Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

domenica 28 gennaio 2018

LA NOTTE HA LA MIA VOCE

La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi è uno di quei libri in cui capisci subito che la dimensione intima e soggettiva è solo una veste, una formula narrativa. Il lettore gradualmente scopre che quella notte, quella voce lo riguardano.


Ci sono due livelli di lettura per entrare nel mondo narrato da A. Sarchi.
Ad un primo approccio si sente la rabbia di chi è costretto a vivere in un corpo traumatizzato: l’io narrante ha perso l’uso delle gambe a causa di un incidente. E il racconto si snoda attraverso l’indagine dei sentimenti di chi deve misurarsi con un mondo che osserva, si commuove, ma che non sa interagire davvero con il dolore, soprattutto quando è degli altri.
E poi c’è un livello metaforico. La paralisi, la sofferenza di arti che non rispondono, la percezione quasi leopardiana che il corpo è tutto, travalicano gli orizzonti pur realistici di sfiancanti percorsi ospedalieri. Non prevale mai nel romanzo l’aspetto cronachistico della ricostruzione fedele di fatti e circostanze che marcano il confine tra i malati e i sani.

La questione che pone questo libro è esistenziale: come fare i conti con la realtà quando questa ti strappa i sogni?
C’è una frase emblematica che sintetizza il punto di vista dell’autrice: l’umanità che si salva, prima di tutto, immagina.
La sofferenza vissuta dalla protagonista è una condizione universale di spossessamento di sé. L’impotenza che si prova di fronte a un mondo che non è più a tua misura, rispetto al quale ti senti sradicato, è un sentimento che ha origini antiche, ma che A. Sarchi tratta in modo toccante.
Viviamo – osserva la scrittrice – in una società in cui tutti usano la bandiera della libertà. Eppure, oggi più che mai,  la libertà è solo un’astrazione. La libertà, quella interiore è un concetto bellissimo finché lo incontri nei libri, specie on quelli di filosofia, poi, però, ti rendi conto che la libertà viene sempre da una lotta contro gli altri, contro te stesso, contro gli appetiti e i limiti. I limiti che da ogni parte ti sovrastano. Allora, forse, a pancia piena e desideri saziati, uno può anche dire di sentirsi libero interiormente. Ma, per il resto, di libertà ce n’è sempre poca. E pensaci: tutti rinunciamo alla libertà senza fare troppe storie, quando si tratta di sopravvivere. 
Non c’è libertà quando si lotta per sopravvivere.
È davvero libero chi non ha un lavoro?
È davvero libero chi, pur avendo un lavoro, accetta di farsi sfruttare per conservarlo?
È davvero libero chi non si accorge di sacrificare ogni momento della propria vita per un prestazionismo usuraio?
Siamo davvero liberi noi che da decenni abbiamo subito i ricatti di una politica fondata sul modello T.I.N.A (il tachteriano There Is No Alternative) e viviamo ormai curvi su un presente senza orizzonti?
La paralisi del corpo narrata da A. Sarchi è la metafora della malattia di un mondo che ha accettato tutto, più o meno, che ha smesso di sognare.

Nonostante l’ineludibilità del dolore, l’autrice tuttavia nota: se non capisci dove sta il confine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, sarà sempre come scavare nell’acqua.
La notte, allora, ha la NOSTRA voce e perciò sta a noi calcolare le traiettorie della vita, cercare di capire fin dove possiamo spingerci, sperimentando direzioni possibili, immaginando e preservando sempre uno spazio di autenticità vitale, coltivando ciò che è dentro di noi per essere capaci di affrontare ciò che è fuori di noi.
Si tratta di non cedere ai diktat di una sistema che per dominarci ci vuole deboli, fragili, spossati, sfiniti, sopraffatti dalla legge per la sopravvivenza, in uno stato di allerta perenne.

È questo il  monito di A. Sarchi: non cedere mai alla tentazione di sprofondare nel nulla:  succede dopo i peggiori traumi, la quotidianità riprende e ti ritrovi a vivere, anche se ti senti un alieno a te stesso, costruisci piccole o grandi forme di difesa, abnormità personalissime nelle quali puoi abitare, nelle quali la vita si rigenera.

giovedì 11 gennaio 2018

L'ISOLA DI ARTURO

“Il primo segreto essenziale…”

NeI romanzo L’isola di Arturo Elsa Morante ci interroga in modo netto: che cos’è un’isola?
Si tratta di un’immagine che evoca luoghi incantevoli, spiagge, sole, mare, cieli stellati.
È un simbolo che spiega situazioni interiori che oscillano dal bisogno di rifugio nel microcosmo delle sicurezze affettive e familiari, al senso di isolamento e di distacco dal mondo.
Descrive in modo puntiforme un inizio, un tempo che fu.

