Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

giovedì 5 gennaio 2023

G. ZAGREBELSKY, "LA LEZIONE"

 Nel suo agile saggio, La lezione  (Einaudi – Gli Struzzi, 2022), G. Zagrebelsky ha fornito un’analisi del mondo scolastico senza cedere alla lamentela per tutto quello non va, per le palesi disfunzioni e la caotica disorganizzazione che penalizza gli studenti, ma senza neppure proporre modelli didattici ideali o, peggio, retrotopici e anacronistici. 

Zagrebelsky parte da ciò che è necessario: occorre restituire alla scuola non tanto una teorica centralità – da molti politici sbandierata propagandisticamente e di fatto non realizzata – ma soprattutto la sua originaria dignità culturale.

Due sono le parole-chiave attorno alle quali si concentra l’analisi dell’autore: parola e piacere.

Contro le didattiche semplificanti che marginalizzano il docente riducendone la funzione a quella di mero “facilitatore” e contro le illusorie promesse di metodi ludocentrici e tecnocentrati, l’autore coraggiosamente rilancia la centralità di uno strumento immortale per la sua indiscutibile efficacia: la parola, un mezzo che da Socrate in poi non ha mai deluso.

- La lezione è parola.

 "Senza le parole, la lezione è vuota". Quello di Zagrebelsky non è un retorico elogio della parola, è un’analisi necessaria a ricostruire il legame tra la scuola e la forza generativa della parola.

Che il nesso parola-ascolto abbia nella vita scolastica un ruolo determinante è dimostrato da Zagrebelsky anche attraverso la ricostruzione etimologica del termine che indica il luogo privilegiato in cui la lezione avviene: l’aula. La parola “aula”, sottolinea l’autore, deriva dal greco aulós, flauto, e allude alle onde sonore della musica che si diffondono in uno spazio deputato all’ascolto. Ebbene, la parola avvolge le coscienze, è come l’aria: cultura e scuola non possono farne a meno.

Immagini, input digitali di varia natura possono integrare, accompagnare l’azione d’insegnamento, ma il nesso parola-ascolto non può essere sostituito da nessuna innovazione tecnologica spacciata per avanguardia didattica. Gli uomini e le donne del futuro hanno bisogno di acquisire la consapevolezza necessaria per muoversi nel mondo e "se non si hanno le parole, le cose, di qualunque genere siano, fisiche o metafisiche, materiali o immateriali, non si possono afferrare e trattenere, cioè non si possono acquisire". Sono infatti le parole che permettono di "pensare il mondo".

Viviamo in un’epoca di forte mistificazione o, addirittura, come ricorda G. Carofiglio, di evidente, orwelliana, "manipolazione delle parole". Perciò la scuola e la lezione hanno un dovere preciso: liberare la parola dal "veleno dell’equivoco". Solo "attraverso la vita e la storia della parola possiamo portare alla luce le esperienze dell’umanità". Zagrebelsky fa riferimento al macabro esperimento messo in atto da Federico II: sottratti alcuni bambini all’affetto delle loro madri, l’imperatore li fece allevare senza la tenerezza delle parole che accudiscono e fanno crescere, limitandosi a farli nutrire da balie. I bambini morirono tutti, perché – è questo che Zagrebelsky vuol dimostrare – la parola è vitale: una vita senza parole è solo mera esistenza (zoé), non esperienza di relazione (bíos). La democrazia, che è relazione continua, infatti, si nutre di parole. I Greci chiamavano agorá lo spazio pubblico atto al confronto e al dialogo politico. L’agorá era il luogo dell’agoréuein, del dire, del parlare per trovare la chiave utile al benessere della vita collettiva. Infatti è solo parlando che ci definiamo. Oggi più che mai, in un momento storico in cui tutti si appropriano, per esempio, di parole come libertà e democrazia, facendosene paladini proprio mentre le negano o ne alterano il senso, bisogna recuperare il rapporto tra le parole e le cose, per evitare il rischio di tenere soltanto nomina nuda.

- La lezione è piacere

Zagrebelsky, poi, mette l’accento su un altro aspetto che dovrebbe connotare la lezione e che è strettamente legato all’uso efficace e sapiente della parola: il piacere. L’autore parte dalla critica esplicita contro i due punti estremi della deriva didattica: da un lato, la pratica riduttiva e semplificante dei test standardizzati, che sembrano pensati per “umiliare l’etica dell’apprendimento”; dall’altro il narcisismo della seduzione intellettuale di docenti che suggestionano con il loro carisma manipolatorio e non grazie al fascino delle materie che insegnano. Zagrebelsky cita, a questo proposito, tra i cattivi maestri, il prof. Keating, il noto trascinatore di studenti nel film L’attimo fuggente, in cui affronta una rivoluzione che finisce per sfuggirgli di mano e che si conclude, per uno dei suoi allievi, in modo disastroso.

Ma, allora, che cos’è una lezione? Zagrebelsky lo spiega attraverso la metafora di P. Florenskij, filosofo e matematico fucilato nel 1937 all’epoca delle purghe staliniane. "La lezione è una passeggiata a piedi, una gita, sia pure con un punto finale, una meta… Per chi passeggia è importante camminare, non solo arrivare". Florenskij pone l’accento sul piacere di imparare osservando, guardandosi intorno, parlando, scambiandosi sguardi, idee e opinioni, inoltrandosi in sentieri secondari. È questo il piacere della lezione: il piacere digressivo, il piacere della domanda, la scoperta della complessità delle cose che sfuggono alle gabbie dei programmi prestabiliti, dei tempi programmati, delle scansioni pianificate. La lezione è libertà.

Educare o istruire sono false alternative. La lezione è il piacere di camminare insieme.

- Perché riflettere sul senso della lezione

Con La lezione, Zagrebelsky offre lo spunto per una riflessione sul mondo della scuola in un preciso momento storico come il nostro, che la vede travolta da riforme, circolari ministeriali che confondono invece di chiarire, ordinanze gattopardesche che cambiano tutto per non cambiare niente. Accusata – in molti casi a buon diritto – di perpetuare le disuguaglianze invece di eliminarle e distorta nelle sue finalità – soprattutto se le si attribuisce il compito di premiare il merito senza però far nulla per garantire a tutti gli studenti pari opportunità e omogenee condizioni di partenza rispetto alle quali osservare se ci sia o meno un merito da premiare – annegata tra miriadi di progetti e naufragata nel mare della burocrazia, la scuola oggi non è più un centro culturale.

