Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 10 aprile 2018

PAROLE DISARMATE

Parole disarmate (Edizioni del Rosone, Foggia) è un libro coraggioso, perché dice la verità sull'uso che noi facciamo delle parole. Gli autori, Andrea Prandin (consulente pedagogico e formatore) e Antonia Chiara Scardicchio (ricercatrice in Pedagogia sperimentale), spiegano che  noi viviamo nell'illusione di scegliere le parole e, invece, sono le parole che scelgono noi: hanno un potere rivelativo e dicono molto sul nostro modo di essere, ci definiscono nel nostro rapporto con noi stessi, con il mondo, con gli altri. Sosteneva, infatti, Wittgenstein che le parole sono come la pellicola superficiale su un'acqua profonda.
La parola ha una natura duplice, è sempre in bilico tra potenza e impotenza. Da un lato è l'espressione della grandezza umana, è il λóγος che vince il caos, è la forza in cui si è riconosciuto il sistema di pensiero occidentale da Socrate a Hegel, è la quidditas che distingue l'uomo dall'animale.
Eppure questa forza può facilmente slittare nell'arroganza, quella di chi pretende, appunto, di avere sempre "l'ultima parola". Le parole possono addirittura  trasformarsi in vere e proprie armi che feriscono. E il modo in cui noi le usiamo è la spia che fa emergere le nostre intenzioni, il nostro volto più autentico.
D'altra parte, le parole possono esprimere anche la nostra fragilità: spesso ci mancano, vengono meno, non le troviamo. E non è per colpa di un lessico povero o di ignoranza, ma, piuttosto, della difficoltà di costringere entro gli angusti limiti del λóγος, il magma di emozioni che si agitano nel nostro cuore. Così sperimentiamo la debolezza del presunto potere definitorio della parola: un problema ben chiaro a Montale, quando scriveva non chiederci la parola che squadri da ogni lato/
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari.
Dalla lettura di Parole disarmate si esce arricchiti di una consapevolezza nuova: le parole - scrive A.C. Scardicchio - sono povere e potenti, sono il confine sempre mobile tra potenza e percezione di incisione.
Riflettere sul valore della parola nel mondo contemporaneo è un atto quasi doveroso. In tempi di deliberata e strumentale manomissione delle parole - per usare un'espressione di G. Carofiglio, peraltro citato nella ricca bibliografia cui fanno riferimento gli autori di questo saggio - anzi, in un'epoca di vera e propria espulsione della parola, costretta a competere con forme di comunicazione digitale e di scambio virtuale, spesso affidato a emoticon e sms, risulta senza dubbio incisivo il monito di A. Prandin di restituire alla lingua il potere generativo dei significati e di sperimentare, così, logiche inesplorate, dando voce a ciò che è represso, inesprimibile o forse ancora sconosciuto. Si tratta di un inesauribile lavoro di ricerca che ha un intento pragmatico: aprire possibilità, innescare possibili fili di comunicazione. Le parole prive di ricerca sono parole sterili: inutili nelle relazioni, inutili nell'educazione, inutili nella cura. E il frutto della ricerca sono, per Prandin, i neologismi sincretici  che per certi aspetti e in modo originale richiamano alla mente i binomi fantastici inventati da Gianni Rodari, parole liberate dagli schemi usuranti delle ordinarie catene verbali e accostate in modo surreale, giocoso e molto, davvero molto, rivelativo. 
Parole disarmate lancia un messaggio di alto valore morale: organizzare la Resistenza della parola detta, pronunciata, "parlata", accompagnata dalla fisicità di chi la usa: gesti, sguardi, voce, tono, corposità vissuta. La Resistenza della parola contro la non-parola del digitale.
Emerge, infine, da questo libro un preciso dato: la deriva della parola sta producendo rischi enormi, facilmente riconoscibili.
- La pretesa di dare alle parole il potere dell'esattezza oggettiva: oggi le parole vengono rese salde da test, griglie, misurazioni, quantofrenia. Si tratta di una patologia ben presente, per esempio, nel mondo della scuolaE, invece, deve essere chiaro che ingabbiare le parole è il primo passo verso la censura.
- L'ambiguità ideologica del linguaggio politico: orwellianamente vengono chiamate "missioni di pace" vere e proprie spedizioni di guerra o si definisce apoditticamente "Buona Scuola" una legge che, a ben guardare, è stata la causa del peggioramento repressivo di ogni libertà d'insegnamento e di qualsivoglia spirito critico negli apprendimenti.
- La paura della polisemia e della Babele linguistica, l'illusione della reductio ad unum dei significati come sinonimo di stabilità e di sicurezza. L'uomo - scrive A.C. Scardicchio - ha sempre cercato di estinguere la parte di sé umbratile. Il suo sforzo è sempre stato quello di aspirare alla costruzione di un discorso ordinato. E, invece, il più chiaro e ordinato dei discorsi, sebbene rassicurante, può diventare la più pericolosa delle illusioni. Pensare che dire equivalga a conoscere e parlare a sapere (...) impedisce al parlante di vedersi mentre parla, impedisce alle parole di farsi osservare per quello che sono: parole, solo parole.
Eppure noi viviamo di parole, con le parole, grazie alle parole e dal loro uso dipende la qualità della nostra vita associata: come chiarisce anche G. Zabrebelsky, il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quindi, più parole, più democrazia; più parole, più confronto; più parole, più umanità. Però a far da guida ai nostri discorsi deve essere - suggeriscono gli autori del saggio - la consapevolezza costante della potenza e della fragilità delle parole.
Proprio perché sopravvivano la democrazia, il confronto e l'umanità occorre, dunque, DISARMARE le parole. Trovare un equilibrio possibile tra potenza e fragilità è un'impresa nobile: "spuntare" le parole per disarmarle e renderle un fecondo terreno di incontro significa non "puntarle" mai come armi contro l'altro.       
Loro, le parole, sono tutto quello che possiamo. E, contemporaneamente, tutto quello che non possiamo, nota A. C. Scardicchio. Sceglierle bene vuol dire impegnarsi a costruire un mondo migliore, intervallandole, semmai, talvolta, con opportuni silenzi, necessari a placare le emozioni negative e a lasciar emergere quelle positive. Lasciare che siano le parole a scegliere noi significa salvaguardare la profonda autenticità del nostro dire, la genuinità delle nostre emozioni, abbassare la soglia delle mediazioni.
Parole disarmate è un libro che insegna a liberare le parole dalle loro incrostazioni e pietrificazioni abitudinarie che si insinuano nelle mode linguistiche, negli stereotipi, nelle convenzioni.
Gli autori consigliano un lavoro di lento disapprendimento che consiste nello scardinare i presupposti delle nostre parole storiche per mutarle, per evitare il sempre-detto e il sempre-detto-così. Forse bisogna lasciar spazio alla fantasia, che, come ricordava Rodari, ha una sua grammatica, diversa, però, dagli schemi convenzionali: è libertà.
Imparare a disfare le parole, innescare processi di tras/de-formazione delle parole, giocare con i significati per scoprire nuove letture del mondo è un processo che comincia da bambini.
Può sembrare un esercizio difficile, invece è un'avventura in cui è in gioco il nostro modo di stare tra gli uomini e di coltivare la nostra umanità: dum inter homines sumus, colamus humanitatem (Seneca)