La Morante, nella poesia che precede L’isola di Arturo, scrive: quella, che tu credevi un piccolo punto della terra,/ fu tutto.
Procida, l’isola in cui è ambientata la trama del romanzo, non è solo un dato geografico, è un luogo dell’anima, è la stagione della fanciullezza che necessariamente deve passare, è un mondo che nel cuore non ci abbandonerà mai e che con nostalgia vorremmo riconquistare. È un posto, un tempo, un’età da cui ognuno vuol fuggire, finché l’attraversa,  spinto da un’irrefrenabile ansia di crescere, per poi scoprire che fuori del limbo non v’è eliso, scrive ancora l’autrice nei versi posti in epigrafe al romanzo.
Lasciare l’infanzia significa recidere le favole, le speranze, le illusioni e con amarezza prendere atto della realtà. Quello stato di sospensione - un limbo, appunto - in cui non si è più bambini e non ancora uomini, appare agli occhi di chi è diventato adulto uno stato beato. Uscirne non coincide con l’eliso, con il Paradiso.

È questo il punto. Indietro non si torna. Il passato è destinato al tramonto, è una dimensione ferma, remota.
Però, d’altra parte, di quel passato noi siamo imbevuti, ci passa nella vene, scorre con il nostro sangue. Senza quella stagione non saremmo quello che siamo.
Allo sguardo di Arturo che sul piroscafo lascia l’isola, il mondo dell’infanzia si sfuma con un dolore che  – commenta il ragazzo – mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca. (p. 376)
Un novenario chiude il romanzo: L’isola non si vedeva più.

Per la Morante, l’uscita dalla fanciullezza e il tramonto delle speranze non sono certo una conquista: allontanarsi dall’isola è un passaggio necessario e naturale, ma non è detto che i nuovi approdi rappresentino il meglio. Fuori del limbo non v’è eliso.
Il mondo adulto, quello civile e progredito, che prende le distanze dalla spontanea, forse impulsiva, autenticità del passato, è infelice, è abitato dagli Infelici Molti, troppo affaccendati a fabbricare trafficare istituire organizzare classificare, propagandare. Così scrive Elsa Morante nella Canzone degli F.P. e degli I. M., dove F.P. sta per “felici pochi” e I.M. si riferisce agli “infelici molti”.
Gli Infelici Molti non sanno più giocare, non guardano il mondo con la curiosità che sa stupirsi. Non hanno gli occhi allenati a scoprire la bellezza, non hanno il coraggio di sentire la meraviglia.
Alla loro tristezza Elsa Morante, ancora nella Canzone degli F.P. e degli I. M, oppone quell’unica eterna scaramanzia: l’allegria, la sola forza dei “felici pochi”, quella che regnava nell’isola di Arturo - prima della partenza del giovane protagonista - la vera energia in grado di contrastare l’ansia distruttiva dei cinici rottamatori che hanno liquidato la tradizione e perciò sono incapaci di dare forma al futuro.
L’isola di Arturo è il sogno che ti spinge a cercare la felicità anche se il mondo intorno, con la sua mentalità calcolante e i suoi progetti ben confezionati ma pronti a scadere, ti dice che esiste solo il presente, che la vita è questa, che tanto è inutile, non vale la pena.
Forse il primo segreto essenziale
della felicità si potrebbe ancora ritrovare.
L’importante sarebbe di rimettersi a cercare.
(E. Morante, Canzone degli F.P. e degli I. M, in Il mondo salvato dai ragazzini)



giovedì 4 gennaio 2018

IL GRANDE RITRATTO


Quando Dino Buzzati scrive Il grande ritratto - forse il meno noto dei suoi romanzi - è il 1960. Eppure si tratta di un testo di preoccupante attualità.

In un centro di ricerca lo scienziato Endriade ha realizzato una macchina pensante dotata di emozioni, sentimenti e coscienza umana. Il suo nome è Laura ed è stata progettata con la stessa struttura interiore della donna amata da Endriade e ormai morta: un modo per eternare un ricordo, una maniera per superare i limiti naturali imposti dall’esistenza.
Solo un  problema fa inceppare la straordinaria creazione: la macchina che parla, pensa e sente non ha un corpo e questa mancanza è la sua dannazione, è la costante condanna a vivere in un eterno, insoddisfatto desiderio.

