Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

giovedì 19 gennaio 2017

IL DIO DEL MASSACRO

IL DIO DEL MASSACRO
Genitori e figli: finzione letteraria e realtà.

Hoc patrium est, potius consuefacere filium
sua sponte recte facere quam alieno metu.                  
 (Terenzio, Adelphoe, atto I, vv. 74-76)
Traduzione
“Questo è il compito  di un padre,  abituare il figlio ad agire rettamente per scelta autonoma, piuttosto   che per paura  di ricevere una punizione da altri.”

   Nel II secolo a. C. Terenzio pone una questione di stringente attualità: come vanno educati i ragazzi? Si tratta di un problema che assilla molto il commediografo latino, visto che lo affronta in numerose opere. Ne parla, però, in modo specifico in una commedia intitolata Adelphoe. Protagonisti della commedia sono, due fratelli, Demea e Micione che Terenzio ritrae alle prese con l’educazione dei figli, due intemperanti giovanotti: vogliono divertirsi, amare, ritirarsi tardi la notte, avere vestiti con cui far colpo… Terenzio è consapevole del fatto che non ci sono ricette assolute, perciò propone allo spettatore due modelli antitetici: Demea è fautore di metodi fondati sulla severità, sul valore dei famosi NO che aiutano i figli a crescere e ad affrontare la vita; Micione crede, invece, nella forza del dialogo: si sbaglia di grosso, secondo me, chi crede che l’autorità imposta con la forza sia più efficace e più sicura di quella che si conquista con l’affetto. (Adelphoe, atto I, vv.65-67).
   Naturalmente Terenzio scrive commedie e l’happy end è assicurato. Alla fine, infatti, trionfa l’amore, gli affetti non sono messi in discussione, gli equilibri sono ristabiliti; i figli restano figli, i genitori sono sempre i genitori. C’è un confine ben netto che marca la giusta distanza tra i ruoli. E anche se Terenzio resta affascinato dall’humanitas di Micione, in conclusione lascia la parola a Demea, che afferma, dunque, rivolto ai ragazzi vivaci e ribelli: ci sono cose che per la vostra giovinezza voi vedete di meno, desiderate con troppo ardore e non sapete valutare abbastanza: se volete che io vi ammonisca e vi corregga e ceda solo quando è opportuno, eccomi, sono a vostra disposizione.(Adelphoe, atto V, vv 92-95).
   Terenzio lascia emergere la nobiltà della funzione dei genitori che non rivendicano l’autorità del padre-padrone, ma ammoniscono e correggono, per il bene dei figli. Demea, infatti, dice: sono a vostra disposizione. L’obiettivo di un genitore è aiutare i figli nel duro compito di costruire la vita, darle forma .
 Da Terenzio ai giorni nostri l’idea non è cambiata. Educare significa, infatti, guidare, testimoniare con l’esempio come vanno affrontate le vicende della vita: le sfide con coraggio, il successo con senso della misura e i fallimenti come esperienze inevitabili da cui imparare a risollevarsi. Essere genitori vuol dire insegnare ai figli a raggiungere la giusta distanza dal turbinio dell’esistenza senza, però, mai mettere da parte la forza dei sentimenti. Kipling spiega bene questo concetto nella nota poesia If
   Una cosa è chiara: al di là dell’opposizione fra i metodi contrastanti, Demea e Micione sono accomunati dal medesimo spirito: hanno a cuore i loro figli, tanto da interrogarsi sulla validità dei metodi che adottano per educarli. 
   E oggi?
  Stando al recente delitto commesso da due minorenni  a Ferrara – dove uno dei due ha materialmente ammazzato  a colpi d’ascia i genitori dell’altro, il quale ha, però, commissionato il crimine – qualche ingranaggio deve essersi inceppato nel complesso meccanismo che regola i rapporti e la comunicazione tra genitori e figli. C’è stato il ’68. È stato annullato il principio d’autorità che, pure, aveva mietuto innumerevoli vittime. Il testo L’epoca delle passioni tristifornisce un efficace esame della situazione contemporanea. Oggi gli adulti si rivolgono ai giovani seducendoli, a scuola con tecnologie innovative ed effetti speciali, in famiglia mostrando spesso atteggiamenti amichevoli o, addirittura, complici: relazioni di simmetria tra soggetti che, però, simmetrici non sono, per età e ruoli sociali. E se seduzione e complicità falliscono, non rimane altra via d’uscita che quella di ricorrere alla coercizione. Paradossalmente, alla crisi del principio di autorità – crollato dopo le contestazioni giovanili sessantottine - non corrisponde affatto una messa in discussione dell’autoritarismo. Anzi, proprio questa crisi apre la strada a varie forme di autoritarismo. Una società in cui i meccanismi di autorità sono indeboliti, lungi dall’inaugurare un’epoca di libertà, entra in un periodo di arbitrarietà e di confusione. E quando un giovane chiede “Perché devo ubbidirti?” molti adulti sono incapaci di rispondere chiaramente: “Perché sono tuo padre …”. Se il giovane non è sedotto o dominato, non vede nessun motivo di ubbidire a questo suo simile che pretende di meritare rispetto. In nome di cosa, di quale principio? (1)
   E sebbene Recalcati abbia rilanciato la figura leggendaria di Telemaco (2) che aspetta, senza mollare mai, il ritorno di Ulisse per ristabilire con il padre quel rapporto che gli è mancato, a quanto pare Edipo non è stato completamente dimenticato.
   Lo scenario ferrarese dell’efferato omicidio vede un ragazzo stringere un foedus sceleris con un coetaneo perché quest’ultimo commetta l’omicidio che lui non ha il coraggio di compiere, ma che desidera fortemente: odia i genitori e li vuol vedere morti. 
   Questo evento è però l’anello finale di una complicata relazione che investe non solo il microcosmo familiare, ma l’intero contesto sociale, storico, culturale.
La letteratura contemporanea se ne è occupata, entrando nei meandri della complessa relazione genitori-figli.
Il titolo più eloquente e oggi tristemente attuale, è quello della pièce teatrale scritta nel 2007 da Yasmina Reza, Il dio del massacro.