domenica 1 aprile 2018

REALISMO CAPITALISTA


Mark Fisher inizia il suo libro, Realismo capitalista, con un capitolo dal titolo emblematico e riassuntivo della sua tesi di fondo: È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
Di capitalismo la nostra società è intrisa. E il fatto che il tachteriano modello T.I.N.A. (There Is No Alternative) sia considerato a tal punto radicato da abbattere ogni possibilità di immaginare mondi diversi, ha fatto sì che il Capitale sia diventato sinonimo esclusivo della realtà. Il realismo capitalista è intriso di luoghi comuni che ne traducono l’immodificabilità: certo, la nostra democrazia non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. E inoculare il germe del male minore genera la pandemia della rassegnazione all’esistente come unica e sola realtà.
Fisher va oltre: analizza i mali gravi a cui si accompagna il realismo capitalista. Sono tutti riconoscibilissimi.
a)      Desacralizzazione della cultura, considerata inutile, perché non produce utili.
b)      Smantellamento delle tutele del diritto del lavoro.
c)       Inconsapevole cooperazione di ognuno di noi, voraci consumatori, alla impersonale iperastratta struttura del Capitale.
d)      Crescita esponenziale dei casi di depressione e ansia; Fisher ne è una vittima (è morto suicida il 14 gennaio 2017, a quarantotto anni). Il Capitalismo tende a scaricare sui singoli il problema della malattia (fenomeno della privatizzazione dello stress), riducendo i sintomi da stress a una questione di emotività incontrollata, di disagio personale, di problemi chimico-biologici individuali, alla percezione di sé come falliti e incapaci di inserirsi nella struggle for life, insomma, buoni a nulla. Invece, osserva Fisher, il dato è lampante: tante persone, anche giovani, malate e depresse sono un vantaggio enorme per il capitalismo: atomizza la società (controllare delle monadi isolate è più facile che render conto a masse organizzate e consapevoli) e crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti.
e)      Elaborazione ingegneristica di una macchina “triturauomini” capace di degradare in maniera irrimediabile la dignità umana: la burocrazia. Verticismo, inefficienza generalizzata, sclerosi istituzionale sono gli ingredienti di questo meccanismo che schiaccia i cittadini riducendoli a meri ingranaggi di un sistema asfissiante e labirintico.
f)       Ideazione e programmazione di un laboratorio in cui testare le riforme neoliberistiche: una scuola sempre più piegata a imperativi di mercato, i cosiddetti target da raggiungere. Questo modello di scuola è così rappresentato da Fisher: un luogo popolato da studenti persi in un’inerzia edonistica, annoiati e sempre troppo connessi per poter prestare attenzione alle lezioni, prede di qualcosa di più che una semplice demotivazione. I giovani sono affetti da una sempre crescente incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché, dipendenza da flusso digitale continuo, stordimento. Non migliore è il ritratto degli insegnanti: intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori che assicurino il più alto numero di promozioni, e quello di disciplinatori autoritari, nel momento stesso in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi, cosa che, naturalmente, toglie loro ogni credibilità. Peggio: mentre le famiglie cedono alle pressioni di un capitalismo che obbliga entrambi i genitori a lavorare, agli insegnanti viene chiesto di comportarsi come surrogati dell’istituzione familiare.
g)      Costruzione del nuovo dogma di controllo delle coscienze: be smart! La nuova pretesa delle aziende asservite al Capitale è che i lavoratori profondano un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo: ciò che si vuole è un contributo affettivo che moltiplichi i risultati. Sistemi di valutazione interni ed esterni monitorano l’efficienza delle prestazioni lavorative. Tuttavia non sempre tutto si può calcolare: una buona didattica, ad esempio, come si misura? Insomma, la metastasi burocratica dello spettro valutativo fagocita gli obiettivi culturali cui la scuola dovrebbe mirare.