Separazioni sempre più dicotomiche tra saperi scientifici e discipline umanistiche, reiterati tentativi di svilimento e continui attacchi ideologici diretti contro i saperi definiti “inutili” – perché considerati non immediatamente spendibili sul mercato del lavoro – celebrazioni neoavanguardisitiche del “nuovo” e di tutto ciò che abbia a che fare con la dimensione tecno-pratica, hanno appiattito la scuola a ente certificatore di mai ben definite “competenze” illusoriamente misurabili attraverso prove ritenute oggettive, sul modello INVALSI.

È vero, il mondo è cambiato e la società si trasforma rapidamente, tuttavia non sempre in meglio. Forse solo la scuola può costituire il baluardo estremo di quella cultura che ci mette di fronte ai nostri limiti e ci ricorda che in fondo "siamo nani sulle spalle di giganti".

La lezione insegna ai nostri giovani proprio questo: a raccogliere (“lezione”, ricorda Zagrebelsky, deriva dal greco lego, che oltre a “parlare” vuol dire appunto “raccogliere”), a selezionare e a scegliere dal passato ciò che può servire a interpretare il presente.

                           Teresa D'Errico 



L. MENEGHELLO, "FIORI ITALIANI": CONTRO LA DISEDUCAZIONE DI STATO

 L. Meneghello apre i suoi Fiori italiani con una domanda: “Che cos’è l’educazione?”. E nella nota introduttiva al libro dichiara: “avevo il senso di sapere soltanto il negativo della risposta, che cos’è una diseducazione”. Lo sguardo retrospettivo sul mondo scolastico dell’Italia fascista gli aveva saputo chiarire una sola cosa: quello che la scuola non è e, di conseguenza, quello che la società può diventare a causa di una capillare diseducazione.


Chi legge Fiori  italiani non può non rivolgere l’attenzione ai giorni nostri, al lavoro meticoloso e programmato volto a diseducare le nuove generazioni, a impedire loro il libero pensiero, a ingabbiare la prospettiva critica, a trasformare la scuola da luogo di appassionato sapere a centro di addestramento passivo. “Addestramento mentale”, così lo chiama Meneghello. E precisa: “non erano dottrine compiute” quelle che venivano insegnate, bensì “una serie di persuasioni” che i giovani assorbivano anche solo “respirando”. Non è questo ciò che accade anche oggi?

Il bombardamento dei pedagogismi ludocentrici, fondati sulla gamification, sul trasferimento in digitale di ogni aspetto della didattica (esercizi, valutazione, verifiche, comunicazioni), le grandi abbuffate di neoavanguardismi tecnologici non sono forse l’humus entro il quale vengono quotidianamente addestrati reggimenti nazionali di giovani esecutori acritici cui si chiede solo di apporre una X nelle caselle giuste? Non è forse questo il volto della scuola postfascista? Antidemocratici test standardizzati oggi impongono quesiti uguali ad alunni di aree geo-socio-economico-culturali tenute dallo Stato in condizioni molto diseguali: l’apoteosi di una politica che coltiva le disuguaglianze, i divari, i gap, invece di abbatterli, come invece dovrebbe impegnarsi a fare secondo il dettato costituzionale; una condizione che con l’autonomia differenziata – o, come G. Viesti l’ha definita, la secessione dei ricchi – è destinata a peggiorare.

E sorprende che, durante gli anni difficili della pandemia, quando la didattica digitale ha salvato la scuola, ebbene, allora, proprio allora, il supporto tecnologico della DAD sia stato ideologicamente demonizzato da una martellante, svenevole, retorica (che ha fatto da cassa di risonanza del mercatismo che vuole le scuole sempre aperte per garantire la presenza dei genitori-lavoratori nelle aziende): le relazioni bloccate, i sorrisi negati, gli affetti recisi, tutta colpa della DAD.

Ebbene, la disfunzione di una società comincia dalla scuola. E parlarne, scrive Meneghello, significa “salvare” lo scolaro, cioè “rintracciare ciò che vi può essere di salvabile in lui” nonostante questa diseducazione sistematica cui è stato sottoposto.

Il primo atto di questa “operazione di salvataggio” consiste in un cambio di prospettiva: bisogna guardare i giovani in un modo nuovo, assumere, cioè, uno sguardo che potremmo definire floreale. In un’epoca in cui i più piccoli erano i figli della lupa, diventavano poi balilla e venivano infine inquadrati nei Fasci giovanili di combattimento, addestrati alla violenza e alla cieca ubbidienza, L. Meneghello fa dire a un “ragazzotto dai capelli rossi, malinconico e cortese” la frase più rivoluzionaria della pedagogia e che spiega il titolo del libro: “noi siamo vasi di fiori. Voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire”. Che la scuola dovesse passare dall’imposizione alla delicatezza e che dovesse formare non sudditi ubbidienti o soldati pronti al sacrificio, ma fiori da far sbocciare, era una rivoluzione linguistica prima di tutto e culturale, poi, in senso lato.

Ora gli studenti certamente non sono più figli della lupa o balilla, ma vengono definiti, con lessico aziendalistico, utenti, portatori di interesse, stakeholder. Anche oggi, dunque, la scuola dovrebbe recuperare la prospettiva floreale suggerita da Meneghello, per insegnare ai giovani a fiorire, a irradiare bellezza nel mondo ferito in cui stanno per entrare.

Il romanzo di L. Meneghello si può dividere in due parti: nella prima sezione prevale una serrata denuncia da parte del protagonista S., di quella che potremmo chiamare la diseducazione di Stato e dei suoi fondamenti:

–       distacco della scuola dalla vita e dalla realtà: “una specie di settore separato con leggi e caratteristiche proprie”;

–       classificazione su scala numerica degli studenti secondo categorie naturali: “i bravi, i normali, gli scarsi”;

–       trasmissione di una cultura “esposta come la Sindone”, una cultura” che non c’entra con la gente” e che è” come la Grazia, che non ha una dimensione sociale”;

–       organizzazione di un sistema con i suoi “riti inquistori o giudiziari”, i suoi “skills specializzati” come per esempio quello di “destreggiarsi tra i due colori dell’errore, il blu e il rosso, erogati da matite a sezione poligonale … una specie di teologia del rosso (veniale) e del blu (mortale)”;

–       distacco tra le parole e le cose: “le cose erano cose-parole, non cose-cose”;

–       il docente degradato a “baby sitter intellettuale” o a semplice “pastore”, nel senso che “pasturava i giovani e loro facevano bèee bèee”: una figura orientata più “a smorzare che ad accendere”;

–       ripetizione ciclica degli stessi contenuti, sempre uguali, al massimo presentati “sotto altri angoli visuali”.

