Computer, smartphone, tablet: Maurizio Ferraris, nel suo piacevole saggio "Mobilitazione totale", li chiama ARMI, acronimo per Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità. Un messaggio whatsapp, una e-mail notturna sono un diktat che obbliga moralmente a una risposta: la doppia spunta azzurra su whatsapp rivela che il destinatario ha letto il messaggio e a questo punto rispondere è doveroso.
Si tratta di una vera e propria chiamata alle ARMI, ne consegue una mobilitazione quasi militare: milioni di utenti si trasformano in militi pronti a rispondere al comando. È un nuovo imperativo categorico quello che mi spinge a rispondere a qualunque ora del giorno o della notte a un messaggio whatsapp o a una mail di lavoro che turba la mia quiete domestica e, senza più distinzione tra pubblico e privato, io sono travolto dall’indistinto magma del flusso dei comandi digitali.
Se pensiamo alla dimensione del lavoro – perché le mail più inquietanti sono proprio quelle dei datori di lavoro che come abili stalker disturbano la vita quotidiana, obbligando a forme di attenzione del tutto extracontrattuali - va detto che ogni tipo di risposta, più o meno articolata, ha luogo fuori dall’orario di servizio, non è contabilizzata come lavoro, non è retribuita. È la nuova frontiera dello sfruttamento: la dilatazione spazio-temporale senza limiti della propria prestazione.
Lo scenario si aggrava se, poi, si considera che le operazioni svolte a titolo gratuito, le interazioni sui social network generano un plusvalore assoluto. I mobilitati (gli inconsapevoli utenti) mettono, infatti, costantemente a disposizione il loro lavoro (ore di connessione per rispondere a mail, post, messaggi) e mezzi di produzione (computer, contratti con gestori telefonici, energia elettrica, cavi di connessione) e l’apparato tecnologico trae vantaggi economici (pubblicità sui social media, l’accumulo archiviale di dati degli utenti, una base sconfinata di conoscenza).
E Ferraris sottolinea che non basta voler restare “sconnessi”, non è sufficiente la volontà: l’intenzionalità è condizionata irrimediabilmente da sollecitazioni esterne, da imposizioni sociali che annientano l’umanità. Siamo di fronte al tramonto definitivo del socratismo come primato della coscienza e del kantismo come autonomia morale: Ferraris nota che è in atto il primato del sociale, della sollecitazione esterna. Insomma, sulla nostra azione prevale la “chiamata” esterna piuttosto che la spinta interiore. Come in una mobilitazione militare, agiamo anche se non vogliamo, ci sentiamo responsabilizzati, obbligati a rispondere a un messaggio/mail, anche nel cuore della notte di un magico weekend.
Ne deriva un a vera e propria “sociodipendenza”, aggravata dal fatto che il web non solo mobilita richiedendo una risposta alla chiamata, ma, soprattutto, registra: ciò che è impresso sul web è un documento indelebile, una memoria incancellabile, certo, frammentata e confusa, acritica e non storicizzabile nel mare magnum dei dati che i nuovi media collezionano; ma c’è, resta.
Ebbene, la chiamata alle ARMI e le infinite registrazioni di dati che danno vita a un apparato potentissimo che sa tutto di noi e di cui noi, invece, ignoriamo ogni cosa, ci condizionano: a livello intenzionale, perché, in fondo, comunque, rispondiamo; a livello economico, perché mettiamo a disposizione il nostro lavoro, la nostra energia elettrica, il nostro computer, il nostro tablet; a livello antropologico, perché, siamo dipendenti, ormai, dal web, per studiare, lavorare, comprare; a livello psicologico, perché l’intenzionalità della nostra azione è fortemente eterodiretta.
La soluzione che propone Ferraris a questo stato di cose è, però, piuttosto riduttiva e semplicistica rispetto ai tratti profondamente critici della sua analisi. Il web è per lui, comunque, un progresso, basta solo umanizzarlo e usarlo come strumento di diffusione culturale. Il web è la traccia definitiva di una società alfabetizzata, che è sempre meglio di una società analfabeta: in fondo, con tono ironico e volto a minimizzare il problema, Ferraris nota che se rispondiamo a qualche mail nel cuore della notte interrompendo il nostro sonno, è perché non stiamo partecipando a un rogo di streghe!
Insomma, come dire: adattiamoci all’irreversibilità del progresso.
Verga la definiva la “fiumana del progresso”: un’ondata irrefrenabile che, sì, certamente giunge a riva, ma travolge: Verga lo sapeva. E noi?
La conseguenza più grave di questa realtà è la dilatazione estrema e senza confini dello spazio digitale in cui lo spirito soggettivo incontra solo se stesso. Nelle antiche guerre le ARMI uccidevano l’altro, che però, se era fortunato, poteva difendersi e sopravvivere; ora le reti digitali aprono uno scenario nuovo e irreversibile: “l’espulsione dell’altro”. E nel regno della solitudine che il progresso tecnologico ha abilmente costruito, Windows è una finestra senza sguardo. (Byung-Chul Han, L’espulsione dell’altro).
Leggere vuol dire...
Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)
domenica 17 dicembre 2017
sabato 9 dicembre 2017
L'INNOMINABILE ATTUALE
ROBERTO CALASSO, L'INNOMINABILE ATTUALE
L'età contemporanea è lo scenario di una mutazione antropologica: il passaggio dall'homo sapiens all'homo saecularis, che ha sostituito la conoscenza con l'informazione e ha espulso dai suoi orizzonti esistenziali il senso del divino; ha sacralizzato la società stessa, diventata l'ultimo quadro di riferimento per ogni significato.
La società - nota Calasso - ha perso la capacità di guardare oltre se stessa e ha dato vita al culto di sé: il culto della società divinizzata.
L'autore si chiede, tuttavia, se davvero il soggetto secolare riesca ad appagarsi della cancellazione dell'invisibile e in che modo, dunque, possa placare quell'ansia di ricerca verso la realizzazione di un ordine del mondo, che è il fine ultimo di ogni istanza religiosa.
Secondo Calasso la soluzione è venuta dalla "religione dei dati", quelli non estorti da poteri politici totalitari, ma spontaneamente forniti dal basso ad opera di innumerevoli individui. E questa è, a ben guardare, una nuova maniera per esercitare il controllo sulle coscienze, più forte di ogni Chiesa, più capillare di qualsiasi forza politica, di qualunque forma di controllo sociale. Ogni dato è registrato, tutto è digitabile e, perciò, manipolabile.
Come ogni religione, anche il culto della società divinizzata ha i suoi fondamenti, i suoi precetti, le sue norme: per l'homo saecularis la normalità ha preso il posto della norma.
In effetti, ciò spiegherebbe, l'ansia di normalizzazione che oggi tende a diluire ogni forma di diversità, dai matrimoni gay, all'omologazione dei canoni di bellezza ottenuti tramite la chirurgia estrema, all'uniformità delle mode.
E se la religione è fatta di riti, così l'homo saecularis ha le sue procedure, che hanno sostituito i rituali, solo che vanno nella direzione opposta a questi ultimi. Il rituale apre la coscienza al mistero della fede, che, per esempio, nel Cristianesimo, culmina nella transustansazione. Invece la procedura abbatte ogni fede, tende al totale automatismo di atti meccanici di registrazione finalizzati a operazioni informatiche, bancarie, scolastiche che fanno capo sempre e comunque al Big Data.
Se si abbatte il senso religioso, però, che cosa resta dell'umano bisogno di spiritualità?