h)      Strettamente connessa al punto precedente è l’aleggiante presenza di una struttura simbolica supercollettiva da tutti presupposta e da nessuno conosciuta: il Grande Altro che non si può incontrare direttamente, inarrivabile come la massima autorità dell'assurdo caso di Josef K. nel Processo di Kafka. Direttive, norme, leggi farraginose e volutamente ambigue sono il magma entro il quale le certezze si disperdono e trionfano l'insicurezza, il senso di colpa, la percezione dell'errore perenne e dell'incombente sanzione, al punto che i soggetti introiettano l’apparato di controllo comportandosi come se fossero perennemente sotto osservazione. E alla fine ad essere valutata non sarà la competenza professionale, la bravura, insomma, del lavoratore, ma solo la sua diligenza burocratica. In assenza di certezze, spesso l’obiettivo a cui puntano i dirigenti – confusi esattamente come i loro dipendenti – non è tanto lavorare di più, ma lavorare in maniera più smart. Chi davvero potrebbe mai essere in grado di definire il Grande Altro? Aziende, banche, centri finanziari, il centro imprenditoriale degli interessi politici, l’intera macchina governativa: chi è il Grande Altro? Intuiamo che dietro i grossi interessi che sembrano guidare le nostre vite ci sia qualcosa, qualcuno, ma definire tale potere occulto non è impresa possibile. È chiaro che il principio generativo di questo stato di cose, la massima causa, non è un soggetto, ma una struttura impersonale: il Capitale.
i)        Accettazione incondizionata di tutto ciò che è nuovo,  conseguente rottamazione del passato, riduzione della memoria a mero fattore formale. Si pensi alla proliferazione di rituali dedicati al ricordo celebrativo e commemorativo di eventi nell’ottica esclusiva della loro commercializzazione. Viene meno completamente il calibro della sostanzialità storica: si pensi alla Giornate della memoria oggi spogliata di effettiva consistenza documentaria e ridotta al fenomeno della pop shoah..
j)        Nascita dell’idea di uno Stato-balia che vive sulle ceneri dell’idea di democrazia: si tratta di uno Stato che si manifesta nelle sempre più pressanti funzioni militari e di polizia e nelle sue pseudosoluzioni assistenziali per cittadini di fatto messi nelle condizioni di non poter progettare autonomamente la propria vita. Dell’idea di Stato resta solo il potere di controllo, ma non l’essenza di una democratica partecipazione, spesso, quest’ultima, ridotta semplicemente alla disintermediazione tecnologica, mero simulacro di libertà.
Fisher conclude il suo saggio con una definizione precisa e amara del nostro tempo, la lunga e tenebrosa notte della storia. Tuttavia non chiude il cuore alla speranza, quella che a lui purtroppo è mancata: opportunità, barlume di una anche piccola possibile alternativa politica ed economica, urgenza di ritagliare un buco nella grigia cortina del presente sono espressioni che suggeriscono la spinta a una reazione.
Pochi, ma lapidari sono i suggerimenti: ridurre la burocrazia, restituire garanzie, diritti e dignità al lavoro, ricostruire nuove forme di lotta e di protesta, erodere dall’interno gli ingranaggi dell’automonitoraggio e dell’ossessione autovalutativa cioè liberare i servizi pubblici dall’ontologia aziendale: se nemmeno le aziende riescono ad essere gestite come aziende, perché mai dovrebbero farlo i pubblici servizi?
Si tratta di avere a cuore l’umanità. Seneca in latino diceva: dum inter homines sumus, colamus humanitatem. Bisogna avere il coraggio di restare umani. E CORaggio non significa forza, la sua radice etimologica è CUORE. Il compito è sforzarsi di trovarlo, in un momento in cui il coraggio è confuso con l’audacia, la competizione, la prepotenza, la sopraffazione, la logica del vincente a tutti i costi, l’egotica autoaffermazione anche al prezzo della cannibalizzazione del prossimo.