Non mancano, certo, nel testo ricordi di insegnanti capaci di suscitare interesse, quelli che, come diceva Dante, ti insegnano come l’uomo si eterna. Però, si corregge subito Meneghello, questi “non possono, non sanno, insegnarti altro”: forse, sembra sottintendere l’autore, i giovani prima di eternarsi, dovrebbero imparare ad affrontare il presente, e l’urto è forte.

Il ritratto finale è il profilo di una scuola vuota e senza idee. “Idee importanti oggi non ce n’è”: è questa l’amara constatazione di Meneghello. E in una scuola così “si potevano insegnare solo cosucce, cos’è uno hysteron-proteron, la struttura delle graminacee”. In definitiva, una scuola inutile: “qualche correlazione tra imparare e vivere si asseriva a parole che esiste, ma di fatto nessuno se ne dava pensiero”.

Appare a questo punto superfluo commentare l’affinità tra la diseducazione di Stato subita dai giovani durante il Ventennio e quella in atto in questo ultimo ventennio dominato dalla trionfante triade morattiana: Inglese, Informatica, Impresa, che ha sostituito quella tetra, più antica, del “credere, obbedire, combattere”.

I Fiori italiani dimostrano che negli anni del fascismo quello che i ragazzi apprendevano, lo imparavano fuori dalla scuola. Il modello di un’educazione costruttiva è incarnato nel libro di Meneghello da Antonio Giuriolo, il maestro-partigiano il cui esempio ha avuto la forza demiurgica di “fare gli uomini, la mente degli uomini e delle donne”, dimostrando con il suo esempio vivente che la cultura è “il principio informante del carattere” e la libertà “l’alimento stesso della vita intellettuale e morale”.

E, naturalmente, è tutta questione di metodo: sull’esempio del maestro Giuriolo, L. Meneghello elabora una didattica che se fosse applicata oggi restituirebbe seriamente alla scuola quella dignità tanto propagandata dagli stessi politici che gliel’hanno tolta.

Pochi, illuminanti, tratti:

–       metodo maieutico, il valore della domanda: nel dialogo con il giovane protagonista S. “Antonio non lo contraddiceva, gli faceva delle domande con fermezza e senza ostilità e lui sentiva la forza frenante di queste domande, il giudizio che vi era implicito”;

–       informalità: “era proprio questa la forza del suo insegnamento, non c’era tono didascalico, non svolgeva un programma”;

–       concretezza: “Antonio si rivolgeva sempre a una cosa precisa, questo libro, questo passo, questo concetto. Additava, citava (non a memoria come un retore, ma aprendo e cercando) brani segnati a matita, sottolineati…gli veniva spontaneo richiamarsi a punti dove ciò che stava dicendo si vedesse espresso ed esemplificato;

–       capacità di cogliere e comunicare “l’interesse intrinseco delle cose”: negli argomenti che affrontava “c’era la perfetta corrispondenza tra interesse soggettivo e interesse intrinseco dell’argomento”;

–       un’esposizione guidata dal “discorso lucido della ragione” capace di trasmettere “un senso di suprema pacatezza” e di “calma sovrana”.

Nei ricordi dell’amico-discepolo S., Antonio Giuriolo è “l’insegnante”, colui che cioè lascia un segno nella vita dei suoi allievi: “l’impronta che ha lasciato in noi è dello stesso stampo di quella che lasciano le esperienze che condizionano per sempre il nostro modo di pensare, di vivere e se scriviamo, di scrivere”.

L. Meneghello, Fiori italiani, BUR, 2022

mercoledì 8 dicembre 2021

IL DANNO SCOLASTICO

 

Accade spesso che il dibattito sul valore di un libro sia fortemente influenzato da condizionamenti ideologico-politici che privano la discussione di quell’onestà intellettuale, di quella serenità di giudizio necessarie a cogliere del libro il suo significato di fondo e lo spirito che lo anima. Certo, nessuno è completamente immune da personali orientamenti nei criteri di valutazione che adotta, tuttavia sembra opportuno lasciare spazio a letture e a interpretazioni il più possibile obiettive. 


“Il danno scolastico” è uno di quei saggi profondamente divisivi: un forte pregiudizio sul presunto conservatorismo degli autori ha caratterizzato le recensioni finora pubblicate (cfr. Vanessa Roghi e Christian Raimo, https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/come-non-conoscere-o-non-capire-nulla-della-scuola-democratica-ovvero-il-danno-che-provocano-le-confuse-opinioni-di-luca-ricolfi-e-paola-mastrocola/ e Vincenzo Sorella, https://www.doppiozero.com/materiali/mastrocola-e-ricolfi-quale-e-il-vero-danno-scolastico).

Si tratta di critiche provenienti da un mondo che si autodefinisce di sinistra, espressione di una pseudosinistra neoliberista che da decenni ha in effetti snaturato la scuola, allontanandola dalla sua antica vocazione culturale, per curvarla verso orizzonti sempre più marcatamente aziendalistici e economicistici di cui, peraltro, viene goffamente mimato il linguaggio.

Da lettrice e docente, del saggio di Mastrocola e Ricolfi apprezzo la chiarezza espositiva e l’appassionata difesa di un’idea alta della scuola come ultimo baluardo di resistenza contro attacchi – ipocritamente chiamati “riforme” - che da anni la stanno impoverendo e destrutturando. Con una pericolosa operazione di manipolazione del linguaggio – in atto, a dire il vero, in diversi campi, come ha recentemente ribadito G. Carofiglio nel suo recente “La nuova manomissione delle parole” – si dichiara propagandisticamente di voler mettere la scuola “al centro”, ma nei fatti le si sottrae sempre più calibro, valore, spessore: si riempie il tempo scolastico di tutto (progetti, gite, orientamenti universitari, alternanza scuola-lavoro, incontri con esperti di vario genere, test Invalsi), si svuota la vita scolastica di senso. È chiaramente un disegno preciso: si chiama “ampliamento dell’offerta formativa”, ma l’unica cosa che si dovrebbe ampliare – l’orizzonte culturale – resta annebbiato. Non c’è tempo per imparare. Per ora è così e bisogna ammetterlo, con buona pace dei difensori della scuola “progressista”, se per progressismo costoro intendono la costante distrazione da quello che dovrebbe essere l’aspetto prioritario della scuola: la cultura.

