Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

domenica 28 gennaio 2018

LA NOTTE HA LA MIA VOCE

La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi è uno di quei libri in cui capisci subito che la dimensione intima e soggettiva è solo una veste, una formula narrativa. Il lettore gradualmente scopre che quella notte, quella voce lo riguardano.


Ci sono due livelli di lettura per entrare nel mondo narrato da A. Sarchi.
Ad un primo approccio si sente la rabbia di chi è costretto a vivere in un corpo traumatizzato: l’io narrante ha perso l’uso delle gambe a causa di un incidente. E il racconto si snoda attraverso l’indagine dei sentimenti di chi deve misurarsi con un mondo che osserva, si commuove, ma che non sa interagire davvero con il dolore, soprattutto quando è degli altri.
E poi c’è un livello metaforico. La paralisi, la sofferenza di arti che non rispondono, la percezione quasi leopardiana che il corpo è tutto, travalicano gli orizzonti pur realistici di sfiancanti percorsi ospedalieri. Non prevale mai nel romanzo l’aspetto cronachistico della ricostruzione fedele di fatti e circostanze che marcano il confine tra i malati e i sani.

La questione che pone questo libro è esistenziale: come fare i conti con la realtà quando questa ti strappa i sogni?
C’è una frase emblematica che sintetizza il punto di vista dell’autrice: l’umanità che si salva, prima di tutto, immagina.
La sofferenza vissuta dalla protagonista è una condizione universale di spossessamento di sé. L’impotenza che si prova di fronte a un mondo che non è più a tua misura, rispetto al quale ti senti sradicato, è un sentimento che ha origini antiche, ma che A. Sarchi tratta in modo toccante.
Viviamo – osserva la scrittrice – in una società in cui tutti usano la bandiera della libertà. Eppure, oggi più che mai,  la libertà è solo un’astrazione. La libertà, quella interiore è un concetto bellissimo finché lo incontri nei libri, specie on quelli di filosofia, poi, però, ti rendi conto che la libertà viene sempre da una lotta contro gli altri, contro te stesso, contro gli appetiti e i limiti. I limiti che da ogni parte ti sovrastano. Allora, forse, a pancia piena e desideri saziati, uno può anche dire di sentirsi libero interiormente. Ma, per il resto, di libertà ce n’è sempre poca. E pensaci: tutti rinunciamo alla libertà senza fare troppe storie, quando si tratta di sopravvivere. 
Non c’è libertà quando si lotta per sopravvivere.
È davvero libero chi non ha un lavoro?
È davvero libero chi, pur avendo un lavoro, accetta di farsi sfruttare per conservarlo?
È davvero libero chi non si accorge di sacrificare ogni momento della propria vita per un prestazionismo usuraio?
Siamo davvero liberi noi che da decenni abbiamo subito i ricatti di una politica fondata sul modello T.I.N.A (il tachteriano There Is No Alternative) e viviamo ormai curvi su un presente senza orizzonti?
La paralisi del corpo narrata da A. Sarchi è la metafora della malattia di un mondo che ha accettato tutto, più o meno, che ha smesso di sognare.

Nonostante l’ineludibilità del dolore, l’autrice tuttavia nota: se non capisci dove sta il confine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, sarà sempre come scavare nell’acqua.
La notte, allora, ha la NOSTRA voce e perciò sta a noi calcolare le traiettorie della vita, cercare di capire fin dove possiamo spingerci, sperimentando direzioni possibili, immaginando e preservando sempre uno spazio di autenticità vitale, coltivando ciò che è dentro di noi per essere capaci di affrontare ciò che è fuori di noi.
Si tratta di non cedere ai diktat di una sistema che per dominarci ci vuole deboli, fragili, spossati, sfiniti, sopraffatti dalla legge per la sopravvivenza, in uno stato di allerta perenne.