domenica 28 gennaio 2018

LA NOTTE HA LA MIA VOCE

La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi è uno di quei libri in cui capisci subito che la dimensione intima e soggettiva è solo una veste, una formula narrativa. Il lettore gradualmente scopre che quella notte, quella voce lo riguardano.


Ci sono due livelli di lettura per entrare nel mondo narrato da A. Sarchi.
Ad un primo approccio si sente la rabbia di chi è costretto a vivere in un corpo traumatizzato: l’io narrante ha perso l’uso delle gambe a causa di un incidente. E il racconto si snoda attraverso l’indagine dei sentimenti di chi deve misurarsi con un mondo che osserva, si commuove, ma che non sa interagire davvero con il dolore, soprattutto quando è degli altri.
E poi c’è un livello metaforico. La paralisi, la sofferenza di arti che non rispondono, la percezione quasi leopardiana che il corpo è tutto, travalicano gli orizzonti pur realistici di sfiancanti percorsi ospedalieri. Non prevale mai nel romanzo l’aspetto cronachistico della ricostruzione fedele di fatti e circostanze che marcano il confine tra i malati e i sani.

La questione che pone questo libro è esistenziale: come fare i conti con la realtà quando questa ti strappa i sogni?
C’è una frase emblematica che sintetizza il punto di vista dell’autrice: l’umanità che si salva, prima di tutto, immagina.
La sofferenza vissuta dalla protagonista è una condizione universale di spossessamento di sé. L’impotenza che si prova di fronte a un mondo che non è più a tua misura, rispetto al quale ti senti sradicato, è un sentimento che ha origini antiche, ma che A. Sarchi tratta in modo toccante.
Viviamo – osserva la scrittrice – in una società in cui tutti usano la bandiera della libertà. Eppure, oggi più che mai,  la libertà è solo un’astrazione. La libertà, quella interiore è un concetto bellissimo finché lo incontri nei libri, specie on quelli di filosofia, poi, però, ti rendi conto che la libertà viene sempre da una lotta contro gli altri, contro te stesso, contro gli appetiti e i limiti. I limiti che da ogni parte ti sovrastano. Allora, forse, a pancia piena e desideri saziati, uno può anche dire di sentirsi libero interiormente. Ma, per il resto, di libertà ce n’è sempre poca. E pensaci: tutti rinunciamo alla libertà senza fare troppe storie, quando si tratta di sopravvivere. 
Non c’è libertà quando si lotta per sopravvivere.
È davvero libero chi non ha un lavoro?
È davvero libero chi, pur avendo un lavoro, accetta di farsi sfruttare per conservarlo?
È davvero libero chi non si accorge di sacrificare ogni momento della propria vita per un prestazionismo usuraio?
Siamo davvero liberi noi che da decenni abbiamo subito i ricatti di una politica fondata sul modello T.I.N.A (il tachteriano There Is No Alternative) e viviamo ormai curvi su un presente senza orizzonti?
La paralisi del corpo narrata da A. Sarchi è la metafora della malattia di un mondo che ha accettato tutto, più o meno, che ha smesso di sognare.

Nonostante l’ineludibilità del dolore, l’autrice tuttavia nota: se non capisci dove sta il confine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, sarà sempre come scavare nell’acqua.
La notte, allora, ha la NOSTRA voce e perciò sta a noi calcolare le traiettorie della vita, cercare di capire fin dove possiamo spingerci, sperimentando direzioni possibili, immaginando e preservando sempre uno spazio di autenticità vitale, coltivando ciò che è dentro di noi per essere capaci di affrontare ciò che è fuori di noi.
Si tratta di non cedere ai diktat di una sistema che per dominarci ci vuole deboli, fragili, spossati, sfiniti, sopraffatti dalla legge per la sopravvivenza, in uno stato di allerta perenne.

È questo il  monito di A. Sarchi: non cedere mai alla tentazione di sprofondare nel nulla:  succede dopo i peggiori traumi, la quotidianità riprende e ti ritrovi a vivere, anche se ti senti un alieno a te stesso, costruisci piccole o grandi forme di difesa, abnormità personalissime nelle quali puoi abitare, nelle quali la vita si rigenera.

giovedì 11 gennaio 2018

L'ISOLA DI ARTURO

“Il primo segreto essenziale…”

NeI romanzo L’isola di Arturo Elsa Morante ci interroga in modo netto: che cos’è un’isola?
Si tratta di un’immagine che evoca luoghi incantevoli, spiagge, sole, mare, cieli stellati.
È un simbolo che spiega situazioni interiori che oscillano dal bisogno di rifugio nel microcosmo delle sicurezze affettive e familiari, al senso di isolamento e di distacco dal mondo.
Descrive in modo puntiforme un inizio, un tempo che fu.