Bisogna essere chiari: la scuola oggi offre davvero poco. Nel tempo residuale – tra una videoconferenza con esperti chiamati per fornire delucidazioni sulle possibili scelte universitarie che il territorio offre, e una videolezione sulla piattaforma per l’alternanza scuola-lavoro, che riguardo al lavoro non presenta niente e si riduce a una noiosissima lezione frontale che gli studenti sono costretti a seguire per mero adempimento burocratico – ebbene, nel tempo che resta, si fa solo quel che si può: poco.

E se Mastrocola e Ricolfi denunciano questo deficit di spessore della scuola pubblica, se cioè denunciano il falso progressismo della scuola pubblica che si è tradotto solo in un abbassamento vertiginoso dell’offerta culturale, non sbagliano. A ciò si aggiunga anche la pessima selezione dei docenti, immessi nei ruoli attraverso concorsi facilitati: si capirà perfettamente che agli studenti lo Stato davvero non fornisce le lenti necessarie a decodificare il mondo, la realtà, la storia, la complessità. Ne deriva, ovviamente, che poi abbandonano lo studio, non si iscrivono all’università. La scuola non li prepara abbastanza. Gli autori del saggio “Il danno scolastico” questo dicono: la scuola oggi non prepara. È vero, è sotto gli occhi di tutti, è un dato confermato: all’ultimo concorso in magistratura (luglio 2021) il 94% dei candidati è stato bocciato (https://www.ilsussidiario.net/news/magistrati-concorso-flop-94-bocciati-scrivono-male-allarme-servono-800-idonei/2260936/): gente laureata che ha lacune nell’italiano scritto, nella formulazione scritta del proprio pensiero, costituisce un risultato allarmante. E non è soltanto questione di grammatica, è un problema più profondo che investe la capacità di formularli, i pensieri, di dipanare il groviglio che li intrappola e che impedisce di tradurli in parole. Un problema serio, non solo linguistico: tredici anni di scuola e cinque di studi universitari evidentemente non risultano sufficienti a dotare le persone delle competenze comunicative necessarie a superare un concorso pubblico.

E quale sarebbe la colpa di Mastrocola e Ricolfi? Aver denunciato l’ovvio? Deideologizziamo il dibattito e riconosciamo obiettivamente le falle del sistema scolastico italiano, ammettiamo la colpa più grave della scuola: aver smesso di insegnare in nome di un’ipocrita idea di “inclusività” che garantisca a tutti il “successo formativo”. L’inclusione è un principio sacrosanto (soprattutto se a giovarne sono tutti gli alunni BES, i più bisognosi di attenzione e cura), giustissimo è pure l’impegno ad assicurare agli studenti la piena realizzazione di sé, ma tutto questo non può e non deve essere l’alibi per l’abbassamento degli obiettivi culturali come quello che oggi i giovani stanno subendo. Lo ha spiegato bene A. D’Avenia (https://www.corriere.it/alessandro-d-avenia-ultimo-banco/21_novembre_14/altezza-quadri-bee501f4-458c-11ec-9904-ef3b86729896.shtml): un buon educatore non appende il quadro all’altezza del bambino – deturpando una casa – ma lo appende dove è giusto, dove sta bene, e insegna al bambino a usare la sedia per sollevarsi e guardarlo dal punto di vista più adeguato. E invece oggi la scuola ha scelto la via più facile, ha abbassato gli obiettivi. Così, però, non insegna più, tarpa le ali e i sogni. E non è giusto, Don Milani avrebbe disprezzato questo tipo di scuola che lascia indietro proprio chi pretenderebbe di includere: se per includere smetto di insegnare, finisco con l’escludere. Depoliticizziamo l’analisi: chi può davvero dire di essere soddisfatto da questo sistema di istruzione?

La scuola non riesce più a insegnare. E le speranze riposte nel digitale, nelle avanguardie didattiche e nelle seduzioni della gamification si sono rivelate false illusioni, se non errori: gli studenti saranno anche bravissimi a svolgere un questionario Kahoot, ma quando scrivono un tema sono in difficoltà. Da anni chi insegna lo constata. Il cammino è sempre da ricominciare…

P. Mastrocola- L. Ricolfi, "Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza", La nave di Teseo.

domenica 17 ottobre 2021

NON HO PIÙ ARMI - POESIA INEDITA DI TONIO CAIONE


 

Non ho più armi

 

Non ho più armi,

Amica mia.

Sono senza difese,

e non ho scudiero che m’assista.

 

Questo settantaduesimo gennaio

è più freddo di sempre,

e non ho vesti per coprirmi;

neanche un alito –

né di madre, né di sposa.

 

Non parole,

né suoni o giochi di bimbi –

 

Tu sola, Amica lontana,

puoi ancora donarmi parole:

il silenzio mi inchioda.

 

Gennaio 2017

 

 

   Scegliere il tema del desiderio è una delle sfide più ardue che un poeta possa affrontare: il rischio di cadere nella banalità è alto, il pericolo di ripetere topoi abusati è forte, la possibilità di scoprire troppo apertamente la propria interiorità diventa quasi una certezza.

   Eppure il dovere dell’originalità il più delle volte delude e copre di una patina d’artefazione la sincerità che i lettori si aspettano e che, in fondo, ognuno di noi cerca nei rapporti umani. Saba definiva la sincerità dei versi poesia onesta e condannava lo sfrenato desiderio di originalità, quello di chi non sa rassegnarsi, quando occorre, a dire anche quello che gli altri hanno detto.

In questo consiste la grandezza di alcuni componimenti. Non ho più armi riesce a trasmettere ciò che tutti provano e trova conferma della sua onestà in quello che anche gli altri poeti hanno detto: noi viviamo di desiderio.