Tuttavia già  nel 1928 Irène Némirovsky fa luce sulle controverse dinamiche familiari
 e trasferisce su Antoinette, la giovane protagonista del suo romanzo Il ballo, i sentimenti che lei ha sempre provato per la madre: inimicizia, rivalità, ostilità appaiono  le parole più proprie per definire un abisso di separazione affettiva.
  Antoinette avverte la distanza dei genitori, impegnati in modo ossessivo a lasciarsi alle spalle un passato anonimo e a tentare di affermarsi nella società che conta.
   Fa da contraltare al loro arrivismo il totale formalismo nel rapporto con la figlia che
cresce come un’estranea, come un peso. Antoinette ne ha la lampante dimostrazione quando le viene inspiegabilmente vietato di partecipare al ballo che la madre, Rosine, sta preparando. Per stroncare ogni richiesta della figlia, Rosine giustifica il suo divieto dicendo comincio soltanto adesso a vivere io. Antoinette capisce ora chiaramente di essere un ostacolo alla fame di vita della madre. Comincia a odiare i genitori. Sogna la vendetta. E la attua.
   Le conseguenze non sono atroci né violente neppure macabre, ma, certo, risultano destabilizzanti. Abilmente, però, la Némirovsky prepara un finale a sorpresa: quella che poteva essere una rottura tragica pare definirsi come possibilità aperta.