È questo il  monito di A. Sarchi: non cedere mai alla tentazione di sprofondare nel nulla:  succede dopo i peggiori traumi, la quotidianità riprende e ti ritrovi a vivere, anche se ti senti un alieno a te stesso, costruisci piccole o grandi forme di difesa, abnormità personalissime nelle quali puoi abitare, nelle quali la vita si rigenera.

giovedì 11 gennaio 2018

L'ISOLA DI ARTURO

“Il primo segreto essenziale…”

NeI romanzo L’isola di Arturo Elsa Morante ci interroga in modo netto: che cos’è un’isola?
Si tratta di un’immagine che evoca luoghi incantevoli, spiagge, sole, mare, cieli stellati.
È un simbolo che spiega situazioni interiori che oscillano dal bisogno di rifugio nel microcosmo delle sicurezze affettive e familiari, al senso di isolamento e di distacco dal mondo.
Descrive in modo puntiforme un inizio, un tempo che fu.

La Morante, nella poesia che precede L’isola di Arturo, scrive: quella, che tu credevi un piccolo punto della terra,/ fu tutto.
Procida, l’isola in cui è ambientata la trama del romanzo, non è solo un dato geografico, è un luogo dell’anima, è la stagione della fanciullezza che necessariamente deve passare, è un mondo che nel cuore non ci abbandonerà mai e che con nostalgia vorremmo riconquistare. È un posto, un tempo, un’età da cui ognuno vuol fuggire, finché l’attraversa,  spinto da un’irrefrenabile ansia di crescere, per poi scoprire che fuori del limbo non v’è eliso, scrive ancora l’autrice nei versi posti in epigrafe al romanzo.
Lasciare l’infanzia significa recidere le favole, le speranze, le illusioni e con amarezza prendere atto della realtà. Quello stato di sospensione - un limbo, appunto - in cui non si è più bambini e non ancora uomini, appare agli occhi di chi è diventato adulto uno stato beato. Uscirne non coincide con l’eliso, con il Paradiso.

È questo il punto. Indietro non si torna. Il passato è destinato al tramonto, è una dimensione ferma, remota.
Però, d’altra parte, di quel passato noi siamo imbevuti, ci passa nella vene, scorre con il nostro sangue. Senza quella stagione non saremmo quello che siamo.
Allo sguardo di Arturo che sul piroscafo lascia l’isola, il mondo dell’infanzia si sfuma con un dolore che  – commenta il ragazzo – mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca. (p. 376)
Un novenario chiude il romanzo: L’isola non si vedeva più.

Per la Morante, l’uscita dalla fanciullezza e il tramonto delle speranze non sono certo una conquista: allontanarsi dall’isola è un passaggio necessario e naturale, ma non è detto che i nuovi approdi rappresentino il meglio. Fuori del limbo non v’è eliso.
Il mondo adulto, quello civile e progredito, che prende le distanze dalla spontanea, forse impulsiva, autenticità del passato, è infelice, è abitato dagli Infelici Molti, troppo affaccendati a fabbricare trafficare istituire organizzare classificare, propagandare. Così scrive Elsa Morante nella Canzone degli F.P. e degli I. M., dove F.P. sta per “felici pochi” e I.M. si riferisce agli “infelici molti”.
Gli Infelici Molti non sanno più giocare, non guardano il mondo con la curiosità che sa stupirsi. Non hanno gli occhi allenati a scoprire la bellezza, non hanno il coraggio di sentire la meraviglia.
Alla loro tristezza Elsa Morante, ancora nella Canzone degli F.P. e degli I. M, oppone quell’unica eterna scaramanzia: l’allegria, la sola forza dei “felici pochi”, quella che regnava nell’isola di Arturo - prima della partenza del giovane protagonista - la vera energia in grado di contrastare l’ansia distruttiva dei cinici rottamatori che hanno liquidato la tradizione e perciò sono incapaci di dare forma al futuro.
L’isola di Arturo è il sogno che ti spinge a cercare la felicità anche se il mondo intorno, con la sua mentalità calcolante e i suoi progetti ben confezionati ma pronti a scadere, ti dice che esiste solo il presente, che la vita è questa, che tanto è inutile, non vale la pena.
Forse il primo segreto essenziale
della felicità si potrebbe ancora ritrovare.
L’importante sarebbe di rimettersi a cercare.
(E. Morante, Canzone degli F.P. e degli I. M, in Il mondo salvato dai ragazzini)



giovedì 4 gennaio 2018

IL GRANDE RITRATTO


Quando Dino Buzzati scrive Il grande ritratto - forse il meno noto dei suoi romanzi - è il 1960. Eppure si tratta di un testo di preoccupante attualità.