   Ciò che voglio mi è negato, scriveva Jaufré Rudel nella sua nota canzone che celebra l’amore di lontano. È una verità antica. E che il desiderio si nutra di assenza, di mancanza, lo suggerisce la sua radice etimologica: dal latino deesse, “mancare” o dalla locuzione de sideribus, “dalle stelle”, espressione che fa riferimento a quella luce, a quel lampo di felicità, che ci manca e che vorremmo brillasse nelle nostre vite. E che noi siamo sostanza desiderante non ce lo dice solo la più alta tradizione lirica, che ha avuto in Petrarca la sua massima espressione. Potremmo sperimentarlo ogni giorno, ma forse non sappiamo più prestare attenzione alle emozioni. La poesia di Antonio Caione che ruota tutta intorno alla forza del desiderio, all’urgenza dell’incontro e alla sua impossibilità di realizzazione, ci costringe a fare i conti con l’anestesia emotiva del nostro tempo.

Oggi la forza del desiderio sembra essersi esaurita, pochi ne avvertono l’intensità. Immersi in un mondo sempre più vorticoso, siamo attori di un eros vissuto distrattamente, velocemente e troppo facilmente. L’imperativo consumistico sintetizzato da Freddy Mercury nell’epocale I want it all, I want it now, “voglio tutto e subito”, ha spinto intere generazioni ad azzerare il desiderio e a sostituirlo con la rapida soddisfazione e l’aproblematica rottamazione. Zygmunt Bauman definiva queste esperienze a basso tasso d’investimento sentimentale, “amori liquidi”, fragili, che nascono sui social e lì finiscono con brevi post di addio. Senza crucci e, al massimo, con le lacrime di un solo momento, i consumatori seriali di rapporti senz’anima sono pronti alla sostituzione del vecchio con il nuovo oggetto di consumo erotico.

Tonio Caione, invece, recupera dalla migliore tradizione lirica le componenti fondamentali di un eros degno di questo nome: la lontananza dell’amante e la tristezza per l’inappagamento del desiderio. Il senso profondo della frustrazione è testimoniato nel testo di Caione, dalla martellante ripetizione della negazione non, neanche, né che sembra condannare il soggetto lirico alla privazione di ogni concreta possibilità di incontro. D’altra parte, domina la dimensione totalizzante dell’eros rispetto al quale chi ama è sempre in condizione di inferiorità, come un guerriero disarmato, metafora cui il titolo del componimento allude e che restituisce attualità a suggestioni tradizionali. Chi ama è esposto ai colpi di un dio, Eros, che possiede con prepotenza e al quale è inutile opporre resistenza.

A costituire, però, la vera forza dei versi di Tonio Caione è l’accento posto sulla sfumatura più intensa dell’amore, un dono di parole: tu sola, Amica lontana,/puoi ancora donarmi parole.

Viviamo nell’era della comunicazione, ma non sappiamo comunicare, dimentichiamo che “fare” l’amore è prima di tutto “parlare” d’amore. Comunicare è un verbo che nasce dall’idea del condividere le emozioni attraverso la parola, lo dimostra chiaramente la derivazione latina del termine, cum (“insieme, con”) e munus (“dono”): comunicare è la capacità di donarsi attraverso la parola, abbattendo i muri che separano.

Noi, al contrario, nonostante l’illusione di entrare in contatto attraverso i social, viviamo in un’epoca di incomunicabilità profonda: siamo come Gli amanti di Magritte, separati da un drappo bianco che copre i volti e impedisce l’intimità facendo da barriera divisiva. Siamo incapaci di guardarci, di parlarci. E a questo punto comprendiamo quanto peso abbia l’amarezza del silenzio: il silenzio mi inchioda, scrive Tonio Caione. Ferisce l’afasia di chi non vuole, non sa comunicare. Sarà per incapacità, oppure per scelta, forse per timore, poco importa: il silenzio inchioda ognuno alla propria solitudine.

 Non ho più armi è una poesia che scava nel cuore e scopre la verità che giace al fondo, per usare ancora le parole di Saba.

L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda, scriveva Montale interrogandosi sui destini della poesia e sulla sua possibile sopravvivenza nella società dei robot.

Non ho più armi è un esempio di poesia onesta, la sola che possa resistere agli imperativi del mercato, alla competizione della tecnologia, alla degradazione di contenuti e forme imposta dal gusto di massa. Non ho più armi dice la verità sull’essere umano: siamo fatti di desiderio, che si nutre di assenze.

 E la tua assenza so quel che mi dice,

la tua assenza che tumultuava

nel vuoto che hai lasciato,

come una stella. 

(Vincenzo Cardarelli)

 

 

 

 

 

domenica 6 dicembre 2020

IL DONO DI ANTONIA

 Il corpo di una donna è progettato per procreare e dare la vita: ma perché per secoli la biologia ha condizionato le scelte del soggetto femminile relegandolo al solo ruolo di madre? Un figlio è di chi lo mette al mondo o di chi lo ama, lo alleva, lo educa? L’istinto materno è davvero un istinto? Il rifiuto della figura materna è alla base di sofferenze e psicosi che tormentano la vita oppure  questo nesso causale è l’ennesimo addebito fatto alle donne da parte di una cultura androcratica capace solo di attribuire responsabilità, oneri, colpe alla figura femminile?

Alessandra Sarchi pone quesiti che mettono in crisi, destrutturano immaginario e tradizione. Il dono di Antonia è la storia di una donna che in gioventù ha donato un ovulo a un’amica californiana per consentirle di realizzare il suo desiderio di maternità. Poi, però, ha troncato ogni rapporto con l’amica, ha avuto paura del suo stesso slancio, della sua generosità.

Ecco, il fulcro del romanzo di Alessandra Sarchi è questo. La riflessione sul senso della maternità è l’espediente, il pretesto narrativo per avviare una seria analisi sul concetto di dono, spingendolo fino all’esame di quello che è più difficile da donare: la vita, l’idea della vita, la possibilità di dare la vita.