   La irrisolta questione educativa è anche al centro di una commedia di Yasmina RezaIl dio del massacro (2007).
   Due coppie si incontrano per discutere dei rispettivi figli che si sono picchiati. Non si conoscono le ragioni del litigio. Durante la conversazione dei quattro genitori, diventa sempre più marginale il motivo oggettivo della loro riunione, cioè, la rissa tra i figli.
   Ciascuna coppia, infatti, scopre di vivere in modo evanescente il proprio rapporto coniugale: mogli e mariti tra loro sono estranei e si accorgono che, per gli impegni professionali, sociali, non conoscono affatto i loro figli.
   L’incontro che doveva essere chiarificatore finisce nella più pesante incomunicabilità: un vero massacro  delle relazioni umane.
  Yasmina Reza dimostra che nei rapporti tra ragazzi, tra adulti, ci si sente  nemici: non si sa perché, ma ci si aggredisce. Del resto uno dei quattro protagonisti, Alain, lo dichiara apertis verbis: io credo nel dio del massacro. È il solo che governa, in modo assoluto, fin dalla notte dei tempi.  Questo rende inutile ogni tentativo di procedere ragionevolmente verso la costruzione di un dialogo umanamente – non solo legalmente -  risolutivo.
   Eppure, nonostante i loro maldestri comportamenti, questi genitori sono animati da buone intenzioni, si sforzano di arrivare a una conciliazione. Certo, si scoprono deboli, inadeguati, prima come coniugi e poi come educatori. Ma provano a interrogarsi. Ne è una dimostrazione il fatto che la commedia si chiude con una domanda. Poi cala il sipario.

   Risulta, invece, più inquietante la lettura delle dinamiche familiari che fornisce l’olandese H. Koch nel romanzo La cena (2009).
  Anche in questo caso due coppie apparentemente stabili e felici si incontrano in un lussuoso ristorante: chiacchiere, banalità, il lavoro, i figli.
   Improvvisamente, vite tranquille vengono sconvolte da un evento di efferata, incomprensibile, violenza: al ritorno da una festa, due sedicenni, proprio i figli delle due coppie a cena, ragazzi, cioè, di “buona famiglia”, ammazzano una barbona e le danno fuoco. Le immagini riprese dalla videocamera della cabina di un bancomat vengono trasmesse in TV e fanno il giro del web. 
   Alla violenza non c’è mai un perché. Ma in questo caso l’interrogativo è davvero inquietante.
    C’è un crescendo in termini di gravità delle azioni fino ad ora esaminate.
   Antoinette nel romanzo della Némirovsky odia i genitori: ferisce, ma la sua vendetta non è fisicamente violenta.
    Gli adolescenti nella commedia di Yasmina Reza sono sì aggressivi e rissosi, ma tutto resta nell’ambito dei litigi tra adolescenti non ancora in grado di misurare il rapporto tra emozioni e azioni. Siamo nel campo dei conflitti relazionali ai quali è, comunque, possibile trovare delle spiegazioni e delle soluzioni.
   I ragazzi delineati da H. Koch, invece, sono fuori controllo. La loro violenza si traduce in omicidio.
   E a questo punto a grandi passi usciamo dalla finzione letteraria e entriamo nella realtà.