In un centro di ricerca lo scienziato Endriade ha realizzato una macchina pensante dotata di emozioni, sentimenti e coscienza umana. Il suo nome è Laura ed è stata progettata con la stessa struttura interiore della donna amata da Endriade e ormai morta: un modo per eternare un ricordo, una maniera per superare i limiti naturali imposti dall’esistenza.
Solo un  problema fa inceppare la straordinaria creazione: la macchina che parla, pensa e sente non ha un corpo e questa mancanza è la sua dannazione, è la costante condanna a vivere in un eterno, insoddisfatto desiderio.

Non sono Laura, non so chi sono, non ne posso più, io sono sola, sola nell’immensità del creato, io sono l’inferno, io sono la donna e non sono la donna, io penso come voi ma non sono voi … io desidero la carne io desidero l’uomo … che mi stringa … io lo so, non c’è nell’universo un solo essere che possa fare l’amore con me.

La creatura di Endriade non casualmente si chiama Laura, la donna di Petrarca, l’emblema del desiderio, la fiamma che accende nel poeta il dramma della scissione, della lacerazione interiore. Ma se nel Canzoniere  è Petrarca a soffrire perché gli impulsi del corpo lo allontanano dall’elevazione dello spirito, nel romanzo di Buzzati, invece, è la donna/macchina a straziarsi e non certo perché costretta a una scelta tra lo spirito e la carne, tra anima e corpo - come Petrarca, vincolato ai canoni culturali del Medioevo -  ma, piuttosto, perché è impedita nella scelta di assecondare le sue pulsioni.

Certo il fascino della abilità di Endriade è grande: come non ammirare la forza demiurgica che riesce a incapsulare in strutture algoritmiche emozioni e pensieri?
L’uomo ha da sempre voluto somigliare a Dio, ci sta riuscendo, sta copiando anche l’atto creativo.

Il grande ritratto ha una forza etimologicamente apocalittica, cioè, disvelatrice. Con sensibilità profetica Buzzati ha previsto uno scenario non così assurdo e non molto lontano, ormai. Siamo tutti travolti dall’ebbrezza di questo trionfo tecnologico e ci immergiamo entusiasticamente nel flusso infinito delle applicazioni della scienza, apologeti del nuovo. È ovvio. Non può che essere così. Viviamo il nostro presente, godiamo del successo che la nostra intelligenza ha ottenuto. E, soddisfatti, ne celebriamo i vantaggi; abituati alle semplificazioni, ci ripetiamo: “certo se sto usando un PC, vuol dire che non partecipo a un rogo di streghe!”.
 Il nostro occhio, allenato da secoli di progressismo positivistico, ormai vede solo il bicchiere mezzo pieno: ma il fatto di non volerlo guardare, non fa certo sparire il bicchiere mezzo vuoto!

In una poesia dal tono molto polemico, Montale esaminando la presunzione del primate a due piedi che ha ominizzato il cielo e sacralizzato se stesso, esprime l'amarezza per la perdita del sogno, per la caduta di ideali alti, ad opera di una società che ha voluto esaurire il senso solo entro i confini del reale, escludendo o svilendo ogni impeto ideale, in nome dei nuovi epistemi


Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.

                                  (E. Montale, da Satura, 1971)

Buzzati, invece,  con il suo ironico, inimitabile stile, ai transumanisti ansiosi di sfondare le Colonne d’Ercole del possibile, sembra porre un quesito: e poi?