Antonia non esita a mostrare il suo affetto a Myrtha: offre il suo ovulo e crede che la felicità dell’amica sia condizione sufficiente per realizzare anche la propria felicità. Poi, a poco a poco cominciano i dubbi, le paure e i tentativi di autoconvincersi che, sì, la generosità è sempre la cosa giusta: si dona il sangue, dunque si può donare anche un ovulo; poi, noi donne di ovuli ne abbiamo tanti…ne doni uno, altri saranno fecondati. Sì, la generosità è la cosa giusta: questo si ripete Antonia. C’è però una domanda fatale, per la quale non esiste risposta immediata: si è sempre all’altezza della propria generosità? Quale prezzo siamo disposti a pagare per quella che consideriamo generosità? È vera generosità quella di Antonia? Il dubbio che la tormenta è proprio questo: a inquinare l’idea di generosità ci sono due fattori. Il primo, umanissimo, è il rimpianto legato al desiderio comprensibile di conoscere poi la vita che crescerà a partire da quell’ovulo donato: per questo Antonia tronca ogni rapporto con Myrtha, per non affrontare la possibilità di voler vedere il bambino che da quell’ovulo donato, nascerà: avevo paura di vederti, di vedere qualcosa che non sarebbe stato mio …Non volevo sciupare il mio dono con la gelosia

Il secondo aspetto che tormenta Antonia è un dubbio atroce, perché sfalda l’idea stessa di generosità: si possono davvero considerare interscambiabili un ovulo e l’idea di vita che porta dentro? Quando Jessie, il giovane uomo che da quell’ovulo ha avuto vita, arriva in Italia e cerca Antonia, lei vive un’epifania, una rivelazione. No, la vita non è interscambiabile, è unica. E in quella unicità c’è un destino, un percorso fatto di scelte, gioie e dolori che ad Antonia non appartengono, ma che la mettono di fronte ai propri errori, alle proprie fragilità. Essere la madre di Anna non compensa l’atto mancato di Antonia che avrebbe potuto essere la madre di Jessie, ma ha scelto di non esserlo. Inizia un percorso di autoindagine, fatto di domande e sensi di colpa che la ragione da sola non dissolve. Il passato lontano, ma mai rimosso, diventa quasi un’ombra persecutoria: è col passato che bisogna aver a che fare, con la memoria custodita e con quella rinnegata.

Sin dall’inizio del romanzo si afferma questa certezza: la cosa sulla quale si ha meno controllo è il passato, e la memoria, e nel passato può esserci tutto.

Sarchi tocca un punto nevralgico del nostro sentirci moralmente nobili: può definirsi generosità il bisogno di misurarsi? Volevo provare a me stessa di valere qualcosa: Antonia dona, ma alla base del suo gesto c’è l’io. È l’esigenza di “centrarsi” a determinare la sua scelta: provavo un sentimento di inappartenenza che tendeva all’ostilità. È la triste consapevolezza di una vita in cui c’era tutto, fuorché un obiettivo a originare la sua decisione. Ma alla fine l’atto di donare non la tranquillizza, anzi dal momento in cui si offre inizia il suo tormento: sentire di aver oltrepassato un limite e non sapere più esattamente quale sia il proprio posto. Ci si può costruire una vita, intorno a una vergogna così.

Il dono di Antonia, forse, allora, non è quello che lei fa a Myrtha. Il vero dono è quello che Antonia riceve da Myrtha. È Myrtha che dona ad Antonia una felicità possibile, la bellezza di essere cercata e amata nonostante le fughe e le chiusure. Myrtha ha pochi anni davanti a sé, è malata, svela a Jessie, il figlio che ha allevato e amato, la verità sulla sua nascita dall’ovulo donato da Antonia. E come in una Telemachia Jessie cerca l’altra madre, Antonia, quella naturale. Il loro incontro è intenso: i due si riconoscono. Jessie non giudica. Madre e figlio parlano, bevono un succo alla menta. Tonano a casa. Un nostos antico.

Il dono di Antonia è quello ricevuto da Myrtha, che ha capito e non ha condannato la fuga della sua amica italiana, ha custodito la felicità che grazie a lei ha raggiunto: e, pensando a Myrtha, Antonia ammette che ancora una volta la sua amica le ha aperto la strada, l’ha messa nelle condizioni di essere una donna diversa.

Il dono di Antonia è quello che riceve da Jessie, che con la sua tenacia nel cercare, con la sua capacità di aprirsi all’ignoto, di rischiare un rifiuto da parte della donna che non ha mai voluto conoscerlo, ha mostrato ad Antonia la parte più bella delle relazioni umane, la fiducia, la capacità di guardare oltre i giudizi e le valutazioni razionali e ha dato spessore – con pochi, ma forti, strumenti, l’ascolto e la parola – a un legame che fino ad ora è stato solo naturale, biologico, di fatto inesistente.

Jessie ora c’è, esiste.  Non è più “il passato”. Non c’è molto da ragionare sui “perchè” della vita.

Il dono di Antonia è quello che lei riceve, quando meno se lo aspetta: l’incontro che scompagina gli schemi, la dissoluzione dei sensi di colpa, la liberazione dai segreti opprimenti del passato, la matura comprensione del fatto che quello che ci salva, ogni giorno, sono i sentimenti, non la ragione né la natura. I sentimenti. Quelli che servono a colmare i buchi e la distanza. I sentimenti.

ALESSANDRA SARCHI, IL DONO DI ANTONIA, Einaudi

sabato 25 luglio 2020

RIFLESSI SULL'ANIMA

Riflessi sull’anima è un titolo insolito, lirico, per una biografia. Fotografa subito l’accurato e paziente lavoro di ricostruzione che Angelo Piemontese ha condotto per restituire ai lettori il profilo – umano e intellettuale – di uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana del Novecento: Cesare Pavese.

Il sottotitolo – “Incontro-scontro di Cesare Pavese col suo tempo” – chiarisce gli intenti del volume di Angelo Piemontese, garganico, docente di Lettere ed esperto di narrativa contemporanea: esaminare il complesso rapporto di Pavese con la storia, la società, la cultura, l’ambiente letterario con cui entrò in contatto e scoprire i “riflessi”, appunto, che si sono riverberati sull’anima dello scrittore: l'appassionato biografo spiega, infatti, che “nella sua intima disperazione” Pavese “ha portato riflesso il senso più profondo degli anni vissuti, non adeguandosi mai alla mentalità e alla cultura correnti, ma schierandosi costantemente contro, seppure senza urla o manifestazioni sopra le righe, sorretto sempre dal senso della misura”.