Calasso individua due fenomeni in atto: proliferano le sette e cresce la dedizione a un ente non trascendente, ma genericamente definito come "umanità", di cui l'homo saecularis auspica la perenne prosperità. Si tratta di un culto in grado di accogliere indistintamente tutte le religioni e sette di ogni genere, perché si è sbarazzato della fede nel senso tradizionale del termine, ciò come attenzione rivolta a un'entità trascendente. Oggi la sola fede ammessa dall'homo saecularis è quella nella scienza e nei suoi strumenti tecnologici: le altre religioni sono solo un fenomeno sociale come tanti altri e perciò tali da essere incorporate e inglobate nel più ampio culto della società divinizzata. E il rituale di questa religione secolarizzata è la ripetizione che ribadisce l'esistente: pubblicità che si insinua in modo martellante nel mondo psichico degli individui, autoesposizione spontanea e reiterata sui social media.
E se le antiche religioni si costruivano anche attorno a viaggi redentivi compiuti da devoti pellegrini, oggi il secolarismo ha i suoi turisti che si muovono nel mare magnum del cyberspazio, navigano in rete, percorrono una realtà aumentata.
E la nuova Bibbia, il testo sacro del secolarismo, è il digitale/digitabile. Tutto ciò che è digitabile, infatti, diventa digitale: si tratta di una dimensione iperenciclopedica, che contiene tutto, è un caos algoritmico che mescola informazioni veritiere a informazioni infondate. Il sapere perde prestigio a favore di un'infinita disponibilità informatica di dati. I Big Data amministrano coloro da cui hanno avuto origine, mescolano e rielaborano i dati che noi abbiamo spontaneamente fornito, un immenso materiale cui si applica il gioco combinatorio dell'algoritmo.
Cè, tuttavia, in questo processo, l'illusione della libertà: si chiama disintermediazione e consiste nell'impressione di agire in prima persona senza il fastidio di ricorrere a intermediari. Questo odio per la mediazione ci spinge ad agire da soli per prenotare una camera d'albergo e il biglietto per un viaggio o a vagheggiare una democrazia diretta, meglio se fondata sull'infatuazione informatica, che abbatte ogni passaggio, ogni mediazione, ogni attesa.
E la coscienza? Quale posto occupa la coscienza nel pensiero dei transumanisti, il cui approdo finale è la Singularity di Ray Kurzweil?
L'homo saecularis è transumanista perché affida alla tecnologia quell'ansia religiosa che però ha espulso dalla sua storia e perché tende verso il superamento dei confini della natura umana. La sua è la religione del Dataismo. Con un abile gioco di parole Calasso delinea la sostituzione del Dadaismo - dirompente movimento avanguardistico del Novecento che predicava la sconnessione universale e l'abrasione di ogni significato - con il Dataismo che vuole, invece, la connessione coatta di ogni individuo trasformato in soldatino agli ordini di un fantomatico Stato Maggiore non meglio identificato se non come Big Data.
Il senso è questo: registriamo e connettiamo la nostra esperienza al grande flusso di dati e gli algoritmi scopriranno il suo significato e ci diranno cosa fare.
E questo processo investirà anche la dimensione dei valori, dunque, della coscienza.
Si arriverà al punto in cui l'intelligenza artificiale sarà human compatible: attraverso un allineamento di valori la macchina/robot diventerà altruistica. Il robot diventerà superintelligente e capace di orientarsi tra i valori umani grazie a un sistema infallibile: LEGGENDO tutto ciò che la razza umana ha scritto e da cui sgorga il succo dei valori.
Questo è il punto di arrivo: Singularity, una teologia secolarizzata, che si risolve tutta dentro la società, procede attraverso i mezzi tecnologici, ha fede solo nell'umanità, attribuisce alle macchine anche il complesso dei valori umani, ma non sa che farsene di principi come grazia e libero arbitrio.
Gli scrittori hanno doti profetiche.
Come Baudelaire nel suo sogno visionario aveva previsto il crollo di un'immensa torre che poi la storia ha tragicamente conosciuto in forma persino raddoppiata, in quel famigerato 11 settembre 2001, così Calasso profetizza apocalitticamente, in un futuro non troppo lontano, la fine della società umana, l'unica in grado di autodistruggersi, paradossalmente in nome della religione del progresso e della felicità.
L'età contemporanea è lo scenario di una mutazione antropologica: il passaggio dall'homo sapiens all'homo saecularis, che ha sostituito la conoscenza con l'informazione e ha espulso dai suoi orizzonti esistenziali il senso del divino; ha sacralizzato la società stessa, diventata l'ultimo quadro di riferimento per ogni significato.
La società - nota Calasso - ha perso la capacità di guardare oltre se stessa e ha dato vita al culto di sé: il culto della società divinizzata.
L'autore si chiede, tuttavia, se davvero il soggetto secolare riesca ad appagarsi della cancellazione dell'invisibile e in che modo, dunque, possa placare quell'ansia di ricerca verso la realizzazione di un ordine del mondo, che è il fine ultimo di ogni istanza religiosa.
Secondo Calasso la soluzione è venuta dalla "religione dei dati", quelli non estorti da poteri politici totalitari, ma spontaneamente forniti dal basso ad opera di innumerevoli individui. E questa è, a ben guardare, una nuova maniera per esercitare il controllo sulle coscienze, più forte di ogni Chiesa, più capillare di qualsiasi forza politica, di qualunque forma di controllo sociale. Ogni dato è registrato, tutto è digitabile e, perciò, manipolabile.
Come ogni religione, anche il culto della società divinizzata ha i suoi fondamenti, i suoi precetti, le sue norme: per l'homo saecularis la normalità ha preso il posto della norma.
In effetti, ciò spiegherebbe, l'ansia di normalizzazione che oggi tende a diluire ogni forma di diversità, dai matrimoni gay, all'omologazione dei canoni di bellezza ottenuti tramite la chirurgia estrema, all'uniformità delle mode.
E se la religione è fatta di riti, così l'homo saecularis ha le sue procedure, che hanno sostituito i rituali, solo che vanno nella direzione opposta a questi ultimi. Il rituale apre la coscienza al mistero della fede, che, per esempio, nel Cristianesimo, culmina nella transustansazione. Invece la procedura abbatte ogni fede, tende al totale automatismo di atti meccanici di registrazione finalizzati a operazioni informatiche, bancarie, scolastiche che fanno capo sempre e comunque al Big Data.
Se si abbatte il senso religioso, però, che cosa resta dell'umano bisogno di spiritualità?
Calasso individua due fenomeni in atto: proliferano le sette e cresce la dedizione a un ente non trascendente, ma genericamente definito come "umanità", di cui l'homo saecularis auspica la perenne prosperità. Si tratta di un culto in grado di accogliere indistintamente tutte le religioni e sette di ogni genere, perché si è sbarazzato della fede nel senso tradizionale del termine, ciò come attenzione rivolta a un'entità trascendente. Oggi la sola fede ammessa dall'homo saecularis è quella nella scienza e nei suoi strumenti tecnologici: le altre religioni sono solo un fenomeno sociale come tanti altri e perciò tali da essere incorporate e inglobate nel più ampio culto della società divinizzata. E il rituale di questa religione secolarizzata è la ripetizione che ribadisce l'esistente: pubblicità che si insinua in modo martellante nel mondo psichico degli individui, autoesposizione spontanea e reiterata sui social media.
E se le antiche religioni si costruivano anche attorno a viaggi redentivi compiuti da devoti pellegrini, oggi il secolarismo ha i suoi turisti che si muovono nel mare magnum del cyberspazio, navigano in rete, percorrono una realtà aumentata.