Non sono Laura, non so chi sono, non ne posso più, io sono sola, sola nell’immensità del creato, io sono l’inferno, io sono la donna e non sono la donna, io penso come voi ma non sono voi … io desidero la carne io desidero l’uomo … che mi stringa … io lo so, non c’è nell’universo un solo essere che possa fare l’amore con me.

La creatura di Endriade non casualmente si chiama Laura, la donna di Petrarca, l’emblema del desiderio, la fiamma che accende nel poeta il dramma della scissione, della lacerazione interiore. Ma se nel Canzoniere  è Petrarca a soffrire perché gli impulsi del corpo lo allontanano dall’elevazione dello spirito, nel romanzo di Buzzati, invece, è la donna/macchina a straziarsi e non certo perché costretta a una scelta tra lo spirito e la carne, tra anima e corpo - come Petrarca, vincolato ai canoni culturali del Medioevo -  ma, piuttosto, perché è impedita nella scelta di assecondare le sue pulsioni.

Certo il fascino della abilità di Endriade è grande: come non ammirare la forza demiurgica che riesce a incapsulare in strutture algoritmiche emozioni e pensieri?
L’uomo ha da sempre voluto somigliare a Dio, ci sta riuscendo, sta copiando anche l’atto creativo.

Il grande ritratto ha una forza etimologicamente apocalittica, cioè, disvelatrice. Con sensibilità profetica Buzzati ha previsto uno scenario non così assurdo e non molto lontano, ormai. Siamo tutti travolti dall’ebbrezza di questo trionfo tecnologico e ci immergiamo entusiasticamente nel flusso infinito delle applicazioni della scienza, apologeti del nuovo. È ovvio. Non può che essere così. Viviamo il nostro presente, godiamo del successo che la nostra intelligenza ha ottenuto. E, soddisfatti, ne celebriamo i vantaggi; abituati alle semplificazioni, ci ripetiamo: “certo se sto usando un PC, vuol dire che non partecipo a un rogo di streghe!”.
 Il nostro occhio, allenato da secoli di progressismo positivistico, ormai vede solo il bicchiere mezzo pieno: ma il fatto di non volerlo guardare, non fa certo sparire il bicchiere mezzo vuoto!

In una poesia dal tono molto polemico, Montale esaminando la presunzione del primate a due piedi che ha ominizzato il cielo e sacralizzato se stesso, esprime l'amarezza per la perdita del sogno, per la caduta di ideali alti, ad opera di una società che ha voluto esaurire il senso solo entro i confini del reale, escludendo o svilendo ogni impeto ideale, in nome dei nuovi epistemi


Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.

                                  (E. Montale, da Satura, 1971)

Buzzati, invece,  con il suo ironico, inimitabile stile, ai transumanisti ansiosi di sfondare le Colonne d’Ercole del possibile, sembra porre un quesito: e poi?


