Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

giovedì 10 gennaio 2019

SCRIVERE IL FUTURO


Del futuro gli antichi ci hanno insegnato a diffidare: Orazio scriveva malinconicamente carpe diem, quam minimum credula postero. In tempi recenti il futuro ci è stato presentato come un incubo: M. Benasayag e G. Schmit, nel loro saggio L’epoca delle passioni tristi, hanno ben spiegato il passaggio dal futuro-promessa al futuro minaccia che segna ormai i nostri giorni, incombe sulle nuove generazioni, spoglia il loro occhi dell’energia necessaria ad affrontare il mondo, la vita.  
Anche Bauman, in un suo breve saggio Scrivere il futuro, sviluppa questo argomento e non nega certo che il carattere fondamentale del tempo attuale sia l’incertezza, una spiacevole dimensione che precarizza il presente, rende nebuloso l’avvenire e circoscrive il campo della soddisfazione alle “retrotopie”, cioè a un passato che non può tornare. Bauman, anzi, precisa che l’errore più frequente che  noi ingenuamente commettiamo è quello di considerare l’incertezza come l’effetto di un nostro deficit  di conoscenza. Invece, spiega il sociologo, è proprio una questione ontologica: l’instabilità e la turbolenza sono sistemiche e strutturali. Il nostro non è il mondo dell’essere, è il mondo del divenire. Può non piacerci, ma è così: siamo come matite che non possono reggersi sulla punta e se anche ci riuscissero per qualche frazione di secondo, al primo colpo di vento crollerebbero. Appare chiaro, dunque, perchè il futuro non abbia i tratti della vie en rose.
Bisogna rassegnarsi? No. Bauman non è affatto di questo parere! Anzi, sottolinea il valore importantissimo dell’azione individuale nella e sulla storia. De Gregori cantava la storia siamo noi. E citando Havel, il grande eroe che riuscì ad abbattere il peggior bastione, uno dei più biechi regimi, quello della Repubblica Ceca, il sociologo riporta una sua riflessione e cioè che per prevedere il futuro bisogna sapere quali canzoni una nazione ama cantare.
Ebbene, l’Italia oggi non canta più i testi di De Gregori, Guccini, De Andrè. Canta e ascolta quelli di Sfera Ebbasta.
Forse dobbiamo ripartire da qui per rifare la storia e costruire il futuro: impegnarci a scegliere canzoni migliori.

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