E la nuova Bibbia, il testo sacro del secolarismo, è il digitale/digitabile. Tutto ciò che è digitabile, infatti, diventa digitale: si tratta di una dimensione iperenciclopedica, che contiene tutto, è un caos algoritmico che mescola informazioni veritiere a informazioni infondate. Il sapere perde prestigio a favore di un'infinita disponibilità informatica di dati. I Big Data amministrano coloro da cui hanno avuto origine, mescolano e rielaborano i dati che noi abbiamo spontaneamente fornito, un immenso materiale cui si applica il gioco combinatorio dell'algoritmo.
Cè, tuttavia, in questo processo, l'illusione della libertà: si chiama disintermediazione e consiste nell'impressione di agire in prima persona senza il fastidio di ricorrere a intermediari. Questo odio per la mediazione ci spinge ad agire da soli per prenotare una camera d'albergo e il biglietto per un viaggio o a vagheggiare una democrazia diretta, meglio se fondata sull'infatuazione informatica, che abbatte ogni passaggio, ogni mediazione, ogni attesa.
E la coscienza? Quale posto occupa la coscienza nel pensiero dei transumanisti, il cui approdo finale è la Singularity di Ray Kurzweil?
L'homo saecularis è transumanista perché affida alla tecnologia quell'ansia religiosa che però ha espulso dalla sua storia e perché tende verso il superamento dei confini della natura umana. La sua è la religione del Dataismo. Con un abile gioco di parole Calasso delinea la sostituzione del Dadaismo - dirompente movimento avanguardistico del Novecento che predicava la sconnessione universale e l'abrasione di ogni significato - con il Dataismo che vuole, invece, la connessione coatta di ogni individuo trasformato in soldatino agli ordini di un fantomatico Stato Maggiore non meglio identificato se non come Big Data.
Il senso è questo: registriamo e connettiamo la nostra esperienza al grande flusso di dati e gli algoritmi scopriranno il suo significato e ci diranno cosa fare.
E questo processo investirà anche la dimensione dei valori, dunque, della coscienza.
Si arriverà al punto in cui l'intelligenza artificiale sarà human compatible: attraverso un allineamento di valori la macchina/robot diventerà altruistica. Il robot diventerà superintelligente e capace di orientarsi tra i valori umani grazie a un sistema infallibile: LEGGENDO tutto ciò che la razza umana ha scritto e da cui sgorga il succo dei valori.
Questo è il punto di arrivo: Singularity, una teologia secolarizzata, che si risolve tutta dentro la società, procede attraverso i mezzi tecnologici, ha fede solo nell'umanità, attribuisce alle macchine anche il complesso dei valori umani, ma non sa che farsene di principi come grazia e libero arbitrio.
Gli scrittori hanno doti profetiche.
Come Baudelaire nel suo sogno visionario aveva previsto il crollo di un'immensa torre che poi la storia ha tragicamente conosciuto in forma persino raddoppiata, in quel famigerato 11 settembre 2001, così Calasso profetizza apocalitticamente, in un futuro non troppo lontano, la fine della società umana, l'unica in grado di autodistruggersi, paradossalmente in nome della religione del progresso e della felicità.
giovedì 21 settembre 2017
PAPAVERI ROSSI
A meno che non si tratti dell’Histoire de ma vie di Giacomo
Casanova, l’autobiografia è un genere che presenta ardue difficoltà per chi
voglia affrontarlo. Casanova riusciva ad attrarre il lettore con i particolari
pruriginosi di una mitografia di sé costruita nei termini esemplari di un
riuscito e coerente progetto di vita libertino, edonistico e consumato
all’insegna del desiderio. Ma un buon padre di famiglia a quali espedienti
narrativi deve ricorrere per incuriosire i suoi lettori?
La
principale strategia che Messina usa è l’affabulazione.
L’autore
prende le mosse da un paradigma letterario nobile, Pasolini, e, precisamente,
decide di riferirsi ad un suo testo dal titolo emblematico, appunto, Affabulazione. Non è qui importante il
contenuto, dell’opera pasoliniana certamente di ispirazione autobiografica (al
centro del suo dramma Pasolini pone il controverso rapporto con la figura del
padre), quanto, piuttosto il senso stesso dell’affabulazione in sé.
In excipit
della tragedia di Pasolini, in un dialogo tra il personaggio del Padre e
un’enigmatica presenza - che forse c’è o probabilmente è solo frutto
dell’immaginazione del personaggio – il Padre rivolgendosi al suo interlocutore
e riferendosi alla complicata storia con il figlio, dice: come tu hai ben capito, questa non è la storia di un solo padre.
Ebbene, Papaveri
rossi non è solo la storia di Giuseppe Messina.
Un’opera
d’arte si riconosce dalla forza universalizzante che emana.
Uno dei
rischi maggiori di un libro autobiografico consiste nel fatto che esso riguarda
l’esperienza personale del narratore/autore e non è detto che questa riesca a
suscitare l’interesse dei lettori, oggi, in particolare, sollecitati da una
serie di storie e fatti cui il web dà immediata e ampia diffusione.
Occorre,
dunque, riflettere sul significato dell’affabulazione: si tratta della capacità
di rendere universale ciò che si narra; “affabulare” significa fare in modo che
il lettore si senta chiamato in causa, e percepisca che quanto è scritto lo
riguarda: mutato nomine de te fabula narratur, diceva Orazio[1].
Ancora in Affabulazione, il personaggio
pasoliniano del Padre si chiede: che
cos’è un’epoca? Messina risponde chiaramente a questo interrogativo: un’epoca
è un tempo destinato a finire, un’epoca è una stagione che passa. E per questo
bisogna narrarla, immortalarla, perché
l’uomo non dimentichi, scrive
Giuseppe Messina. Questo è l’alto mandato della letteratura: uno scritto, un
romanzo, un libro è un monumentum, un’opera,
cioè, destinata a sfidare le stagioni, il tempo che passa.
Un monumento
MANET, resta per sempre.
Un monumento
MONET, ammonisce, ti mostra un cammino, ti dice che cosa stai perdendo e che
cosa dovresti conservare, per rimanere te stesso, anche se il mondo intorno a
te cambia freneticamente.
Un monumento
perpetua il ricordo del passato, lo rende meno lontano. Per i Greci, le Muse,
le dee dell’arte e della poesia, erano figlie di Mnemosyne, la Memoria
divinizzata, e nella radice del termine monumentum
c’è il verbo memini “io ricordo”.
E l’atto del
ricordare è un lento e accurato riesame della propria vita; non vuol dire
abbandonarsi a semplici rievocazioni nostalgiche, a vaghe memorie, ma implica
una selezione attenta di ciò che ha contato davvero ed è rimasto nel cuore,
come suggerisce l’etimologia della parola “ricordo”, (da “cor, cordis”, cuore).
A questo proposito, annota Messina: fra qualche anno toccherà ai nostri figli e
ai nostri nipoti rammentare gli anni migliori con i propri ricordi: dei nostri
resteranno quelli che avremo saputo trasmettergli. (p. 138)
In Papaveri rossi appare chiaro che la
capacità di affabulare acquista anche un carattere sociale e civile. Narrare,
si è detto, significa custodire la memoria individuale e collettiva: si tratta
di un messaggio profondo e incisivo, di un’impresa
davvero coraggiosa, in un’epoca, come la nostra, fatta, invece, di facili
rottamazioni del passato.
Sin dalla
dedica iniziale Messina istituisce un rapporto privilegiato con il lettore e,
immaginandolo, cerca le parole più precise per rendere concreto e plastico il
racconto di una vita che si snoda attraverso vicende, incontri ed emozioni
intense.