   Manuel e Riccardo, nella casa dell’orrore a Ferrara, hanno dato un nome più specifico all’omicidio commesso dall’uno e commissionato dall’altro: si tratta di matricidio e parricidio.
    Vittorino Andreoli spiega che oggi questo può avvenire perché la morte ha perso pathos: i giovani abituati alla violenza dei videogames ormai credono che ammazzare sia una partita da vincere. La confusione tra virtuale e reale fa perdere consistenza persino ai legami di sangue. Questo è il fatto oggettivo: contro ogni tabù e ogni ancestrale remora, i giovani ferraresi hanno deciso di dare la morte a chi dà la vita.
   Ma dare la vita non basta. Bisogna dare forma alla vita. E spesso i genitori non ce la fanno da soli. In una società completamente proiettata verso il profitto, lavorare e guadagnare – soprattutto in tempi di crisi come quelli in cui noi oggi viviamo o cerchiamo di sopravvivere – sono imperativi categorici. E il lavoro è diventato una dimensione invasiva, assorbe energie, sottrae tempo alla vita familiare.
  Perciò andrebbe riattivata quella rete che Bauman chiamava communitas (3), un luogo che si allarga dalla famiglia al vicinato, al quartiere, alla città, fatto di aiuto solidale e concreto, di vicinanza fisica, affettiva, amicale. Purtroppo fagocitata dai social network, l’idea stessa di communitas è andata in frantumi, sostituita da legami virtuali.
   Ne deriva un nuovo impegno collettivo. Nel nobile e necessario compito di ricostruzione della communitas - soprattutto come comunità educante - siamo coinvolti tutti, non solo in qualità di genitori, ma anche come insegnanti, amici, conoscenti, cittadini di una stessa patria, uomini e donne,  persone che appartengono ad una medesima stirpe, quella umana. L’educazione è un processo infinito e ci riguarda tutti.
 Resta, dunque, interessante la diatriba tra Demea e Micione negli Adelphoe. Severità (non autoritarismo) e dolcezza (non complice “lasciar fare”) sono false alternative, vanno calibrate: in medio stat virtus.
   Il vero punto focale – e Terenzio stesso lo fa capire – è tutto in quel sua sponte recte facere: l’educazione consiste nel saper insegnare ad agire rettamente per scelta autonoma.
1 – M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 2003
2 - M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, 2013
3 - Z. Bauman Communitas, 2013