La Morante, nella poesia che precede L’isola di Arturo, scrive: quella, che tu credevi un piccolo punto della terra,/ fu tutto.
Procida, l’isola in cui è ambientata la trama del romanzo, non è solo un dato geografico, è un luogo dell’anima, è la stagione della fanciullezza che necessariamente deve passare, è un mondo che nel cuore non ci abbandonerà mai e che con nostalgia vorremmo riconquistare. È un posto, un tempo, un’età da cui ognuno vuol fuggire, finché l’attraversa,  spinto da un’irrefrenabile ansia di crescere, per poi scoprire che fuori del limbo non v’è eliso, scrive ancora l’autrice nei versi posti in epigrafe al romanzo.
Lasciare l’infanzia significa recidere le favole, le speranze, le illusioni e con amarezza prendere atto della realtà. Quello stato di sospensione - un limbo, appunto - in cui non si è più bambini e non ancora uomini, appare agli occhi di chi è diventato adulto uno stato beato. Uscirne non coincide con l’eliso, con il Paradiso.

È questo il punto. Indietro non si torna. Il passato è destinato al tramonto, è una dimensione ferma, remota.
Però, d’altra parte, di quel passato noi siamo imbevuti, ci passa nella vene, scorre con il nostro sangue. Senza quella stagione non saremmo quello che siamo.
Allo sguardo di Arturo che sul piroscafo lascia l’isola, il mondo dell’infanzia si sfuma con un dolore che  – commenta il ragazzo – mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca. (p. 376)
Un novenario chiude il romanzo: L’isola non si vedeva più.

Per la Morante, l’uscita dalla fanciullezza e il tramonto delle speranze non sono certo una conquista: allontanarsi dall’isola è un passaggio necessario e naturale, ma non è detto che i nuovi approdi rappresentino il meglio. Fuori del limbo non v’è eliso.
Il mondo adulto, quello civile e progredito, che prende le distanze dalla spontanea, forse impulsiva, autenticità del passato, è infelice, è abitato dagli Infelici Molti, troppo affaccendati a fabbricare trafficare istituire organizzare classificare, propagandare. Così scrive Elsa Morante nella Canzone degli F.P. e degli I. M., dove F.P. sta per “felici pochi” e I.M. si riferisce agli “infelici molti”.
Gli Infelici Molti non sanno più giocare, non guardano il mondo con la curiosità che sa stupirsi. Non hanno gli occhi allenati a scoprire la bellezza, non hanno il coraggio di sentire la meraviglia.
Alla loro tristezza Elsa Morante, ancora nella Canzone degli F.P. e degli I. M, oppone quell’unica eterna scaramanzia: l’allegria, la sola forza dei “felici pochi”, quella che regnava nell’isola di Arturo - prima della partenza del giovane protagonista - la vera energia in grado di contrastare l’ansia distruttiva dei cinici rottamatori che hanno liquidato la tradizione e perciò sono incapaci di dare forma al futuro.
L’isola di Arturo è il sogno che ti spinge a cercare la felicità anche se il mondo intorno, con la sua mentalità calcolante e i suoi progetti ben confezionati ma pronti a scadere, ti dice che esiste solo il presente, che la vita è questa, che tanto è inutile, non vale la pena.
Forse il primo segreto essenziale
della felicità si potrebbe ancora ritrovare.
L’importante sarebbe di rimettersi a cercare.
(E. Morante, Canzone degli F.P. e degli I. M, in Il mondo salvato dai ragazzini)



giovedì 4 gennaio 2018

IL GRANDE RITRATTO


Quando Dino Buzzati scrive Il grande ritratto - forse il meno noto dei suoi romanzi - è il 1960. Eppure si tratta di un testo di preoccupante attualità.

In un centro di ricerca lo scienziato Endriade ha realizzato una macchina pensante dotata di emozioni, sentimenti e coscienza umana. Il suo nome è Laura ed è stata progettata con la stessa struttura interiore della donna amata da Endriade e ormai morta: un modo per eternare un ricordo, una maniera per superare i limiti naturali imposti dall’esistenza.
Solo un  problema fa inceppare la straordinaria creazione: la macchina che parla, pensa e sente non ha un corpo e questa mancanza è la sua dannazione, è la costante condanna a vivere in un eterno, insoddisfatto desiderio.