Scrivere è
come parlare: presuppone che qualcun altro legga o ascolti. È innegabile: chi
scrive non lo fa mai solo per se stesso, vuole, piuttosto lasciare un segno che
resti al di là del breve spazio che gli è concesso nell’esistenza. Possidio,
alla fine della sua biografia di S. Agostino riporta un interessante epigramma,
che spiega bene l’aspirazione di ogni scrittore a proiettarsi oltre i limiti
cronologici in cui si trova a vivere: Vuoi
sapere, viandante, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, ed ecco io parlo:
la tua voce è la mia.
Papaveri rossi
va, quindi, letto anche in questa prospettiva: si tratta di un libro che
vuole immortalare un’epoca, lasciare un messaggio e consentire al suo autore di
sfidare il tempo.
Messina
precisa, però, che affabulare vuol dire anche saper affascinare, procedere,
cioè, non per ricostruzioni memorialistiche o documentaristiche, ma escogitare
modi per sedurre il lettore, nel senso etimologico di se-ducere, portarlo cioè, verso un altrove che lo catturi e lo
allontani dalla una routine abitudinaria: non è questo il potere della
letteratura?
Quindi,
affabulare equivale a universalizzare la propria storia e a sedurre con la
parola.
Una seconda
strategia narrativa che rende Papaveri
rossi un’autobiografia interessante - nel senso, ancora una volta
etimologico del termine, che fa riferimento a un testo in cui il lettore abbia
l’impressione di inter- esse, di
starci in mezzo, al punto da sentirsi coinvolto nei fatti narrati e nelle
emozioni evocate – è il realismo come
forma di innamoramento.
Spesso,
ingenuamente, - spiega Walter Siti nel suo saggio Il realismo è l’impossibile[2]
- si crede che l’approccio realista in letteratura sia il “copia e incolla” di
un frammento di realtà: quanto più un libro è verosimile, tanto più è ritenuto
realista.
Invece il realismo
vero non è affatto mimesi del reale, non si limita a documentare; lo scrittore
realista non è certo un copista, deve essere capace di disvelare un mondo che
non è ovvio; deve essere in grado di sfidare
il mondo; deve saper estrarre da una scena di vita, da un dettaglio, dalle
cose, dai fatti che accadono, il volto di un’epoca, il senso della vita,
sottraendo quei dettagli dal flusso indistinto della consuetudine e rendendoli
esemplari.
Lo scrittore
realista deve amare a tal punto i particolari che cattura dalla realtà da
renderli il filtro prospettico di una visione del mondo. E quando si parla di
particolari si fa riferimento ai particolari belli e ai dettagli brutti: ogni
cosa – vicenda, evento, fatto, oggetto, incontro, paesaggio, luogo - va amata
profondamente per quello che è, esattamente come di un uomo o di una donna si
amano i tratti seducenti e le imperfezioni, perché ogni cosa concorre a rendere
unica la persona che ci appassiona.
E per questo,
con fedeltà al reale Messina descrive Foggia distrutta e ridotta in macerie
dopo la guerra, documenta la piaga del caporalato, ricorda le battaglie di
Giuseppe di Vittorio, il gigante del
sindacalismo italiano, ma con lo stesso amore per il vero sa cogliere la
luce autentica della vita nella processione dei terrazzani che tornano, sui loro
traìni, dalla raccolta dei fichi d’india. Si tratta di una descrizione
realistica e lirica al tempo stesso: sotto
ogni carro dondolava un lume a petrolio dalla luce fioca … quella cinquantina
di luci, come grosse lucciole, creava una suggestione unica nel dondolante
cammino verso “I tre archi” della Porta, su una strada appena rischiarata dai
pochi lampioni a gas. (p. 77). Non è casuale l’insistenza, da parte dell’autore,
sul verbo “dondolare” che fa riferimento plasticamente all’instabilità degli
antichi e rudimentali mezzi di locomozione, carri di legno a due ruote, ma –
metaforicamente – suggerisce anche la precarietà di un rito quasi sacro,
tuttavia destinato a perdersi, come tutte le cose belle, al tramontare di
un’epoca.
Messina,
inoltre, fa leva su un altro
fondamentale procedimento, la personificazione.
Qualunque
tema o argomento venga trattato, esso è incorporato, incarnato, personificato:
prende corpo, cioè, in personaggi emblematici che fissano in modo indelebile
nel lettore il senso della riflessione, senza che l’autore faccia ricorso a
parole di commento. Ogni aggiunta esplicativa rischierebbe, infatti, di
rovinare la densità e il vigore di creature che nascono dal contesto narrato e
nel contempo lo travalicano per stagliarsi come espressione di valori. Si pensi,
per esempio, alla famosa Madre di Cecilia
di manzoniana memoria, sintesi perfetta di straziante dolore, dignità nella
sopportazione, rassegnazione di fronte all’ineluttabilità degli eventi,
incrollabile fede in Dio.
In Papaveri rossi, l’uomo anziano e la signora vestita di nero(p. 96) sono
due anonimi personaggi che, però, nel racconto assurgono a emblemi di una
condizione esistenziale. Il piccolo Giuseppe si sta recando con sua madre verso
il campo di concentramento di Statte,
presso Taranto, dove il padre è prigioniero degli Inglesi. Il modo di starsene silenzioso in un angolo del camion, a ridosso della cabina di guida, con lo sguardo perso nel vuoto traduce
icasticamente la pena sofferta dal primo dei due personaggi prima citati: si
tratta di un padre che si reca a Taranto per far visita al solo sopravvissuto
dei suoi tre figli andati in guerra. Non c’è bisogno di profondere parole sullo
strazio della guerra: la realtà parla da sé. Dolore, disperazione,
annientamento si leggono sulla sua persona.
La donna, in
quello stesso camion, è, invece, un misto di dignità, rassegnazione e forza
d’animo: lei va a trovare a Statte l’unico
nipote rimastole, il solo scampato dell’intera famiglia. Al silenzio dell’uomo anziano fa da contraltare il
bisogno di parlare, di raccontare, da parte di questa signora che trova la
forza di compensare l’amarezza delle perdite con la pienezza dei tanti momenti
di vita vissuta con chi non c’è più e con la memoria dell’amore dato e ricevuto:
i ricordi erano la luce del viso, il viso
la luce stessa dei ricordi. La compresenza del dolore e della vivezza speciale che contraddistinguono
la donna, è chiara sin dalla presentazione iniziale, nel contrasto cromatico
tra il nero del lutto e il merletto bianco che decora il collo e i polsi.
Resta
comunque, fermo un dato: l’ineffabilità del dolore e, in generale, dei
sentimenti. Si chiede, infatti Messina: è
mai riuscito un solo scrittore, anche il più bravo e osannato … a rendere appieno quello che si è vissuto e
provato ogni volta … è mai riuscito a renderne tutto il dolore e l’angoscia più
intimi, pur disponendo della lingua più completa, più ricca?
A questo
punto l’autore si affida ai suoi intensi versi (p. 109):
Il mio dolore è il mio dolore,
la mia angoscia è la mia
angoscia,
la mia tristezza è la mia
tristezza.
Così come la mia felicità e la
mia gioia
sono la mia felicità e la mia
gioia
e nel loro, nel mio profondo,
nessuno potrà mai penetrare:
neppure io che le ho vissute,
perché non sarà più quel tempo.
Un’altra
coppia di personaggi emblematici sono il Gobbo e l’Angelo (p. 214 e ss.): nel
loro incontro c’è davvero il senso profondo della salvezza possibile pur
nell’inferno della vita.