domenica 15 gennaio 2017

CROCE SENZA AMORE

HEINRICH BÖLL, CROCE SENZA AMORE

  Heinrich Böll, convinto antinazista, attribuì alla scrittura l’alta funzione critica contro ogni conformismo e accettazione passiva del potere e dei suoi abusi. Vinse il premio Nobel per la Letteratura nel 1972. Anche se di formazione cattolica, rinnegò il cattolicesimo ufficiale, a causa dell’ipocrisia della Chiesa tedesca. Attraversato, tuttavia, da un profondo senso del divino e attratto dalla radicalità rivoluzionaria del messaggio evangelico, conservò sempre un impeto religioso, libero, ribelle, antigerarchico.
  Croce senza amore è la denuncia di un sacrificio inutile: quello di tanti giovani tedeschi costretti alla guerra, irretiti dalle  promesse di un capo demoniaco, spossessati dei loro sogni, indotti a credere in un progetto collettivo, quello di un pangermanesimo violento, da cui la Chiesa non prese mai effettivamente le distanze: il colpo più terribile fu vedere preti in uniforme da ufficiali, curati e terribilmente cristiani, che portavano come distintivo la croce diabolicamente rovesciata accanto alla croce di Gesù Cristo; sì, li vedeva recitare la santa messa, ascoltare la confessione e tenere prediche insulse sull’adempimento del dovere.
  Queste sono le riflessioni di Christoph Bachem che vede nel nazismo la notte della storia, la negazione più profonda del sacrificio di Cristo, tradito da un’umanità sedotta dalla potenza mefistofelica di un capo, di un partito: comprese che la quotidiana ripetizione, a tutte le ore, del sacrificio di Gesù nel mondo è anche una ripetizione del suo dolore, e che da qualche parte nel mondo anche Giuda è ogni giorno davanti all’altare e precipita Cristo nel sanguinoso abisso del tradimento.   Böll analizza il nazismo non dalla parte delle vittime storiche (gli ebrei, i detenuti dei lager), bensì dalla prospettiva di un altro tipo di vittime: i giovani tedeschi, come Christoph, dotati di coscienza critica e costretti alla leva forzata, alla guerra decisa dall’abiezione del potere, al sacrificio di ogni desiderio, alla presa d’atto della fine di ogni possibilità di pace.
  Sono vittime anche i giovani come Hans Bachem, fratello di Christoph. Hans incarna il prototipo dei ragazzi affascinati ingenuamente dal progetto satanico di Hitler, dalla divinizzazione dell’idea di Patria, dall’idolatria del capo carismatico e delle sue promesse palingenetiche, dalla sacralizzazione dell’idea di Stato, percepito come un ente che non tiene in mano la spada per ornamento e che, dunque, deve proteggere il suo diritto col sangue.
  Hans crede nell’equazione Stato = forza impositiva e coercitiva, è certo del valore assoluto della Legge, ignora il principio - che già Antigone aveva insegnato – della disubbidienza civile. E alle osservazioni coraggiose che gli rivolge Joseph, il giovane amico dissidente – quello che proprio lui farà arrestare e consegnerà ai gerarchi nazisti – Hans sente aprirsi una ferita nel cuore, avverte la lacerazione del dubbio, che però reprime sotto l’impeto della forza seduttiva e trascinatrice delle nuove idee; soffoca le latenti incertezze perché le leggi hitleriane gli appaiono risolutive e considera necessari anche il potere persecutorio e l’autorità malvagia che lo stato nazista esercita.      Joseph con acutezza fa fare ad Hans un passo indietro nella storia e gli ricorda che persino Cristo fu ucciso dallo Stato in nome della cosiddetta legge. Böll insiste su questo concetto: Gesù Cristo è stato crocifisso come vittima di quella che agli occhi di tutti era formalmente giustizia e fu giudicato secondo tutte le regole del gioco della giurisdizione. Joseph, dunque, pone una questione attualissima: la consapevolezza che non tutte le leggi sono giuste deve generare il coraggio del rifiuto. E, coerentemente, Joseph oppone al Reich il suo rifiuto. Paga con la deportazione e con la prigionia, ma salva l'onore e la dignità.
  L’accusa di Böll non è tanto verso l’ingenuità di molti che come Hans caddero vittime della retorica nazista.
  La condanna dell’autore è per una Chiesa che ha predicato il valore della croce disgiungendolo da quello dell’amore, facendosi, così, complice di una follia omicida, spacciata come ideologia politica da assassini dello spirito. Si tratta di una Chiesa che, in questo modo, tradisce il suo mandato, che supera Giuda, che non “vende” Dio, ma addirittura lo elude.
  Per Böll non è tanto esecrabile il rapimento intellettuale cui giovani come Hans non vollero, non seppero opporre solide difese. Secondo Böll è pericolosa la disperata inquietudine che ciclicamente s’impossessa degli animi umani e che durante il nazismo fu lasciata a se stessa da parte di chi, invece, avrebbe potuto esercitare il proprio mandato spirituale per curarla. Anzi, peggio, fu addirittura, strumentalizzata, regolata e irreggimentata nella “Gioventù hitleriana”, da parte di un movimento politico destinato a diventare un regime.
