Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 2 gennaio 2024

R. CICCARONE - AL CANTO DELLE SIRENE MANCA L'ACQUA POTABILE

                                                                                                                 Lo scaffale disadorno mostra
                                                                                                                 le inconsistenze temporali
                                                                                                                 solo un pupazzo a pezzi
                                                                                                                 sotto i calcinacci germoglia ...

                                                                                               (da Arrivata la cataratta la pupilla si esaltò)

 

Al canto delle sirene manca l’acqua potabile è il titolo della nuova raccolta poetica di Raffaele Ciccarone, (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2023). In chiaro “stile Kitchen”, lo stridente accostamento tra la leggendaria bellezza delle sirene e la prosaica ordinarietà dell’acqua potabile, per la cui assenza le creature del mito annaspano, traduce in modo immediato l’interrogativo di fondo che costituisce il filo rosso dei componimenti di questa silloge: la poesia ha ancora qualcosa da cantare?

C’è un brevissimo racconto di Franz Kafka, Il silenzio delle sirene, in cui l’autore boemo immagina una storia diversa dal noto racconto omerico e cioè riferisce che all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono: le sirene avevano rinunciato a sedurre l’eroe, preferendo il silenzio.

Stando, dunque, alla lezione di Kafka, dovremmo dedurre che nel mondo contemporaneo non ci sia più spazio per il canto delle sirene, per la poesia: l’orrore quotidiano ha cancellato ogni possibile traccia di bellezza. Già Baudelaire notava che la rue assourdissante – metafora della civiltà industriale con il suo rumore di fondo – rendeva fuggitiva la bellezza, riducibile solo a un lampo cui seguiva poi un’interminabile notte. E al poeta che in un’epifanica rivelazione riusciva a cogliere, pur nell’insensatezza dell’esistenza, il fascino intraducibile di ciò che si cela oltre la fenomenica materialità delle cose, non restava, alla fine, che l’amarezza dell’inattingibilità, la certezza dolorosa dell’impossibilità di un completo possesso.

Sarebbe il caso dunque di ammettere che la poesia non ha più niente da cantare. È questo il senso della riflessione di Montale: quando gli fu conferito il premio Nobel, alla domanda se ancora fosse possibile la poesia nella società contemporanea, rispose chiaramente che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani.

Non resterebbe, allora, che l’afasia.

Eppure, anche se perduto ha la voce /la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto - scriveva C. Sbarbaro - Ciccarone dichiara convintamente, invece, che a nulla serve il silenzio dei poeti (p.24) e che quando il canto delle sirene smette / è già buio (p.76): è compito dunque dei poeti sfidare il buio, riuscire a scorgere quell’ignota forza che può tra una stella e una cometa lambire un papavero (p.78). In fondo sono loro, i poeti, i soli in grado di decifrare il linguaggio di una nuvola nel deserto (p.60).

Nella prefazione alla raccolta di R. Ciccarone, G. Linguaglossa, citando Hölderlin, nota: ciò che resta lo fondano i poeti. Gli antichi hanno tramandato che il poeta dei poeti, Omero, fosse cieco: a dire il vero nessuno sa niente di Omero, ma averlo immaginato privo di una vista fisica simbolicamente spiegava il fatto che i poeti fossero in realtà dotati di uno sguardo superiore, di una prospettiva unica, della capacità di vedere ciò che all’uomo comune sfugge.

Questo non significa certo negare il deserto: i poeti sanno bene che la risposta latita (p. 21). Non c’è infatti soluzione al caos imperante, non esistono porti sicuri di fronte al naufragio dei significati. In un mondo in cui le certezze vacillano neppure la scienza con le sue leggi è in grado di sciogliere i nodi della storia, perché la nostra è una realtà fatta di paradossi che dissolvono la logica, le sue formule e i suoi teoremi: nel triangolo l’ipotenusa si allontana dal cateto (p.15), l’essere umano opera per la sua stessa estinzione e fa della scienza esatta un’arma volta allo sterminio, osservava Quasimodo con grande lucidità.

Ma i poeti non cercano soluzioni, non sono loro a doverle fornire. Il loro sguardo si stende oltre i deserti, si ferma negli interstizi dell’esistenza: se Lesbia insiste nel baciare (p.19) vuol dire che in fondo ci sono ancora strade da percorrere; anche se le nostre vite ci appaiono come trincee piene di cunicoli labirintici e oscuri, i poeti come talpe in avanscoperta cercano brandelli di pace (p.52): anche loro, come Omero, vedono poco e a fatica mettono a fuoco i varchi della speranza, ma si sforzano con tenacia. Sanno certamente che lo scaffale disadorno mostra/ le inconsistenze temporali, ma continuano a credere che, nonostante tutto, anche un pupazzo a pezzi sotto i calcinacci germoglia (p. 52). 

Non abbiamo altro che il presente: la memoria ha diamanti sporchi (p.25), il passato non insegna, il futuro ci minaccia, il tempo come dimensione progressiva è un’invenzione dei filosofi. La storia - sosteneva Montale - non è magistra di niente che ci riguardi e soprattutto non contiene / il prima e il dopo. Rimane, dunque, solo uno scaffale disadorno, che noi dovremo riempire. Tocca a noi trovare il senso all’esistenza sradicata di un mondo senza appigli, dai cui calcinacci – frammenti disgregati di un tutto che non c’è più – può germogliare ancora la bellezza: la farfalla vola sul campanile (p.59), la luna prende un caffè a Venezia (p.80) e la nebbia si può fendere se Kandinsky lancia segni fluorescenti (p.70).  È questo il potere dell’Arte.

                             

                                                                                                                                                                    

 

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