L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi, 2023) è un romanzo basato sulla centralità del silenzio, una barriera che separa le persone, impedisce agli affetti di esprimersi. È lui il vero protagonista della storia narrata, il demone che rende fragile ogni età della vita.
La vicenda prende spunto
da una violenza che si è consumata tra le montagne abruzzesi, una tragedia che
travolge la comunità e lascia segni pesanti sulle vite di tutti. Sullo sfondo
di questa dolorosa esperienza, si innestano sofferenze personali che segnano le
esistenze e procurano ferite immedicabili.
E tra drammi collettivi e
individuali, si insinua lui, il silenzio, che paradossalmente amplifica il peso
delle storie di ognuno.
Si tratta di un silenzio
che paralizza slanci affettivi, cristalizza il passato, inibisce chiarimenti,
disgrega legami, scava abissi.
La voce narrante è quella
di Lucia. La prima cosa che mette in evidenza è l’assenza di un rapporto
concreto e comunicativo con la figlia Amanda, improvvisamente ritornata a casa
dopo una disavventura che la madre solo più avanti scoprirà. La ragazza non dà
spiegazioni e non tollera domande; piange, ma dice chiaramente alla madre: non
chiedermi niente (p.15). Lucia ignora molte cose di Amanda: io non so
cosa dire di mia figlia (p. 21). Madre e figlia comunicano
attraverso frasi scritte su foglietti e anche sulla carta l’impulso naturale a
manifestare i propri sentimenti verso Amanda, viene subito represso da Lucia: aggiungo
un cuore per lei, che subito cancello (p. 6). Si tratta di una vera e
propria paralisi della comunicazione. Lucia ne è consapevole, ma non sa
fronteggiarla: restituisco silenzio a silenzio (p. 26). Come madre si
pone interrogativi, sa che dovrebbe costruire un legame più solido con la
figlia, ma le mancano le parole e Amanda, d’altra parte, non si confida con
lei. Resta solo una profonda amarezza in Lucia: non accetto che mia figlia
faccia a meno di me. La sua rinuncia è il mio fallimento (p. 174). E alla
incolmabile certezza della distanza, forse aggravata anche dai contrasti generazionali,
si aggiunge anche una sottile paura per il giudizio sferzante con cui i figli attribuiscono
colpe ai genitori: a un certo punto perdiamo la presa sulla vita dei figli.
Vanno da soli e ci guardano spietati (p. 96). Amanda, infatti, attribuisce Lucia
il peso della separazione dal padre, Dario: ti ha lasciata e nemmeno te ne
sei accorta (p.97). Non entra nel merito dei disagi coniugali, Amanda, ma fa
ricadere sulla madre la responsabilità del non accorgersi: vivere
insieme non basta, insomma. Amarsi è un’altra cosa e Amanda è su questo che
insiste.
A dispetto dei loro nomi parlanti
– Lucia, colei che dovrebbe “illuminare” il percorso di crescita della giovane figlia
e Amanda, la figlia appunto da “amare” al di là della ruvidità del carattere – le
due donne non riescono a trovare un terreno comune sul quale gettare le basi
per un possibile dialogo. Con lucidità Lucia ammette infatti: ciò che vale
per me, conta così poco per mia figlia. Anzi, quando Amanda parte e va a lavorare
a Jesi per un breve periodo, incerta se riprendere gli studi (non è una
laurea a decidere chi sei, p. 172), con vergogna Lucia dice a sé stessa: per
un mese sono libera dalla responsabilità, un sollievo. Sono libera da lei (p.174).
In questo romanzo non sono messi in discussione i sentimenti, bensì domina l’incapacità
di esprimerli. Lucia ama la figlia, (la amo. Più di tutto la amo, p.
174), ma non sa dirglielo.
Parte da lontano questa
incapacità. Parlando del padre Lucia nota che non conosce parole d’affetto
(p.108) e ricostruendo la storia dei genitori osserva: mi hanno concepita
restando muti, lui per ignoranza, lei per pudore (p.108).
Il silenzio è il muro che
separa Lucia anche dall’ex marito, Dario, con il quale spera segretamente che
possano esserci possibilità di riavvicinamento, ma il silenzio, appunto, scava siderali
distanze: tra loro ci sono ormai solo sguardi mancati, indifferenza. Lucia lo
sa bene: ci stiamo perdendo così, senza passione e senza sangue. Non so
quanti chilometri restiamo zitti. (p.99). È questo il peso dell’incomunicabilità.
Sembra di vedere Gli amanti di Magritte, due volti separati da un drappo
bianco che impedisce loro anche i gesti più naturali: guardarsi, baciarsi. Per
Donatella Di Pietrantonio quel drappo è il silenzio, i troppi non detti.
C’è in questo romanzo un’immagine
che sintetizza il peso del silenzio: a Napoli, durante una gita che Lucia,
ragazza, fa con la madre, le due donne si fermano a vedere il Cristo velato.
La madre lo osserva in raccoglimento. È il velo che la colpisce, non il volto
del Cristo morto: è proprio un velo, ma di pietra (p.154).
Il silenzio è
impalpabile, ma può essere di pietra.
(cfr. https://www.glistatigenerali.com/letteratura/leta-fragile-il-silenzio-che-scava-abissi/)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.