  L’accusa di Böll si rivolge ai falsi profeti, seduttori indegni di giovani cuori delusi, serpeggianti e insinuanti corruttori politici che portarono molti ragazzi a credere in una mistica della distruzione, illusoria e ingannevole àncora di salvezza dal vuoto, dal grigiore di esistenze anonime: Hans voleva una linea che procedesse forte e dritta verso l’alto … ma cos’era l’alto? Già, la madre e Chrisoph, per loro la religione era una fiamma luminosa che si leva verso l’alto … ma a lui sembrava che quella strada sfiorasse le esigenze della realtà senza toccarle; le parole croce e sacrificio dovevano avere anche un senso terreno, dovevano essere incluse nel circolo ardente dell’azione; sì, lui voleva vivere di azione. Nessuno, nessuno aveva saputo aiutare il popolo, nessuna comunità religiosa, nessun imperatore … e se ora d’un tratto lo stato otteneva la piena autorità e la assoggettava a una grande opera, voleva esserci anche lui.
  La colpa, certamente, non è dei giovani idealisti febbricitanti d’azione né si situa nel loro bisogno di credere; sta, piuttosto, nei fabbricatori di falsi sogni (Hitler) e nell’incapacità di una secolare istituzione religiosa di rispondere alle esigenze della realtà (cattolicesimo tedesco, Chiesa).
  L’uomo non ha bisogno di dogmi o di verità teologiche astratte, l’uomo vuole trovare un senso terreno, una ragione forte alla sua esistenza, alla sua presenza nel mondo. Se queste istanze vengono deluse, se si lascia spazio all’inquietudine, alla disperazione – sembra dire Böll – vince lo storytelling più accattivante, che, presentato secondo le categorie della Legge, della Giustizia, della Verità, non può che affermarsi.
  Per questo Böll non condanna Hans e i suoi errori: alla fine del romanzo gli restituisce, anzi, dignità, rendendolo autore di un coraggioso atto, un sacrificio eroico che abbina all’idea della croce, quella dell’amore.
  Non c’è redenzione, non c’è assoluzione, invece, per gli allegri babbei che negano la povertà e la miseria, i cui occhi sono velati dal muco disgustoso della mediocrità che nasconde loro il reale: un ceto politico incapace, assetato solo di potere; un corpo religioso distratto e colluso; uno Stato che produce leggi lontane dal senso umano dell’esistenza; una Chiesa senza amore, ma che pure predica la croce: una morale del sacrificio che rende le masse assuefatte all’ubbidienza e le conduce alla distruzione, un’etica della rassegnazione che azzera ogni impeto alla rivoluzione.
  Ubbidienza, rassegnazione: in nome di che cosa?
  In un saggio Böll scrisse: l’evoluzione della società occidentale è improntata da due gerarchie, che ci dominano: lo Stato e la Chiesa, che collaborano sempre molto bene insieme, anche quando eventualmente si combattono, perché naturalmente la subordinazione e l’assoggettamento a questa o a quella gerarchia, serve talora all’altra. Non capiterà mai che, ad esempio, in Germania un qualsiasi partito prenda delle misure serie, critiche o fin aggressive nei confronti di qualsiasi Chiesa. Le Chiese servono ancor oggi da istituzioni addomesticatrici, cosa che a uno Stato può far sempre molto comodo. (1)
  Croce senza amore è un romanzo-denuncia che affronta problemi attuali.
  Se il vuoto esistenziale non viene colmato da risposte all’altezza dell’essere umano, si apre la strada alle pseudo-risposte, alle narrazioni seduttive, che, appunto, seducono e non rispondono. Ma possono improvvisamente trasformare il mondo in una massa sottomessa. Afferma ancora Böll, rispondendo ad un suo intervistatore: la cosa più tremenda che io conosca è la sottomissione, la sudditanza oppure il desiderio di sottomettersi incondizionatamente, questo fare come gli altri, correre con gli altri, cantare con gli altri, marciare con gli altri.
Vorrei soltanto additare le premesse esistenziali, diciamo, per cui sorgono sottomissione e subordinazione. Non c’è bisogno di discutere sugli orrori della guerra, ma la medesima tirannia, ordinata gerarchicamente, lei può trovarla in una scuola, in una parrocchia, sempre là dove sorgono ordinamenti gerarchici, dove si creano dei superiori. L’autorità superiore crea una tale sorta di orrori, crea sottomissione e tirannia. Anche nella vita civile, anche in tempo di pace.(2)
  Croce senza amore non è solo un libro sull’affermazione del nazismo, è una lucida analisi dei processi che conducono alla nascita delle dittature: processi graduali e semplici, che partono dalla apparente normalità delle vite. Ma proprio lì, nel cuore di quella apparente normalità, segretamente pulsano frustrazioni, inquietudini, delusioni pronte ad essere intercettate da chi avrà interesse a sfruttarle.