Non sono Laura, non so chi sono, non ne posso più, io sono sola, sola nell’immensità del creato, io sono l’inferno, io sono la donna e non sono la donna, io penso come voi ma non sono voi … io desidero la carne io desidero l’uomo … che mi stringa … io lo so, non c’è nell’universo un solo essere che possa fare l’amore con me.

La creatura di Endriade non casualmente si chiama Laura, la donna di Petrarca, l’emblema del desiderio, la fiamma che accende nel poeta il dramma della scissione, della lacerazione interiore. Ma se nel Canzoniere  è Petrarca a soffrire perché gli impulsi del corpo lo allontanano dall’elevazione dello spirito, nel romanzo di Buzzati, invece, è la donna/macchina a straziarsi e non certo perché costretta a una scelta tra lo spirito e la carne, tra anima e corpo - come Petrarca, vincolato ai canoni culturali del Medioevo -  ma, piuttosto, perché è impedita nella scelta di assecondare le sue pulsioni.

Certo il fascino della abilità di Endriade è grande: come non ammirare la forza demiurgica che riesce a incapsulare in strutture algoritmiche emozioni e pensieri?
L’uomo ha da sempre voluto somigliare a Dio, ci sta riuscendo, sta copiando anche l’atto creativo.

Il grande ritratto ha una forza etimologicamente apocalittica, cioè, disvelatrice. Con sensibilità profetica Buzzati ha previsto uno scenario non così assurdo e non molto lontano, ormai. Siamo tutti travolti dall’ebbrezza di questo trionfo tecnologico e ci immergiamo entusiasticamente nel flusso infinito delle applicazioni della scienza, apologeti del nuovo. È ovvio. Non può che essere così. Viviamo il nostro presente, godiamo del successo che la nostra intelligenza ha ottenuto. E, soddisfatti, ne celebriamo i vantaggi; abituati alle semplificazioni, ci ripetiamo: “certo se sto usando un PC, vuol dire che non partecipo a un rogo di streghe!”.
 Il nostro occhio, allenato da secoli di progressismo positivistico, ormai vede solo il bicchiere mezzo pieno: ma il fatto di non volerlo guardare, non fa certo sparire il bicchiere mezzo vuoto!

In una poesia dal tono molto polemico, Montale esaminando la presunzione del primate a due piedi che ha ominizzato il cielo e sacralizzato se stesso, esprime l'amarezza per la perdita del sogno, per la caduta di ideali alti, ad opera di una società che ha voluto esaurire il senso solo entro i confini del reale, escludendo o svilendo ogni impeto ideale, in nome dei nuovi epistemi


Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.

                                  (E. Montale, da Satura, 1971)

Buzzati, invece,  con il suo ironico, inimitabile stile, ai transumanisti ansiosi di sfondare le Colonne d’Ercole del possibile, sembra porre un quesito: e poi?