I primi segnali della sua voce “contro” - nota Piemontese -  sono la tesi su Whitman e poi la traduzione in italiano di Moby Dick: studiare e proporre al grande pubblico testi e traduzioni di autori statunitensi nonostante “l’ostracismo fascista”, si connota subito come un gesto dirompente. Presto questa insofferenza al clima autarchico e asfittico del Ventennio si traduce in esplicito rifiuto del modello di vita fascista: arroganza, arditismo, azione a tutti i costi, retorica del “me ne frego”, del “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, il sentimento di una patria immaginaria, scrive Pavese, sono gli spasmi di un potere e di una civiltà pronti ad implodere e che non hanno alcuna corrispondenza con la vita reale.

Coraggiosamente - mette in luce Piemontese - lo scrittore di Santo Stefano Belbo prende le distanze dagli intellettuali crociani o rondisti che fanno del classicismo la nicchia in cui difendere la propria neutralità, un rifugio, una turris eburnea. Parlare di letteratura americana nell'Italia fascista è proibito: equivale a parlare di democrazia, a tastare un terreno nuovo, immune dal nefasto mito del superuomo che, lanciato da D’Annunzio – sulla base di suggestioni nietzschiane – si era poi incarnato in Mussolini. A Pavese, invece, la letteratura americana suggerisce modelli di vita sani, autentici, ritratti di uomini nuovi, operai, disoccupati, ragazzi, riflessi dell’uomo universale che può essere capito da tutti e che trova realizzazione in personaggi come Talino di Paesi tuoi o Anguilla, il protagonista del romanzo maturo La luna e i falò.

Dunque, nonostante le frequenti professioni di “apoliticità” letteraria - certamente conseguenza dell'affinità di pensiero con Vittorini -  Piemontese nota che in Pavese si fa strada il profilo dello scrittore impegnato: non esiste l’arte per l’arte. E persino la più oziosa lirica parnassiana risolverà per il lettore un problema della pratica: come vivere sognando, annota nei suoi scritti lo scrittore delle Langhe. È questo il distacco dal senso crociano dell’arte come “intuizione pura”. E la vicinanza alla vita, alla società e alle sua fasce deboli determinerà l'accostamento di Pavese al PCI, dopo il ’45. L’interesse dello scrittore per la realtà concreta lo porta a cogliere l’opposizione netta tra una borghesia fatua, vuota e il mondo dei lavoratori, operai, contadini. E Pavese, sempre più immerso nel clima che presto darà vita al Neorealismo, non si rivolge alla scrittura in modo ideologico, ma si serve di immagini tratte dalla quotidianità, dalla storia.

Piemontese nota, poi, che nelle opere pavesiane si attua parallelamente un processo di ricerca sulla lingua, che lo scrittore delle Langhe cerca di rendere sempre meno letteraria, più comunicativa, modellata sul parlato, diretta, “antinovecentista”, direbbe Pasolini, lontana sia da forme di chiusura ermetica sia dagli sperimentalismi gaddiani.

L’analisi condotta da Piemontese dimostra che la prospettiva di Pavese si amplia sempre di più. Non basta interessarsi ai problemi sociali, non è sufficiente andare verso il popolo: l’obiettivo è rompere la solitudine dell’uomo, favorire attraverso la letteratura l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Per Pavese lo scopo della letteratura è “cogliere l’uomo”, nota il saggista garganico. In questo percorso lo appoggia Bianca Garufi, donna colta, dai vasti interessi e dalla passione per la psicanalisi, con cui Pavese condivide la suggestione degli studi etnologici e del mito: è questo il momento in cui lo scrittore si dedica ai Dialoghi con Leucò, una reinterpretazione del mito classico – riletto con accenti e sfumature che potremmo quasi definire postmoderni –  che dà voce a una visione simbolica della realtà contemporanea.

L’attenzione di Piemontese si rivolge anche allo stile di Pavese: la sua scrittura non è una semplice narrazione di fatti, un intreccio di vicende. Pavese insiste su tematiche ricorrenti e confessa infatti che ogni vero scrittore è splendidamente monotono, perché raccontare è monotono. Lo aveva detto anche Saba parlando di Petrarca, notando che la sua grande poesia si era sviluppata interamente attorno all’idea ricorrente, ossessiva, del suo infelice e irrealizzato amore per Laura. E l’arte non ha paura di ripetersi. Quella che cerca l’originalità immaginifica ad ogni costo lascia dubbi sul suo valore.

L’amore – osserva ancora Piemontese - è  un’altra componente fondamentale della esperienza umana e letteraria di Pavese, come scrive in una lettera del '32, sottolineandone l'incontrollabile forza: l’amore è vita e la vita non vuole ragionamenti.

Travolgente, per esempio, è il noto legame con l’attrice americana Constance Dowling, che si conclude con un’esperienza fallimentare, una crisi profonda. Con meticolosa attenzione, il biografo ricorda che Pavese nel suo diario Il mestiere di vivere annota: non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela la nostra nudità, miseria, inermità, nulla. Lui cerca di convincersi, lo scrive a Constance, che t’was only a flirt (è stato solo un flirt, una storia), ma si susseguono nel suo cuore sentimenti contrastanti, rassegnazione e speranza, strette al cuore, la sempre più pressante tentazione del suicidio: il gesto – il gesto - non dev’essere una vendetta. Dev’essere una calma, stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. Una battuta finale. L’amore per Constance si rivela una storia sbagliata, Pavese non riesce a vedere la reale natura della donna e lei non comprende il calibro culturale di Cesare, al punto che alla sua morte - osserva con ironia Piemontese - avrebbe esclamato stupita: non sapevo che fosse uno scrittore così famoso!

Il 27 agosto 1950 Pavese perde la sua battaglia contro il vizio assurdo, cede alla tentazione suicida, in lui prende il sopravvento l’impulso all’autoannientamento. Ripeness is all aveva scritto – citando il Re Lear, in epigrafe a La luna e i falò - ma la maturità irraggiungibile condanna al peso insostenibile dell’incompiutezza.

 La disperata ricerca di un radicamento, il bisogno di stabilità sentimentale, il rifiuto del fascismo, l’interesse per una “cultura altra”, come quella dei popoli primitivi, dei classici, dei miti antichi, la dedizione costante ai testi, la scrittura spinta fino a diventare una religione del lavoro, dicono molto al nostro tempo che – scrive Piemontese – “non ha alcun punto fermo” e a tentoni cerca di “uscire dalla crisi valoriale con la convinzione di poter dire di tutto su tutto, senza possedere alcuna competenza”, complici i social network e la smania di visibilità che connota la realtà odierna.

