Sbagliava Platone a condannare le immagini: lui riteneva che
producessero effetti illusori e ingannevoli. La rivoluzione digitale ha,
invece, dimostrato il contrario: nel
mondo digitale tende a scomparire ogni differenza tra l’originale e la sua
copia, la realtà diventa più reale
della realtà, più vera del vero,
cioè “iperreale” e la sua
forza comunicativa si intensifica. Ne parla Vanni Codeluppi nel saggio Il tramonto della realtà. Come i media stanno
trasformando le nostre vite.
Che cosa accade se la vita reale si trasforma in un reality? Certo, ci sono senza dubbio
conseguenze se il reality show consente il facile successo di persone comuni e
l’interazione con gli spettatori a casa, sempre
più coinvolti nei programmi televisivi; ma, in fondo, questo è
semplicemente marketing neotelevisivo che ha tolto alla “paleotelevisione” la
sua antica funzione pedagogica, per usare espressioni care a Umberto Eco, lo
ricorda giustamente V. Codeluppi.
Piuttosto, c’è da chiedersi, che cosa succede
se la vita quotidiana diventa un reality
show, se la politica diventa spettacolo, con una trama, personaggi e spazi
d’azione, suspance, colpi di scena, e, infine, se persino la scuola si esibisce
in performance da postare sui social e sui siti web, sui media digitali? E,
soprattutto che cosa accade se questa dimensione costruita per la visibilità
diventa più reale, anzi, forse l’unica a cui la società dà credito?
Spettacolizzare, per esempio, l’arresto di un terrorista per
costruire una narrazione delle forze politiche al governo, agire con abiti di
scena – divise delle forze armate - che trasformano agli occhi di moltitudini
spaventate da una crisi che non passa più, un uomo politico in un supereroe
macchiettisticamente dannunziano, fa sì che lo storytelling lasci sedimentare un
preciso messaggio nell’opinione pubblica. E questo messaggio è tanto più
penetrante non solo se i canali di comunicazione sono molteplici (radio,
televisione, stampa, media digitali, social network), ma soprattutto se chi
recita la parte e il copione finisce col crederci, fino a considerare vero quello che ha
narrato, immedesimandosi perfettamente nel ruolo e facendo così coincidere il
personaggio con la persona.
Si tratta di un processo abbastanza fuorviante, piuttosto
pericoloso perché contamina vari ambiti della vita sociale.
Si pensi a ciò che avviene a scuola, il posto in cui
mandiamo i nostri figli perché diventino persone complete, colte, capaci di
affrontare la vita e le sue sfide.
E invece anche a scuola quello che conta non è ciò che si fa, ma la sua narrabilità. Siamo
assistendo, in vari campi, ad un lento, graduale, programmatico svuotamento di
senso, alla costruzione di una realtà deformata dalla trama narrativa che viene
costruita esattamente come nel mondo politico: chi governa cerca consenso, la
scuola vuole ottenere iscrizioni. Il punto fondamentale è che non è più
possibile fare a meno della trama narrativa. I dirigenti scolastici adoperano i
media come cassa di risonanza per la propria propaganda, esattamente come facevano
Alessandro Magno e Augusto per celebrare le proprie res gestae o, in tempi più recenti, i grandi Dittatori per
costruire l’ideologia del potere: amplificare la portata dei fatti attraverso
la loro narrabilità. Però, va ricordato, quelli citati non furono fulgidi
esempi di democrazia.
A scuola si opera perché tutto possa diventare esperienza
visibile, pubblicabile, “postabile”. I dirigenti scolastici travolti dal
vortice della competizione fra istituti ormai strutturati come aziende in
concorrenza, non puntano più sulla qualità delle conoscenze e delle proposte
culturali, ma solo alla narrabilità delle iniziative: un’attività conta per la
narrazione che se ne può dare e che possa tradursi in un quantum di iscrizioni, è merce di scambio. Perciò non sono affatto
importanti i libri che i docenti fanno leggere ai ragazzi, vale solo il fatto
che si possa dire, raccontare, che è in atto un reading in classe, perché l’elemento anglofono fa più effetto;
oppure l’idea conta solo nel momento in cui si decide di riabilitare quella
materia “inutile” come il latino per trovare un titolo stravagante all’idea,
non troppo appetibile in sé, di far leggere un libro in classe agli studenti: e
allora dare un nome straordinario, in latino,
- per esempio, verba … manent
- alle ordinarie ore di lettura, trasforma una cosa antica e sensata, ma dai
più giovani evitata - come appunto è la lettura - in un post, in un video che
amplifichi l’evento e trasformi l’ordinario in straordinario, la classe in
eccellenza, il docente in intellettuale carismatico e la scuola nell’Empireo
della novità, ergo, nella scuola “da scegliere”!
Licei che organizzano corsi di
addestramento per bagnini e velisti, angoli relax con tavolini da bar, scale
decorate con titoli variopinti di opere classiche e scientifiche sembrano dire
molto di più, spettacolarizzano, aggiungono l’effetto speciale ad una scuola
che se si limita a fare ciò per cui è nata (istruire, insegnare, formare) non
attrae “utenti”. Il punto è che chi costruisce la narrazione crede alla
finzione che ha inventato e l’immagine cattura, seduce, attrae più della sostanza:
si chiama “imagocrazia” (definizione che fa capo a Guerino Bovalino). Insomma, come scrive Marc Augé nel saggio La
guerra dei sogni, non è più la finzione che imita la realtà, ma la realtà che
riproduce la finzione. Si costruisce così una mitografia: quello che conta
è il nome … nomina nuda tenemus.
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