domenica 17 dicembre 2017

MOBILITAZIONE TOTALE

Computer, smartphone, tablet: Maurizio Ferraris, nel suo piacevole saggio "Mobilitazione totale", li chiama ARMI, acronimo per Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità. Un messaggio whatsapp, una e-mail notturna sono un diktat che obbliga moralmente a una risposta: la doppia spunta azzurra su whatsapp rivela che il destinatario ha letto il messaggio e a questo punto rispondere è doveroso.
Si tratta di una vera e propria chiamata alle ARMI, ne consegue una mobilitazione quasi militare: milioni di utenti si trasformano in militi pronti a rispondere al comando. È un nuovo imperativo categorico quello che mi spinge a rispondere a qualunque ora del giorno o della notte a un messaggio whatsapp o a una mail di lavoro che turba la mia quiete domestica e, senza più distinzione tra pubblico e privato, io sono travolto dall’indistinto magma del flusso dei comandi digitali.
Se pensiamo alla dimensione del lavoro – perché le mail più inquietanti sono proprio quelle dei datori di lavoro che come abili stalker disturbano la vita quotidiana, obbligando a forme di attenzione del tutto extracontrattuali -  va detto che ogni tipo di risposta, più o meno articolata, ha luogo fuori dall’orario di servizio, non è contabilizzata come lavoro, non è retribuita. È la nuova frontiera dello sfruttamento: la dilatazione spazio-temporale senza limiti della propria prestazione.
Lo scenario si aggrava se, poi, si considera che le operazioni svolte a titolo gratuito, le interazioni sui social  network generano un plusvalore assoluto. I mobilitati (gli inconsapevoli utenti) mettono, infatti, costantemente a disposizione il loro lavoro (ore di connessione per rispondere a mail, post, messaggi) e mezzi di produzione (computer, contratti con gestori telefonici, energia elettrica, cavi di connessione) e l’apparato tecnologico trae vantaggi economici (pubblicità sui social media, l’accumulo archiviale di dati degli utenti, una base sconfinata di conoscenza).
E Ferraris sottolinea che non basta voler restare “sconnessi”, non è sufficiente la volontà: l’intenzionalità è condizionata irrimediabilmente da sollecitazioni esterne, da imposizioni sociali che annientano l’umanità. Siamo di fronte al tramonto definitivo del socratismo come primato della coscienza e del kantismo come autonomia morale: Ferraris nota che è in atto il primato del sociale, della sollecitazione esterna. Insomma, sulla nostra azione prevale la “chiamata” esterna piuttosto che la spinta interiore. Come in una mobilitazione militare, agiamo anche se non vogliamo, ci sentiamo responsabilizzati, obbligati a rispondere a un messaggio/mail, anche nel cuore della notte di un magico weekend.
Ne deriva un a vera e propria “sociodipendenza”, aggravata dal fatto che il web non solo mobilita richiedendo una risposta alla chiamata, ma, soprattutto, registra: ciò che è impresso sul web è un documento indelebile, una memoria incancellabile, certo, frammentata e confusa, acritica e non storicizzabile nel mare magnum dei dati che i nuovi media collezionano; ma c’è, resta.
Ebbene, la chiamata alle ARMI e le infinite registrazioni di dati che danno vita a un apparato potentissimo che sa tutto di noi e di cui noi, invece, ignoriamo ogni cosa, ci condizionano: a livello intenzionale, perché, in fondo, comunque, rispondiamo; a livello economico, perché mettiamo a disposizione il nostro lavoro, la nostra energia elettrica, il nostro computer, il nostro tablet; a livello antropologico, perché, siamo dipendenti, ormai, dal web, per studiare, lavorare, comprare; a livello psicologico, perché l’intenzionalità della nostra azione è fortemente eterodiretta.
La soluzione che propone Ferraris a questo stato di cose è, però, piuttosto riduttiva e semplicistica rispetto ai tratti profondamente critici della sua analisi. Il web è per lui, comunque, un progresso, basta solo umanizzarlo e usarlo come strumento di diffusione culturale. Il web è la traccia definitiva di una società alfabetizzata, che è sempre meglio di una società analfabeta: in fondo, con tono ironico e volto a minimizzare il problema, Ferraris nota che se rispondiamo a qualche mail nel cuore della notte interrompendo il nostro sonno, è perché non stiamo partecipando a un rogo di streghe!
Insomma, come dire: adattiamoci all’irreversibilità del progresso.
Verga la definiva la “fiumana del progresso”: un’ondata irrefrenabile che, sì, certamente giunge a riva, ma travolge: Verga lo sapeva. E noi?
La conseguenza più grave di questa realtà è la dilatazione estrema e senza confini dello spazio digitale in cui lo spirito soggettivo incontra solo se stesso. Nelle antiche guerre le ARMI uccidevano l’altro, che però, se era fortunato, poteva difendersi e sopravvivere; ora le reti digitali aprono uno scenario nuovo e irreversibile: “l’espulsione dell’altro”. E nel regno della solitudine che il progresso tecnologico ha abilmente costruito, Windows è una finestra senza sguardo. (Byung-Chul Han, L’espulsione dell’altro).

