietante. E oggi (ma forse è stato sempre così) la storia sembra proprio un buco nero: reale, non sondabile, imprevedibile.
E, dunque, non c'è alternativa, non esiste una possibile exit strategy?
Fisher non lo spiega.
Eppure non possiamo arrenderci e normalizzare il nostro disagio di fronte a una simile realtà che, invece, tocca a noi riumanizzare.
Scriveva Brecht, acuto conoscitore di tempi inquietanti:
E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto ‘è naturale’ in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile”. (B. Brecht, L’eccezione e la regola)

giovedì 24 gennaio 2019

SOLO PAROLE, AMICA. Poesia inedita di Antonio Caione


Solo parole, Amica.
Solo parole ho io per te.
Giovanni Boldini, Mademoiselle  Lanthelme, 1907
Niente sguardi, niente strette di mano.
Niente saluti, niente abbracci
di ritrovata nel tempo
anima allora incrociata,
sfiorata e perduta
nel gioco di vita tessuta 
da divinità ignota.
Solo orecchie, Amica.
Solo orecchie ho io per te.
Per ascoltare, leggendo,
parole che dici scrivendo di te.
Non ho fiori per i tuoi capelli,
non ho vino per le tue labbra.
Forse musica ho io per te?
Solo parole, solo silenzi,
parole non dette,
ho io per te, Amica mia.
Antonio Caione

Ut pictura poësis, sosteneva Orazio. Eppure, scrivere della mancanza, rappresentare ciò che non c’è e non c’è stato, rendere tangibile il desiderio, dare forma a una realtà immateriale, significa forzare i mezzi linguistici, trasformare l’affermazione in negazione. Plotino parlava di teologia negativa: è più facile dire ciò che Dio non è, piuttosto che definire l’ineffabile. Questo principio, però, non dovrebbe valere anche per i sentimenti. Loro non ci eccedono, ci abitano; d’altra parte non sappiamo più definirli. O forse è lo spirito dei tempi che ci ha resi disarmati rispetto ai nostri sentimenti. Nell’era del videor ergo sum, guardarsi dentro è difficile.
Solo parole, Amica è un testo fondato interamente sul senso della perdita e della dimensione residuale: la possibilità di ascolto che pure Antonio Caione pare inizialmente lasciare aperta (solo parole, ho io per te … solo orecchie ho io per te), si converte presto in occasione mancata, in incontro negato. Restano parole non dette; la quadruplice anafora del niente (vv. 3-4) sottrae le attese di un contatto fisico ad ogni ipotesi di concretezza; e la duplicazione del non (vv. 14-15) ne è un’ulteriore conferma: prevale, nella selezione linguistica operata dal poeta, la dimensione negativa, la più appropriata per spiegare il senso della privazione. Anche la domanda introdotta dal dubitativo forse (v. 16), che pure sembrerebbe aprire un varco alla speranza, si trasforma in rapida, amara frustrazione: le parole, l’ascolto, la musica diventano sostanze evanescenti e lasciano il posto a ciò che propriamente rimane, solo silenzi (v. 17).
Eppure la donna proprio in virtù dell’assenza si accampa come protagonista dei versi; con la sua fisicità non posseduta dal soggetto lirico, diventa il pensiero dominante. Di lei immaginiamo i capelli (v.14) e le labbra (v.15) in una vaghezza petrarchesca che evoca e suggerisce: un’anima incrociata, sfiorata e perduta ha inciso con forza impalpabile, ma incancellabile, la propria esistenza e la propria permanenza nella memoria di chi scrive. La donna che fornisce all’autore il pretesto per parlare d’altro, non è descritta nei suoi tratti plastici, ma è proprio la sua evanescenza che dà corpo e forma agli stati interiori del poeta.
È impossibile non riconoscere nel testo di Antonio Caione, la risonanza poetica della bellezza fuggitiva che Baudelaire attribuisce alla protagonista del noto componimento A una passante
Il poeta dei Fiori del male traduce – come ha sottolineato W. Benjamin – l’esperienza dello choc a causa della modernità: la società di massa, l’anonimato, l’omologazione, la strada assordante rendono epifanici, sconvolgenti, irrealizzabili gli incontri, lasciano contratto come uno stravagante chi per un attimo ha ceduto alla speranza di una condivisione. Il caos toglie, sottrae, divide, separa: un lampo… e poi la notte, scrive Baudelaire. È la modernità, la velocità del progresso sintetizzata nella rue assourdissante, che nega la relazione e atomizza le possibilità di contatto. L’incontro non è vissuto, si dà come mancato, irrealizzato, vuoto. 
La modernità disorienta, attesta l’incapacità di controllo sull’esistenza che si fa anarchica e sfugge rispetto ad ogni progettualità. Perciò l’incontro si smaterializza, lascia gli effetti di un’incontrollabile e sentita vis attractiva, ma non si attua. Il contatto mancato non è, però, un dato biografico e individuale: è la metafora di un’epoca. Questo è il non detto di A. Caione. Nel gioco di vita tessuta /da divinità ignota si situano la chiave di lettura e l’origine del rimpianto. L’arcano mistero della vita, una partita che l’uomo gioca a dadi con il destino, è uno scacco: circostanze, casualità, imprevisti, imponderabili incroci di ombre che si sfiorano e non comunicano, non possono essere decriptati. Siamo sopraffatti dall’esistente che come una valanga travolge corpi, emozioni, sentimenti, non abbiamo il tempo e l’attenzione necessari a riconoscere ciò che si agita nell’animo. Ci lasciamo sfuggire le emozioni, non sappiamo forse neanche più nominarle, scriviamo emoticon invece di poesie. È la modernità, appunto: percepire e non accorgersene.
Quello che resta da fare ai poeti, tuttavia, è  dare voce ai silenzi, ritrovare nel tempo attimi di una felicità mancata e chiamarli con il loro nome: desiderio.
In fondo è dalla mancanza che nasce l’eros.
I versi sono polvere chiusa
di un mio tormento d’amore
(A. Merini, da La Terra Santa, 1984)