1 – H. Böll, Une mémoire allemande, 1978
2 – H. Böll, op. cit.

mercoledì 4 gennaio 2017

BARTLEBY LO SCRIVANO


Bartleby, lo scrivano nato dalla fantasia di Melville, è un mistero, un enigma.
La sua storia si svolge nel cuore pulsante del centro economico d’America, Wall Street. Viene assunto come copista in uno studio legale da un avvocato abbastanza venale, un uomo abituato a comandare con l’attesa, peraltro, di ottenere immediata obbedienza.
H. Melville
Ebbene, con Bartleby si trova di fronte a un muro: ogni sua richiesta rimane sospesa nel vuoto. Bartleby non oppone una netta e rivoluzionaria insubordinazione, il suo è un rifiuto assoluto espresso sottoforma di “preferenza” indefinita e indeterminata. La formula inglese I would prefer not to lascia aperta ogni possibilità; l’espressione conclusiva NOT TO lascia nel vago ciò che Bartleby rifiuta e rende vano ogni tentativo di ridurre alla ragionevolezza il suo incomprensibile comportamento.

C’è, però, una cosa che Bartleby fa con inspiegabile costanza, quasi con insistenza: da una finestra fissa un muro grigio al di fuori dell’ufficio dell’avvocato. Il copista finisce in carcere perché, dopo il trasferimento del suo datore di lavoro presso un altro studio, lui continua ad occupare il vecchio appartamento e i nuovi inquilini che lo hanno acquistato non possono fare altro che affidare questo stravagante uomo all’autorità giudiziaria. L’avvocato dopo aver tentato invano di trovare una dignitosa soluzione alla randagia vita del suo dipendente, va a trovarlo in prigione, dove Bartleby si sta lasciando morire di inedia e gli chiude, con un gesto di pietà, gli occhi quando ormai il copista cessa di vivere, accasciato sul muro del cortile del livido carcere di Tombe. L’avvocato aggiunge una nota a questo triste finale: prima di fare il copista, Bartleby aveva lavorato in un ufficio postale di lettere smarrite.
Che cosa Melville volesse dimostrare con questo strano racconto, non è chiaro. Ci sono, però, alcuni dati che non si possono trascurare: il muro che Bartleby guarda con interesse e le lettere smarrite. Se non avessero senso, Melville non ne avrebbe fatto menzione. Il  muro evoca da sempre l’immagine di un barriera invalicabile che rappresenta un limite tra noi e il resto del mondo. Il muro è quello che c’è tra Bartleby e il resto del mondo: il muro è il rifiuto di Bartleby, è il suo NO all’efficientismo, all’economicismo, all’affarismo del mondo borghese;  il muro è anche quello che il mondo borghese erige per tagliare fuori quelli che non si adattano, gli scarti di una società darwinisticamente organizzata.
In un simile sistema Bartleby è un uomo senza ruolo, senza posto, senza identità: è una lettera smarrita, una fra tante anonime lettere perdute di cui nessuno sa nulla e senza le quali la vita di tutti va avanti comunque.

Un libro pessimista? Certo, si conclude tragicamente, con la morte del protagonista.
Eppure, la stravagante rivoluzione non violenta dell’I would prefer no to ha prodotto un effetto straordinario e inimmaginabile. Bartleby ha compiuto un miracolo. Forse è stato necessario il suo sacrificio, ma Bartleby ha vinto: è riuscito a trasformare l’avvocato in un essere umano, ha cambiato il profilo di un arido professionista, chiuso nel microcosmo della sua lucrosa attività, in quello di un uomo generoso e altruista; ha costretto l’avvocato a fare i conti con l’alterità, a spostare la prospettiva da un egotico cosmo al rapporto con l’altro, alla cura per l’altro, alla preoccupazione per l’altro. E nel mondo competitivo di Wall Street – metafora della società occidentale industrializzata – questo è un prodigio che fa di Bartleby un eroe!