sabato 9 dicembre 2017

L'INNOMINABILE ATTUALE

ROBERTO CALASSO, L'INNOMINABILE ATTUALE

L'età contemporanea è lo scenario di una mutazione antropologica: il passaggio dall'homo sapiens all'homo saecularis, che ha sostituito la conoscenza con l'informazione e ha espulso dai suoi orizzonti esistenziali il senso del divino; ha sacralizzato la società stessa, diventata l'ultimo quadro di riferimento per ogni significato.
La società - nota Calasso - ha perso la capacità di guardare oltre se stessa e ha dato vita al culto di sé: il culto della società divinizzata.
L'autore si chiede, tuttavia, se davvero il soggetto secolare riesca ad appagarsi della cancellazione dell'invisibile e in che modo, dunque, possa placare quell'ansia di ricerca verso la realizzazione di un ordine del mondo, che è il fine ultimo di ogni istanza religiosa.
Secondo Calasso la soluzione è venuta dalla "religione dei dati", quelli non estorti da poteri politici totalitari, ma spontaneamente forniti dal basso ad opera di innumerevoli individui. E questa è, a ben guardare, una nuova maniera per esercitare il controllo sulle coscienze, più forte di ogni Chiesa, più capillare di qualsiasi forza politica, di qualunque forma di controllo sociale. Ogni dato è registrato, tutto è digitabile e, perciò, manipolabile.
Come ogni religione, anche il culto della società divinizzata ha i suoi fondamenti, i suoi precetti, le sue norme: per l'homo saecularis la normalità ha preso il posto della norma.
In effetti, ciò spiegherebbe, l'ansia di normalizzazione che oggi tende a diluire ogni forma di diversità, dai matrimoni gay, all'omologazione dei canoni di bellezza ottenuti tramite la chirurgia estrema, all'uniformità delle mode.
E se la religione è fatta di riti, così l'homo saecularis ha le sue procedure, che hanno sostituito i rituali, solo che vanno nella direzione opposta a questi ultimi. Il rituale apre la coscienza al mistero della fede, che, per esempio, nel Cristianesimo, culmina nella transustansazione. Invece la procedura abbatte ogni fede, tende al totale automatismo di atti meccanici di registrazione finalizzati a operazioni informatiche, bancarie, scolastiche che fanno capo sempre e comunque al Big Data.
Se si abbatte il senso religioso, però, che cosa resta dell'umano bisogno di spiritualità?
Calasso individua due fenomeni in atto: proliferano le sette e cresce la dedizione a un ente non trascendente, ma genericamente definito come "umanità", di cui l'homo saecularis auspica la perenne prosperità. Si tratta di un culto in grado di accogliere indistintamente tutte le religioni e sette di ogni genere, perché si è sbarazzato della fede nel senso tradizionale del termine, ciò come attenzione rivolta a un'entità trascendente. Oggi la sola fede ammessa dall'homo saecularis è quella nella scienza e nei suoi strumenti tecnologici: le altre religioni sono solo un fenomeno sociale come tanti altri e perciò tali da essere incorporate e inglobate nel più ampio culto della società divinizzata. E il rituale di questa religione secolarizzata è la ripetizione che ribadisce l'esistente: pubblicità che si insinua in modo martellante nel mondo psichico degli individui, autoesposizione spontanea e reiterata sui social media.
E se le antiche religioni si costruivano anche attorno a viaggi redentivi compiuti da devoti pellegrini, oggi il secolarismo ha i suoi turisti che si muovono nel mare magnum del cyberspazio, navigano in rete, percorrono una realtà aumentata.
E la nuova Bibbia, il testo sacro del secolarismo, è il digitale/digitabile. Tutto ciò che è digitabile, infatti, diventa digitale: si tratta di una dimensione iperenciclopedica, che contiene tutto, è un caos algoritmico che mescola informazioni veritiere a informazioni infondate. Il sapere perde prestigio a favore di un'infinita disponibilità informatica di dati. I Big Data amministrano coloro da cui hanno avuto origine, mescolano e rielaborano i dati che noi abbiamo spontaneamente fornito, un immenso materiale cui si applica il gioco combinatorio dell'algoritmo.
Cè, tuttavia, in questo processo, l'illusione della libertà: si chiama disintermediazione e consiste nell'impressione di agire in prima persona senza il fastidio di ricorrere a intermediari. Questo odio per la mediazione ci spinge ad agire da soli per prenotare una camera d'albergo e il biglietto per un viaggio o a vagheggiare una democrazia diretta, meglio se fondata sull'infatuazione informatica, che abbatte ogni passaggio, ogni mediazione, ogni attesa.
E la coscienza? Quale posto occupa la coscienza nel pensiero dei transumanisti, il cui approdo finale è la Singularity di Ray Kurzweil?
L'homo saecularis è transumanista perché affida alla tecnologia quell'ansia religiosa che però ha espulso dalla sua storia e perché tende verso il superamento dei confini della natura umana. La sua è la religione del Dataismo. Con un abile gioco di parole Calasso delinea la sostituzione del Dadaismo - dirompente movimento avanguardistico del Novecento che predicava la sconnessione universale e l'abrasione di ogni significato - con il Dataismo che vuole, invece, la connessione coatta di ogni individuo trasformato in soldatino agli ordini di un fantomatico Stato Maggiore non meglio identificato  se non come Big Data.
Il senso è questo: registriamo e connettiamo la nostra esperienza al grande flusso di dati e gli algoritmi scopriranno il suo significato e ci diranno cosa fare.
E questo processo investirà anche la dimensione dei valori, dunque, della coscienza.
Si arriverà al punto in cui l'intelligenza artificiale sarà human compatible: attraverso un allineamento di valori la macchina/robot diventerà altruistica. Il robot diventerà superintelligente e capace di orientarsi tra i valori umani grazie a un sistema infallibile: LEGGENDO  tutto ciò che la razza umana ha scritto e da cui sgorga il succo dei valori.
Questo è il punto di arrivo: Singularity, una teologia secolarizzata, che si risolve tutta dentro la società, procede attraverso i mezzi tecnologici, ha fede solo nell'umanità, attribuisce alle macchine anche il complesso dei valori umani, ma non sa che farsene di principi come grazia  e libero arbitrio.

Gli scrittori hanno doti profetiche.
Come Baudelaire nel suo sogno visionario aveva previsto il crollo di un'immensa torre che poi la storia ha tragicamente conosciuto in forma persino raddoppiata, in quel famigerato 11 settembre 2001, così Calasso profetizza apocalitticamente, in un futuro non troppo lontano, la fine della società umana, l'unica in grado di autodistruggersi, paradossalmente in nome della religione del progresso e della felicità.