Messina
sembra aver fatto proprio il messaggio di I. Calvino, un altro autore che
aleggia spesso, come inferenza letteraria nobile nell’intero libro: l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni,
che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo
riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di
non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento
continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è
inferno, e farlo durare, e dargli spazio[3].
Dare spazio a
ciò che non è inferno, riconoscere il
senso umano della vita: è questo il messaggio che trapela dall’incontro
casuale, ma intenso, tra due insoliti personaggi, diversi, ma complementari.
Giovanni, il
Gobbo, è arrabbiato con la vita e con
la levatrice che lo aveva estratto malamente del paradiso materno per
precipitarlo nell’inferno di una vita sgraziata e disgraziata; Maria
Teresa, l’Angelo, è una bambina triste per la sofferenza di dover vivere a
Bari, città bellissima, ma lontana dal padre, che lavora come responsabile
tecnico delle miniere della ditta Montecatini, ai piedi di San Giovanni
Rotondo. Nel loro incontro avviene un “miracolo”, nello scambio di poche
battute - pronunciate da Maria Teresa con la semplicità che solo i bambini
possiedono - è contenuta la chiave che
aveva cambiato una vita, prodigiosamente. Le parole incoraggianti di una
bambina fanno uscire il Gobbo dall’inferno del suo isolamento, forse più
pesante della malattia stessa, e la rinnovata apertura agli altri trasformano
Giovanni, il “poveretto”, in una specie di “mito”, un “portafortuna” per quanti
vogliano toccare la sua gobba, illudendosi di trovare la felicità e nel
contempo donandola a Giovanni, parlando un po’ con lui e liberandolo dalla sua
solitudine.
È, certo,
discutibile il fatto che la gente cerchi il Gobbo non per il sincero desiderio
di stare con lui, ma solo per il bisogno di trovare un rimedio – peraltro illusorio
- alle proprie sventure.
Tuttavia,
Messina ci fa riflettere sul risvolto positivo della vicenda: nell’incontro si
accorciano le distanze e ci si riscopre affratellati da un medesimo destino di
dolore. Chi cerca il Gobbo è, in fondo, infelice come lui e solo nella
reciprocità si può scorgere il volto umano dell’esistenza.
Intensamente
emblematico è, poi, il personaggio di Mamma Olga.
Dichiaratamente
ispirato al personaggio brechtiano di Madre Coraggio – come spiega nelle note l’autore
stesso – Olga è una figura che domina sull’intera narrazione, soprattutto per la
sua eredità intellettuale e morale.
Il profondo
affetto che lega il figlio alla madre non ha bisogno di descrizioni, emerge
invece, esplicitato a chiare lettere, l’insegnamento che per tutta la vita
accompagnerà Giuseppe Messina: aveva
inculcato, in tutti, il senso della libertà, libertà del cuore, delle idee,
della vita stessa, alla quale nessuno deve rinunciare, fino a combattere per la
sua difesa e per tutti coloro che ne vengono privati (p.27). E non si
tratta di parole dettate solo dalla contingenza storica – sono questi gli anni
del fascismo liberticida e della lotta resistenziale dei partigiani – ma sono
convincimenti profondi e radicati nella coscienza di una donna che è simbolo di
coraggio, forza interiore, conoscenza del dolore e capacità di reagire all’abbattimento.
Messina rappresenta
Olga in tre precise azioni: narrare storie, impastare il pane, cantare.
Nei giorni del
terremoto del 1948, la mamma, in quel luglio di preoccupazione e paura, aveva preso a
riunire nella grande tenda, al centro dell’accampamento per terremotati,
bambini e ragazzini per raccontare storie. Un po’ prima di Pasolini, ma in
linea con la tradizione già vecchia di millenni. La vocazione e il diploma di
maestra la spingevano, con assoluta naturalezza, a trasmettere il suo sapere ai
più piccoli. (p.26).
Dopo un periodo
trascorso come rifugiati per scampare ai rischi della guerra - prima a Miramare
di Rimini, poi nel convento delle suore Carmelitane a San Pancrazio di Russi e dopo
ancora, presso la cascina della generosa signora Romanina - finalmente nel 1945 Olga e i suoi figli ritornano a
Foggia, in casa del nonno Edoardo: il
rione in cui abitavamo, intorno a via Sapienza, era stato quasi interamente
risparmiato dai micidiali bombardamenti che avevano provocato circa
ventitremila morti, in una città che contava poco meno di quarantamila abitanti.
(p.66)
In questo
strazio fatto di macerie e povertà, per gente ormai disabituata ai piccoli
piaceri della vita, il meraviglioso e indimenticato profumo del pane bianco che
Olga prepara per i suoi familiari e inforna, si diffonde rapidamente.
Per una città
che ormai da anni mangia pane nero e duro, impastato con crusca e terra, quello
lavorato con la farina bianca che Olga aveva portato dalla Romagna, è una delizia
sopraffina. Tutto il quartiere si rianima,
svegliandosi da un lungo stato di prostrazione: Via Sapienza si popolò fino all’inverosimile e le due pagnottelle
non poterono bastare certo a soddisfare
tutti. La fata buona – come ormai Olga è definita – continua a impastare per
tante famiglie festanti e riconoscenti; la farina si esaurisce in pochissimi
giorni e altra ne viene chiesta alla signora Romanina. Il pane bianco riportò la
fiducia nella vita e fu come se avesse suonato un campanello, quello della
voglia di ricominciare e di recuperare tutte le cose buone che la guerra aveva
cancellato.
Gli ostacoli non erano pochi e le difficoltà ancora più numerose, ma non
apparivano più insormontabili: era sparita la rassegnazione. (p.78)
Mamma Olga ama il canto, l’opera lirica –
amore che le è stato trasmesso dal padre, amico di Umberto Giordano - ma canticchia anche successi molto popolari
come Solo me ne vo per la città e - a voce sussurrata – canzoni passionali come
Malafemmina.
Il suo, però,
non è solo un canto libero, è un modo per fingere tranquillità con i figli, una
strategia per dissimulare le
preoccupazioni e le ansie che la assillavano: allevare da sola i figli,
patire la lontananza del marito prigioniero e sforzarsi di non pensare al suo
dolore per non moltiplicare l’angoscia di un presente difficile, sono condizioni che mettono a dura prova una
donna.
Raccontare,
impastare, cantare: queste tre sfumature
riconducono a un tratto specifico di Mamma Olga e fanno di lei l’emblema di
ogni madre.
Olga è la vita
che si perpetua nella parola, è la forza che nutre, è il volto che sorride e
incoraggia anche se tutto intorno sembra crollare.
Lo stesso valore
emblematico si legge nella figura di Enrico, padre amorevole, forte e dignitoso
anche nell’umiliazione della prigionia: un
leone orgoglioso e ferito, che reclamava la sua libertà. (p. 108)
Una delle
più nobili strategie narrative riconoscibili in Papaveri rossi, è, infine,
la leggerezza. A dire il vero, si
tratta di un valore che va ben oltre l’impeccabilità dell’arte di raccontare
storie. L’autore la definisce il segreto
stesso della vita.
Personalizzando
in modo originale il titolo di un famoso romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere,
Messina parla dell’incredibile leggerezza
dell’essere. Si tratta di una sapiente inversione di senso rispetto al
nichilismo di Kundera: quest’ultimo, richiamandosi alla definitiva caduta di
ogni orizzonte di senso - tipica della cultura postmoderna - definisce “insostenibile” il peso del non
senso dell’esistenza, schiacciata dall’assurdo che lascia l’uomo come un
relitto nel mondo, spaesato, senza radici e senza mete. Messina, invece, pare
più vicino alla posizione di Italo Calvino che polemizzò proprio contro il nichilismo
di Kundera, parafrasando il titolo del suo romanzo con le seguenti parole: “Ineluttabile
pesantezza del vivere”.
