Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

lunedì 12 febbraio 2024

DAVIDE GRITTANI - IL GREGGE

 

“Alle città servono più sentimenti che sindaci, basterebbe sentirle davvero nostre per proteggerle come si fa con una storia d’amore”: è questa la tesi di fondo del nuovo romanzo di D. Grittani, Il gregge (Alter Ego, 2024). Si coglie in maniera evidente il filo rosso con A. Gramsci che, in un famoso articolo del 1917 intitolato Politici Inetti – Una verità che sembra un paradosso, sottolineava come più che tecnica o strategia, a chi fa politica sia necessario avere fantasia, profondità spirituale, sensibilità, simpatia umana: “perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere”.

Ebbene Grittani dimostra che al ceto politico attuale la fantasia manca: non ce l’hanno né Matteo Migliore né Michele Ametrano - avversari politici che nel libro Il gregge affrontano la competizione elettorale per la candidatura a sindaco di una grande città del Nord Italia, probabilmente Milano, ma forse una qualunque nostra città. Si scontrano su poli opposti, però hanno le stesse finalità e modalità operative, cercano consensi, non hanno scrupoli, vogliono potere: “l’ossessione per il consenso ha disperso i confini della ragione”. Quella forza distruttiva che inabissò la res publica romana preparando il terreno al regime augusteo, la cupido imperi – come la definisce Sallustio, mettendo in evidenza che allora come oggi si accompagna a una pericolosissima cupido pecuniae - non è mai morta, anzi, continua senza sosta a inquinare l’idea di politica. Matteo Migliore, infatti, fagocitato dall’ambizione, è la sintesi perfetta della peggiore corruzione mista a retorica razzista e tentazioni superomistiche: non esita a ricorrere alla violenza per sbarazzarsi di chi, indagando sul suo passato, rischia di far emergere i loschi affari di cui è stato artefice. Inizia così una storia di omertà e complicità dalle disastrose conseguenze. Michele Ametrano non ha remore a cavalcare la tragica sventura in cui incorre il suo avversario e a fare del trasformismo, del clientelismo, le regole del gioco politico. Davanti al suo comitato elettorale si raduna gente “disposta a qualunque cosa pur di essere ricevuta” e Ametrano elabora tattiche per arrivare dove forse neanche Migliore si è spinto: “alla brutalità del bene”. Cavalcare il disagio sociale, speculare sulla condizione di bisogno delle persone impoverite da un sistema che da anni tutela i privilegi e calpesta i diritti: è questo il modus operandi dei politici sempre a galla. Non è il male che si nasconde dietro il volto dell’uomo perbene, non è, cioè, la banalità del male che oggi spaventa, ma  piuttosto la brutalità del bene, scrive Grittani, quello cioè che il politico scaltro mefistofelicamente promette per chiederti poi, insieme con il voto, l’anima in cambio.

Non importa a quali politici l’autore si stia in realtà riferendo, sono chiaramente riconoscibili. Tutti cogliamo dietro le sue ironiche descrizioni, il profondo disgusto per una fase storica come la nostra in cui abbiamo permesso “alla mediocrità di occupare il posto della democrazia. Di occupare tutti i posti”. Abbiamo, noi, costruito l’ultranulla, lo svuotamento dell’idea stessa di politica, la caduta degli ideali, e ci siamo assuefatti, non abbiamo cercato alternative, abbiamo accettato tutto, “come un gregge qualsiasi”. Noi “abbiamo imparato a escludere l’etica dai nostri sistemi operativi”, considerando normale, parte del gioco, il fatto che i mediocri senza idee, ma abbastanza furbi da usare “una lingua chiara e comprensibile” adatta a “concetti elementari”, abbiano saputo farsi strada tra la disperazione delle folle, perché “nessun altro ha saputo interpretare quel disagio”. L’ultranulla siamo noi con la nostra antipolitica, con la nostra indignazione solo urlata, noi che ci siamo sottratti alle nostre scelte, noi con il nostro astensionismo nichilista: “sono state le nostre rinunce a incoraggiare l’emersione di questo nulla”.