Ma quello che resta di Cesare Pavese - evidenzia ancora Piemontese - è soprattutto la sua umanità, la volontà di non nascondere le proprie incertezze e sofferenze, gli smarrimenti di un animo inquieto: ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.

L'autore di Riflessi sull'anima chiarisce che di Pavese affascinano il dubbio, il conflitto interiore, il dramma di coscienza, la distanza dalle facili soluzioni che falsamente acquietano, la capacità coraggiosa di esprimere il proprio buio, come fa Corrado quando, nel romanzo La casa in collina, si interroga sulla guerra, sulla Resistenza, sulla morte, sul senso della vita:  dei caduti che facciamo? Perché sono morti? - Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.

Per una società come la nostra che pretende risposte dirette, risolutive, certezze inequivocabili e che vede nel dubbio una forma di debolezza, Riflessi sull'anima  lancia un messaggio profondo: l'esistenza è fatta di percorsi tortuosi, di approdi impossibili, di tentativi falliti, di illusioni e speranze, raramente di certezze. Quello che conta, però, è cercare, se non altro per prendere coscienza di sé e delle proprie contraddizioni, per scoprire il "paese" interiore che vive in noi, come fa Anguilla nel romanzo La luna e i falò.

Il volume di Angelo Piemontese non è solo una biografia, peraltro curata nei dettagli e nelle riproduzioni fedeli di testi anche privati dello scrittore torinese. È un lavoro nobile, un monito. È la testimonianza di quanto la cultura e l’arte rendano possibile l'indagine sulla vita umana.

In un momento come il nostro, si legge in Riflessi dell'anima - “in cui la letteratura, salvo qualche eccezione, propone opere che sembrano non in grado di sopravvivere nel tempo”, leggere Pavese - conclude Piemontese - significa scegliere ciò che conta e che resta, la vera letteratura, il baluardo contro la mercificazione pervasiva di cui oggi siamo vittime. 

 

 


sabato 30 maggio 2020

LA SCRITTURA NON SI INSEGNA

    È vero, "la scrittura non si insegna" e, come Vanni Santoni conferma, le scuole di scrittura non possono fare miracoli: "nessuna scuola impedirà a chi è destinato a essere uno scrittore di diventarlo, e allo stesso modo non farà di un non scrittore uno scrittore". E scegliendo di iniziare il suo libro con una citazione di Cortázar ("il solo fatto di chieder consigli ad altri in materia letteraria dimostra la mancanza di una vera vocazione") l'autore di "La scrittura non si insegna" dimostra che, in effetti, per scrivere un libro ci vuole talento.

    Vanni Santoni, però, dichiara: "di scrittura ne ho insegnata". 

    Dunque oscillando tra l'idea romantica del genio creativo e quella di un percorso perfettibile grazie all'esercizio, il pamphlet di Santoni fornisce alcune chiare indicazioni per principianti ed esordienti: bisogna leggere, scrivere ogni giorno, evitare i luoghi comuni, non dire cose noiose, "confrontarsi con i migliori" e inviare testi a riviste letterarie per entrare in contatto con un vasto mondo di critici, esperti, scrittori famosi, altri meno noti, ma pure abili e talentuosi. 

Però, forse, manca un ingrediente a questa significativa lista di consigli, e va apprezzata la sensibilità di Santoni che non ne fa menzione per non scoraggiare troppo i suoi lettori/allievi. Ma qui se ne può parlare. 

Per essere scrittori bisogna avere qualcosa da dire. Altrimenti, come diceva Elsa Morante, si resta solo scriventi. Lo scrittore, spiega Elsa Morante, è "un uomo a cui sta cuore tutto quanto accade" e in quanto artista ha un compito preciso: "impedire la disintegrazione della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso con il mondo"; "restituirle di continuo, nella confusione irreale, e frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l'integrità del reale, o, in una parola, la realtà". E precisa ancora: "in quanto scrittore non può venir meno a queste condizioni necessarie: l'attenzione, l'onestà e il disinteresse". Infine nota: "c'è una quantità di persone che scrivono, e stampano libri, e si potranno distinguerli chiamandoli genericamente scriventi", perché non possiedono quella dote straordinaria, che è sempre rivoluzionaria, dice Elsa Morante, e che si chiama arte.

    Dunque se ci si rende conto che questo è un traguardo troppo alto, nessuna scuola di scrittura potrà venire in soccorso, perché "impedire la disintegrazione della coscienza umana" è una qualità che possiedono davvero in pochi e che non è trasmissibile attraverso lezioni di scrittura.

"Attenzionee "onestà": sembrano parole scontate, queste della Morante. Eppure  anche Carver - autore citato da Santoni tra i vari riferimenti esemplari indicati nel suo testo - ne conferma il valore. A proposito dell'onestà, Carver osserva, nel suo saggio Il mestiere di scrivere: "se le parole e i sentimenti  sono disonesti, se l'autore bara e scrive di cose che non gli stanno a cuore o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro mostri interesse per il racconto". Per quanto riguarda l'attenzione, poi, Carver chiarisce: "il compito dello scrittore è di investire quel qualcosa appena intravisto con tutto ciò che è in suo potere".  È una questione di sguardo, insomma: citando Tolstoj, Carver nota che, sì, il talento è "il dono di vedere quello che gli altri non hanno visto". Poi, però, rimaneggiando la citazione dello scrittore russo, specifica: "il talento è il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato".

Infine c'è il "disinteresse": si scrive perché non se ne può fare a meno. Non c'è altra ragione. 

    Quando Santoni dichiara che "la scrittura - se l'obiettivo è arrivare a produrre qualcosa di decoroso - chiede molto tempo", dice una cosa giusta (che la scrittura richiede tempo), lasciando, però, trasparire un limite di fondo che inficia il panorama letterario contemporaneo: l'evidente prossimità della scrittura con il mercato, la sua dipendenza dall'industria editoriale: il libro è un prodotto. Il libro deve vendere.

Ecco perché ci sono tanti scriventi e pochi scrittori.

Comunque, sì, Santoni ha ragione: "la scrittura non si insegna".