Scrive
Calvino nelle sue Lezioni americane: nei
momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso
che dovrei volare. Non sto parlando di fughe verso il sogno o nell’irrazionale.
Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con
un’altra ottica, un’altra logica[4].
Messina
adotta proprio questo punto di vista: la leggerezza come reazione al peso di
vivere, il volo, come sfida agli ingabbianti ancoraggi e come elevazione verso
un altrove fatto di desiderio, di ricerca: la
poiana vola maestosa e alta (…) a intervalli regolari (…) vola solitaria nel
dominio del cielo (…). “Mi raccomando! Tieni i piedi ben saldi per terra!”.
Quanto avrei preferito sentirmi dire: “Vola libero!” e quanto avrei voluto
farlo, accompagnato dal battito delle ali, dal loro fruscio nel vento. (p.210)
La
leggerezza è, dunque, la forza del sogno che resiste nonostante le dure prove
che la realtà ci riserva.
E il filtro
della leggerezza si trasfonde nell’idea stessa di letteratura, la sola dimensione
possibile dove il senso si svela e dove le storture dell’esistenza acquistano
significato e si collocano nelle giuste prospettive, costruendo un quadro in
cui tutto ha un suo preciso valore.
Leggerezza significa capacità di vedere oltre il dolore, di affiancare,
cioè, alla consapevolezza del male di vivere - per usare la nota
espressione montaliana - l’insopprimibile spinta propulsiva dello
slancio vitale: la vita tiene sempre intrecciati i suoi due volti inscindibili,
ἔρως e θάνατος, anzi è proprio la certezza della morte che fa
amare la vita e quanto più si è vicini a percepire la fine, tanto più si
avverte l’attaccamento alla vita.
Messina dà chiara dimostrazione di questo assunto nel titolo stesso del suo romanzo. Durante il viaggio verso Taranto per rivedere il padre prigioniero, il piccolo Giuseppe è attratto dalla sconfinata distesa di papaveri rossi nei campi (p.94).
Il papavero è un fiore rosso come
il sangue dei soldati uccisi dalla guerra, ma, nello stesso tempo, vellutato,
come il raso che la mamma ricamava, e morbido, come il suo abbraccio affettuoso.
Non è qui importante l’elaborato accostamento
di sensazioni tattili e particolari cromatici che creano un groviglio di
sensazioni abbinate a ricordi e sentimenti. Il dato più significativo sta nel
carattere complementare tra il dramma della morte e il richiamo della vita, tra
ἔρως e θάνατος, tra pesantezza e leggerezza.
La leggerezza diventa, dunque, l’attitudine a
cogliere il lato bello dell’esistenza anche quando sembra prevalere il peso
della vita. Il rischio di ogni giorno vissuto è, infatti, che – come un vento
che gira
e rigira e sopra i suoi giri poi ritorna,
come è scritto nell’Ecclesiaste – il destino travolga la spensieratezza della
gioventù e la soffochi tra responsabilità, impegni, fallimenti e disillusioni.
E, invece, bisogna “catturare” la leggerezza e fare di le un modus vivendi.
Scrive Messina: basta ascoltarla,
viverla.
È la leggerezza che consente a all’autore di
cogliere durante il funerale del professor Santollino, l’allegra gaiezza di un
corteo matrimoniale o di alleviare la pena del viaggio triste verso il campo di
concentramento di Taranto con una sosta al mare, a Margherita di Savoia. Tutti
i passeggeri del camion diretto verso la prigione sono improvvisamente catturati
dalla distesa azzurra dell’acqua: la
spiaggia si popolò di voglia di leggerezza e di spensieratezza, di desiderio di
linfa vitale indispensabile per la sopravvivenza di ciascuno.
Ecco, la leggerezza è la forza che aiuta a
sopravvivere.
L’uomo l’ha persa, per la sua stupida indifferenza. Chiuso nel suo
microcosmo, ha disimparato a riconoscerla.
In Papaveri rossi un posto privilegiato è occupato dall’amore, che aggiunge una nota passionale alle pagine di Messina. Nel libro sono rappresentate tutte le sfumature di questo sentimento.
C’è l’infatuazione infantile di Giuseppe per
Laura, sullo sfondo dell’imponente Castello Normanno di Ariano Irpino, dove la
fantasia fa rivivere le storie degli amori più antichi e impossibili, quelli di
Lancillotto e Ginevra, di Orlando e Angelica.
È un amore fatto di guance arrossate solo per uno sguardo o per un contatto lieve … con il
cuore che scoppiava.
Diverso è l’amore per Franca, a San Menaio, fatto
di appostamenti e goffi tentativi volti a eludere la sorveglianza dei genitori
di lei.
E, poi, ci sono i racconti di Vituccio che
sulla spiaggia vende frutta fresca per combattere il caldo estivo. Si tratta di
storie d’amore intenso e sofferto, come quello tra Eleonora e Totorre, che
vivono un sentimento forte, pronto a sfidare le prepotenti pretese del
signorotto garganico Duduccio, intenzionato a esercitare sulla ragazza lo ius primae noctis. E nel ricordare
questa terribile usanza Messina porta subito il lettore a riflettere sulle
innumerevoli umiliazioni subite dalle donne nella storia.
Uno spazio particolare è, inoltre, riservato
a Sofia, ragazza bella e seducente, dalle morbide forme. È lei la donna che
porta via con sé verità e segreti mia pienamente svelati.
E, infine, un valore particolare assume in questo romanzo la tenerezza.
In una conferenza tenuta nel 1988,
Raymond Carver[5], grande narratore
dell’Oregon, ricorda una frase di Santa Teresa, tratta dal cap. XXXV della sua
autobiografia spirituale: le parole
conducono ai fatti (…) preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla
tenerezza.
Si tratta di una frase interessante perché
presenta due parole inusuali per il nostro tempo, dominato dal materialismo e
dalla veemenza: “anima” e “tenerezza”.
Nel capitolo dedicato a alla morte del padre,
Messina non nomina mai la parola tenerezza in modo esplicito, ma ce ne fa
sentire la presenza nei particolari e risveglia una voce nell’anima. In
un’epoca che ha visto fallire modelli autoritari e padri/Narcisi[6], Messina ci fa scoprire il
vero senso della paternità in un’espressione: la mano nella mano.
Un padre, infatti, non è un supereroe che ha
sempre le soluzioni pronte, è un uomo che ti accompagna nel viaggio della vita,
con tenerezza, fra gioie e dolori, cadute e risalite.
Messina lascia un tocco leggero su questo
messaggio: ce lo fa percepire, ma non lo spiega. Pochi tratti sono sufficienti:
si sa, la leggerezza è anche un modo di narrare.
Uno scrittore non ha bisogno di troppe pagine
per dire quello che ha da dire. Trasforma le parole in azioni, con un
linguaggio chiaro e preciso. Le parole infondono vita alle storie raccontate,
se usate bene toccano l’anima.
Una fondamentale
accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura[7].
E Papaveri rossi lo realizza
pienamente.
Teresa D'Errico
[1] - Orazio, Satire, I, 1, 69-70
[2] - W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013
[3] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi,1972
[4] - I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988
[5] - R. Carver, Il
mestiere di scrivere, Einaudi, 2915.
[6] - Questo tema è ben sviluppato
in Massimo Recalcati, Il complesso di
Telemaco, Feltrinelli, 2013.