La voce narrante è quella del compagno di classe di Matteo Migliore, il politico che recluta i vecchi amici del Liceo Pasolini nello staff degli organizzatori della sua campagna elettorale. I nomignoli con cui tra loro si identificano sono rimasti gli stessi con cui si chiamavano ai tempi del liceo, nessuna variazione, come nella loro incoscienza: “è stato strano lasciarli immaturi e ritrovarli immutati”, commenta l’io narrante. Il protagonista del romanzo affronta invece un percorso di crescita e trasformazione: inizialmente accetta di collaborare alla campagna elettorale di Migliore, lo fa non per convinzione, ma per incapacità di dire di no, quella stessa incapacità che ci rende schiavi del destino e non uomini in rivolta, come direbbe Camus. L’esperienza di questa folle collaborazione lo renderà consapevole dell’ultranulla e delle degenerazioni di un ingranaggio che di politico non ha niente, visto che per politica si deve intendere la nobile cura del bene di tutti.

L’ultranulla, sottolinea Grittani non è però solo l’inadeguatezza, l’incompetenza, il vuoto valoriale e l’inanismo di un’intera classe dirigente nata dalle macerie di uno Stato aggredito dallo stragismo, morto con il delitto Moro, deturpato dalla solitudine immensa alla quale sono stati condannati i grandi Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino.

L’ultranulla è una nuova forma di terribile nichilismo. In passato il nichilismo è stato attivo, generativo. Camus nel suo più doloroso romanzo, La peste, spiega che se nella sua Orano dominano orrore e desolazione, chi è uomo deve “restare”. Padre Paneloux di fronte all’irrazionalità del male che uccide i bambini, ammette lo scandalo di non avere risposte, ma la sua reazione non è certo la fuga, bensì lo scatto umano, la responsabilità di continuare a “camminare nelle tenebre e tentare di fare del bene. “Bisogna essere colui che resta”, gli fa dire Camus: questo significa essere uomini.

Grittani fa coincidere l’ultranulla con una grave patologia del corpo sociale, l’indifferenza, “il peso morto della storia” la chiamava Gramsci nel suo famoso Odio gli indifferenti; l’ultranulla è il cinismo che vanifica lo sforzo di chi si batte per la giustizia. Gramsci con la sua vigile lungimiranza scriveva: “ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare”. 

Al protagonista del romanzo di Grittani, però, il coraggio arriva, e arriva insieme alla decisione di prendere le distanze da una politica ridotta a Risiko.

C’è un episodio molto significativo nel libro Il gregge: il protagonista del romanzo si reca sulla tomba del suo amico Mario, detto Bulldog, stroncato da un'ignobile vendetta politica ordita come ritorsione per le sue indagini su un colossale caso di evasione fiscale che avrebbe rischiato di travolgere intoccabili vertici: una morte causata, un omicidio programmato, un delitto, però, capace di scuotere le coscienze. È sulla tomba dell’amico che Grittani fa pronunciare al suo personaggio l’atto di autoaccusa: “anch’io galleggio come tutti, come tutti sono finito a fare cose per cui ci si odia”. È doloroso ammettere che “qualcosa abbiamo sbagliato se la rivoluzione in cui credevamo è finita tra questi fiori ammalorati”. Ebbene al termine della visita sulla tomba di Bulldog, il protagonista gli chiede aiuto, “vienimi in sogno. Vienimi incontro. Ovunque possa capire cosa fare di questo tormento”.

La riflessione sulla tomba di chi si stima, sulla lapide della persona di cui si vorrebbe raccogliere l’eredità morale, il bisogno di richiamarsi a un “fratello” maggiore, a un modello di riferimento, è un omaggio che Grittani fa a Gomorra: nel romanzo di Saviano, infatti, la voce narrante si reca a Casarsa, presso la tomba di Pasolini, per recitare quello che definisce L’io so del mio tempo, allusione esplicita al celebre articolo di Pasolini Che cos’è questo golpe?.

E risalendo lungo la scala dei rimandi letterari evocati da Grittani, non si può non riconoscere il riferimento a Pasolini stesso, al componimento Le Ceneri di Gramsci, in cui il poeta dialoga con le spoglie del politico e pensatore sardo, in un maggio pesante, nel cui grigiore sembra naufragare “lo sforzo di rifare la vita”.

Il pregevole lavoro di Grittani, carico di tensione civile, parte da una denuncia amara sulle derive del nostro presente, ci mostra il grave rischio che tutti stiamo correndo: accettando l’ultranulla  “diventiamo gli spazi che abitiamo”. Se lasciamo che le nostre città si facciano prede dell’ignoranza, sarà così. Tocca a noi, dunque, cominciare a “proteggerle” “come si fa con una storia d’amore”, consapevoli del fatto che, come diceva ancora Camus, “la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei”.

 

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