[7]
- Ezra Pound, ABC of reading,
1934, ristampato da Garzanti, 2012.
sabato 15 luglio 2017
BRUCIARE TUTTO
WALTER SITI, BRUCIARE TUTTO: QUALCHE
RIFLESSIONE
Al di là
delle polemiche di cui è stato oggetto, Bruciare
tutto pone quesiti ineludibili nella vita di ognuno: che cos’è il Bene? che
cos’è il Male?
Coppie che
si sgretolano, disperse tra violenza e tradimenti; sacerdoti che vivono more uxorio, incuranti del fatto che chi
sceglie il sacerdozio accetta anche il voto di castità; una diffusa povertà che
la sola generosità caritatevole di una Chiesa sociale non può risolvere; un
passato che riaffiora tormentando l’anima e inchiodandola a un incancellabile
peccato: questa è la realtà con cui deve fare i conti don Leo. Sospeso tra le
storture del mondo, le contraddizioni della Milano “da bere” e quelle della sua
anima, il giovane parroco sente fino in fondo il dramma della prossimità fra il
Bene e il Male. Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, che Siti – per
sottolinearne la grandezza - definisce «faro di fermezza
nell’incubo della Germania nazista», scriveva: «chiunque agisce
responsabilmente diventa colpevole». Questa frase condensa il senso dell’intero
romanzo di Siti e del conflitto interiore di don Leo. Aggiunge, ancora, Siti: «chi assume la responsabilità si prende sulle
spalle le conseguenze della propria azione sugli altri». Insomma, fare il Bene non ti immunizza dal rischio di causare il
Male e, spesso, scegliere il male minore non esclude il pericolo di tragiche
conseguenze: «Dio ci scampi dal Satana
che si presenta sotto forma di buonsenso, o di “male minore”, o di “carità
ragionevole” … se la carità è amore, gli innamorati sanno che l’amore non è mai
ragionevole … la carità ragionevole è una contraddizione in termini, non è più
carità!».
L’uomo si trova in un vicolo cieco.
Il presente è un’avventura difficile,
soprattutto per un giovane sacerdote:
«“Non ci indurre in tentazione”: molti il Padre Nostro lo recitano
ancora così perché così l’hanno imparato da piccoli – “non abbandonarci alla
tentazione” è invece costretto a dire Leo secondo la nuova traduzione della
Cei, che invoca una fantomatica aderenza all’originale greco; ma “eisférein”
vuol dire “portare verso”, quindi proprio “inducere” come letteralmente ha
tradotto Gerolamo. Io lo so, Signore, ah se lo so che sei abbastanza malizioso
per metterci alla prova».
Il passato è un tormento, i ricordi di
azioni inconfessabili sono una persecuzione:
«Leo
picchia sui muri, si ferisce la nocche – la memoria è una bestia sleale: finge
di essere parte di noi, addirittura una nostra facoltà, e invece è un verme
solitario che decide da solo quando riaffacciarsi alla bocca dello stomaco.
Memoria involontaria, la chiamano, ma è al servizio di una volontà nemica; ti
colpisce quando sei meno preparato a difenderti, nei momenti di svago o di
genuina passione».
E la fatica compiuta per rimuovere gli
scomodi e inquietanti incubi che riemergono, si vanifica: «il lavoro di anni si sgretola in un lampo», Soprattutto quando il
passato si materializza e si fa vivo: allora diventa più forte la sofferenza ed
è inevitabile la costrizione a ricordare. L’inaspettato incontro con Massimo
richiama alla mente le vicende del 2003, l’anno in cui «le difese morali di Leo si erano già molto abbassate», un anno che
Leo incautamente ha ritenuto ormai
lontano.
Il desiderio, la tentazione, il
peccato - che in passato hanno attratto
lui, giovane seminarista, verso il giovanissimo Massimo - diventano ora un’ossessione
che convive con il rimorso, il senso di colpa, il richiamo di Dio: «se devo vivere contaminato da questa follia,
se sono bacato tarato guasto, profondamente e letteralmente irrecuperabile,
perché Dio mi cerca ancora?».
Non resta che la speranza in giorni
migliori. Quando gli viene affidato Andrea, un ragazzino «più intelligente della media», ma triste, difficile, figlio di
genitori immaturi e irresponsabili, Leo sente che può riscattarsi. E, invece,
si danna.
Certo, Leo fa la cosa giusta, rifiuta
le richieste di attenzione del piccolo Andrea, cerca di non alimentare la
confusione della sua infanzia fatta di solitudine e incertezza. Tuttavia, per
un perverso gioco della sorte, Leo sbaglia. Non pecca, lui, eppure non evita la
tragedia ad Andrea: «non ho avuto il
coraggio di donare la mia vita eterna per impedirti di morire. Ho considerato
la salvezza della mia miserabile anima più importante del tuo ancora aperto
futuro. Perdonami, dovevo accettare di fare l’amore con te, qualunque prezzo mi
fosse costato; l’ossessione avvicina a Dio mentre la morale ce ne allontana».
Su Bruciare
tutto aleggia lo spettro della pedofilia, l’ardimento della dedica a don
Milani ne ha acuito lo scandalo. Ma non sta in questo il senso del romanzo di Walter
Siti.
La vicenda del sacerdote Leo è, forse,
un caso estremo, che espone il lettore a una vicenda dagli effetti radicali. Non
è in questione - ma se ne è discusso –
se la letteratura possa o debba occuparsi di scandali e dare spazio
all’indicibile. Le posizioni sono svariate e inconciliabili, ognuna con le sue
ragioni.
Resta, invece, importantissimo il
dubbio con cui ci lascia Siti, attraverso le parole di don Leo: «la missione del cristiano non è fare il
bene, ma fare la volontà di Dio, e non è sempre detto che le due cose
coincidano: era bene per Abramo sgozzare il proprio figliolo? Ma poi, ci siamo
mai chiesti con che criteri valutiamo cos’è il bene? Ho paura che ormai, e
anch’io mi metto nel mucchio, definiamo “bene” quel che ci fa vivere tranquilli,
e “male” quel che ci disturba».
È questo il nucleo di Bruciare tutto: l’inestricabile
groviglio tra Bene e Male in cui l’uomo si dibatte.
«Come
può essere bella Milano, quando il sole la premia e fa brillare i grattacieli
come stoviglie nuove (…). Ma in due punti dolenti, allo zenith, affiora un
sospetto d’impurità che presto si materializza in biancore filamentoso (…). Due
cirri nuovi nuovi emergono tra le torri dalle profondità del nulla (…).
Sembrava tutto sereno e invece il celeste covava in sé questo magone: così il
Male nasce dal Bene».
Il senso generale del romanzo sembra
tendere verso un nichilismo terrificante: «il
“nihil”, il nulla, il tunnel di assurdo su assurdo» pare prevalere su ogni
richiesta di senso, su ogni ricerca di Dio, su ogni traccia di fede. Frasi come
«Tu che hai vinto la morte, dammi un
segno» marcano la disperazione di Leo e lo rivelano in tutta la sua
fragilità, mentre si rivolge a un Dio che appare distratto, incurante.
Eppure colpisce la frase conclusiva
che Siti sceglie per congedarsi dai lettori: l’orizzonte è salvezza, ancora per un po’.
Forse bisogna smettere di pensare e
sforzarsi di mettere il mondo tra parentesi: «non sono forse le parentesi a fare andare avanti il mondo?»
martedì 18 aprile 2017
IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO/ PERLE AI PORCI
Che cosa può
mai unire Il sogno di un uomo ridicolo (1877)
di Dostoevskij e Perle ai porci (1965)
di Vonnegut?
A un primo
sguardo nulla. Si tratta di due opere nate in
momenti storici diversi, scritte da autori che davvero non hanno niente
in comune. Accostare questi due scritti sembrerebbe una forzatura.
Diverso è lo
stile: accorato e visionario il racconto di Dostoevskij, ironico e paradossale
il breve romanzo di Vonnegut.
Diversi sono
i protagonisti: il personaggio dostoevskijano si autodefinisce un uomo semplicemente
ridicolo e il lettore non conosce nessun
aspetto della sua vita; invece di Eliot Rosewater si sa che è l’erede di un
enorme patrimonio e che tutti, a cominciare dal padre, lo ritengono incapace di
intendere e di volere. Egli, pertanto, viene giudicato inabile ad amministrare l’incommensurabile
ricchezza di cui è titolare.
Certamente
diverse sono le ambientazioni delle due vicende: un novembre cupo e piovoso fa
da sfondo alle strade probabilmente pietroburghesi, forse le stesse del sognatore
delle Notti bianche, e gli spazi
intergalattici lontani dalla Terra e vicini alla stella Sirio, costituiscono lo
scenario in cui l’uomo ridicolo ha la
visione di un Eden che è l’esatta inversione delle dinamiche esistenziali
terrene.
Perle ai porci, invece, si
svolge in una piccola città dell’Indiana, da cui ha avuto origine la fortuna
dei Rosewater.
La città dei Rosewater, che da loro prende il nome, è il centro
dell’azione di Eliot, stravagante presidente della Fondazione Rosewater, un
uomo completamente in antitesi con l’individualismo americano, incarnato dal
padre, il senatore Rosewater, fedele cultore del “Sistema della Libera Impresa”,
quello in cui i veri nuotatori restano
a galla, mentre quelli che vanno a fondo
si sistemano da sé. Amen!
Eppure,
nonostante questa evidente lontananza, i due scritti hanno molto in comune.
Cominciamo
dai protagonisti: sono pazzi.
Nell’incipit
del racconto dostoevskijano l’uomo
ridicolo si presenta: Sono un uomo
ridicolo. E ora mi danno anche del pazzo.
Su Eliot
Rosewater non ci sono affatto dubbi: la scena finale si svolge in una clinica
psichiatrica.
Perché, a
distanza di circa un secolo, Dostoeevskij e Vonnegut danno voce a personaggi
pazzi? La risposta è semplice: come già Erasmo da Rotterdam chiariva a suo
tempo, la follia è solo il modo di vedere le cose da una diversa prospettiva. I
personaggi delle due opere in esame sono “diversi”: il loro modo di vedere il
mondo e la realtà “diverge” dal senso comune.
L’uomo ridicolo, per quanto creda di
essere completamente anestetizzato ai sentimenti, sebbene sia convinto che
ormai nulla al mondo abbia importanza, al punto che niente sembra poterlo
trattenere dal proposito del suicidio, improvvisamente è richiamato alla vita
dal pianto disperato di una bambina. Lui prima la allontana da sé, poi, tornato
a casa, ripensando a quella bambina prova un inusuale senso di pietà che lo
distoglie dal suo progetto autodistruttivo.
L’uomo ridicolo capisce, allora, che qualcosa nella sua coscienza si
muove e forse resta un sottile filo che lo lega al mondo e probabilmente proprio
in quel mondo c’è ancora un posto per lui. Improvvisamente fa un sogno: si
immagina morto, trasportato da un ignoto compagno di viaggio lontano dalla Terra.
Insieme giungono in un regno felice, incontaminato, fondato sull’amore fino all’arrivo
dell’uomo ridicolo che contagia quell’Eden:
a causa sua si diffondono la menzogna, la prepotenza, le discordie e le contese.
Schiacciato dal senso di colpa egli vorrebbe uccidersi, ma nessuno lo capisce,
tutti lo scambiano per un folle: in fondo quella gente ha ricevuto da lui solo ciò
che desiderava, quella dose di egoismo che è diventato il presupposto, il
motore dell’esistenza.
Al risveglio
l’uomo ridicolo ha una certezza: ha conosciuto la Verità e vuole realizzarla, ha capito che tutto dipende da noi, dai nostri comportamenti. Sceglie
di vivere, si rifiuta di credere che il
male per gli uomini sia la normalità e decide, perciò, di far rinascere l’Eden
che ha sperimentato, vuole restituire senso e vigore a una verità scomoda e
sottovalutata: ama il prossimo tuo come
te stesso. E diventa felice. Questo gli ha insegnato la bambina disperata: in noi c'è la compassione e, quindi, è possibile un’umanità
diversa e la chiave di volta consiste nella capacità di amare e di distinguersi
dai più in virtù della propria apertura all’amore.
Con una
maggiore concretezza e prendendo le distanze dal sogno visionario dell’uomo ridicolo, Vonnegut racconta una
storia simile.
Eliot si
presenta definendosi molto vicino all’Amleto di Shakespeare, anzi si sente peggio di Amleto: è
confuso più di lui. Amleto aveva almeno lo spettro del padre a suggerirgli cosa
fare. Eliot sa di avere una missione importante da compiere, ma non ha un libretto
di istruzioni da consultare! C’è una cosa che, però, lo disgusta con certezza:
il fatto che il governo avrebbe dovuto
dividere equamente le ricchezze del paese, invece di permettere che certa gente
avesse più del necessario, mentre altri non avevano niente. È esattamente
la stessa cosa che denunciava l’uomo ridicolo: nell’Eden contagiato dalla sua
misera umanità, ciò che fa degenerare l’armonia
in caos è la lotta per la divisione, per
il mio e il tuo, la divinizzazione del proprio infinito desiderio.
E come l’uomo ridicolo prende una decisione
coraggiosa – decide di continuare a vivere per farsi testimone della legge dell’amore
e dare in questa maniera il proprio contributo al mondo– così Eliot Rosewater
attua un progetto eroico, dona tutti i sui averi ai bisognosi: voglio amare questi americani di scarto,
anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte. E non dona
solo soldi, Eliot offre qualcosa di ancora più prezioso dei soldi: il suo tempo,
la sua capacità di ascolto, la sua umanità. E quando il cinico avvocato Norman Mushari cerca di farlo interdire per trasferire
il controllo della Fondazione Rosewater ad un altro ramo della famiglia, con la
speranza di trarre profitti dall’affare, prontamente Eliot reagisce con una
trovata geniale e infinitamente generosa, scegliendo, invece, per sé, la via
dell’essenzialità: Aveva una camicia
sola. Aveva un vestito solo. Aveva un solo paio di scarpe.
Eliot è malato di utopia? Ama il prossimo tuo è una vecchia verità che non ha messo radici,
come nota l’uomo ridicolo?
Forse. Certo è, però, che i protagonisti
de due scritti appaiono pazzi, ma sono felici: in una società travolta dagli
odi e dagli egoismi, loro scoprono la gioia, la gioia del donare se stessi, il
proprio amore, i propri averi e questo li avvicina, nonostante gli anni di
distanza.
Sì, niente uguaglia la gioia di donare
a coloro che sono più poveri,
e gaiamente, con liete mani
spargere ovunque i bei doni.
Sì, nessuna rosa è più bella
del volto dei beneficati,
quando ricolme, o gioia immensa,
si abbassano le loro mani.
Sì, nulla rende così sereno
dell’aiuto per tutti gli altri!
Se non rinuncio a quello che possiedo
nessuna gioia potrà darmi.
(Bertolt Brecht, Sulla gioia del dare, “Poesia e canzoni dalle opere teatrali”, in “Poesie”,
Einaudi, 2014
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