domenica 17 dicembre 2017

MOBILITAZIONE TOTALE

Computer, smartphone, tablet: Maurizio Ferraris, nel suo piacevole saggio "Mobilitazione totale", li chiama ARMI, acronimo per Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità. Un messaggio whatsapp, una e-mail notturna sono un diktat che obbliga moralmente a una risposta: la doppia spunta azzurra su whatsapp rivela che il destinatario ha letto il messaggio e a questo punto rispondere è doveroso.
Si tratta di una vera e propria chiamata alle ARMI, ne consegue una mobilitazione quasi militare: milioni di utenti si trasformano in militi pronti a rispondere al comando. È un nuovo imperativo categorico quello che mi spinge a rispondere a qualunque ora del giorno o della notte a un messaggio whatsapp o a una mail di lavoro che turba la mia quiete domestica e, senza più distinzione tra pubblico e privato, io sono travolto dall’indistinto magma del flusso dei comandi digitali.
Se pensiamo alla dimensione del lavoro – perché le mail più inquietanti sono proprio quelle dei datori di lavoro che come abili stalker disturbano la vita quotidiana, obbligando a forme di attenzione del tutto extracontrattuali -  va detto che ogni tipo di risposta, più o meno articolata, ha luogo fuori dall’orario di servizio, non è contabilizzata come lavoro, non è retribuita. È la nuova frontiera dello sfruttamento: la dilatazione spazio-temporale senza limiti della propria prestazione.
Lo scenario si aggrava se, poi, si considera che le operazioni svolte a titolo gratuito, le interazioni sui social  network generano un plusvalore assoluto. I mobilitati (gli inconsapevoli utenti) mettono, infatti, costantemente a disposizione il loro lavoro (ore di connessione per rispondere a mail, post, messaggi) e mezzi di produzione (computer, contratti con gestori telefonici, energia elettrica, cavi di connessione) e l’apparato tecnologico trae vantaggi economici (pubblicità sui social media, l’accumulo archiviale di dati degli utenti, una base sconfinata di conoscenza).
E Ferraris sottolinea che non basta voler restare “sconnessi”, non è sufficiente la volontà: l’intenzionalità è condizionata irrimediabilmente da sollecitazioni esterne, da imposizioni sociali che annientano l’umanità. Siamo di fronte al tramonto definitivo del socratismo come primato della coscienza e del kantismo come autonomia morale: Ferraris nota che è in atto il primato del sociale, della sollecitazione esterna. Insomma, sulla nostra azione prevale la “chiamata” esterna piuttosto che la spinta interiore. Come in una mobilitazione militare, agiamo anche se non vogliamo, ci sentiamo responsabilizzati, obbligati a rispondere a un messaggio/mail, anche nel cuore della notte di un magico weekend.
Ne deriva un a vera e propria “sociodipendenza”, aggravata dal fatto che il web non solo mobilita richiedendo una risposta alla chiamata, ma, soprattutto, registra: ciò che è impresso sul web è un documento indelebile, una memoria incancellabile, certo, frammentata e confusa, acritica e non storicizzabile nel mare magnum dei dati che i nuovi media collezionano; ma c’è, resta.
Ebbene, la chiamata alle ARMI e le infinite registrazioni di dati che danno vita a un apparato potentissimo che sa tutto di noi e di cui noi, invece, ignoriamo ogni cosa, ci condizionano: a livello intenzionale, perché, in fondo, comunque, rispondiamo; a livello economico, perché mettiamo a disposizione il nostro lavoro, la nostra energia elettrica, il nostro computer, il nostro tablet; a livello antropologico, perché, siamo dipendenti, ormai, dal web, per studiare, lavorare, comprare; a livello psicologico, perché l’intenzionalità della nostra azione è fortemente eterodiretta.
La soluzione che propone Ferraris a questo stato di cose è, però, piuttosto riduttiva e semplicistica rispetto ai tratti profondamente critici della sua analisi. Il web è per lui, comunque, un progresso, basta solo umanizzarlo e usarlo come strumento di diffusione culturale. Il web è la traccia definitiva di una società alfabetizzata, che è sempre meglio di una società analfabeta: in fondo, con tono ironico e volto a minimizzare il problema, Ferraris nota che se rispondiamo a qualche mail nel cuore della notte interrompendo il nostro sonno, è perché non stiamo partecipando a un rogo di streghe!
Insomma, come dire: adattiamoci all’irreversibilità del progresso.
Verga la definiva la “fiumana del progresso”: un’ondata irrefrenabile che, sì, certamente giunge a riva, ma travolge: Verga lo sapeva. E noi?
La conseguenza più grave di questa realtà è la dilatazione estrema e senza confini dello spazio digitale in cui lo spirito soggettivo incontra solo se stesso. Nelle antiche guerre le ARMI uccidevano l’altro, che però, se era fortunato, poteva difendersi e sopravvivere; ora le reti digitali aprono uno scenario nuovo e irreversibile: “l’espulsione dell’altro”. E nel regno della solitudine che il progresso tecnologico ha abilmente costruito, Windows è una finestra senza sguardo. (Byung-Chul Han, L’espulsione dell’altro).

sabato 9 dicembre 2017

L'INNOMINABILE ATTUALE

ROBERTO CALASSO, L'INNOMINABILE ATTUALE

L'età contemporanea è lo scenario di una mutazione antropologica: il passaggio dall'homo sapiens all'homo saecularis, che ha sostituito la conoscenza con l'informazione e ha espulso dai suoi orizzonti esistenziali il senso del divino; ha sacralizzato la società stessa, diventata l'ultimo quadro di riferimento per ogni significato.
La società - nota Calasso - ha perso la capacità di guardare oltre se stessa e ha dato vita al culto di sé: il culto della società divinizzata.
L'autore si chiede, tuttavia, se davvero il soggetto secolare riesca ad appagarsi della cancellazione dell'invisibile e in che modo, dunque, possa placare quell'ansia di ricerca verso la realizzazione di un ordine del mondo, che è il fine ultimo di ogni istanza religiosa.
Secondo Calasso la soluzione è venuta dalla "religione dei dati", quelli non estorti da poteri politici totalitari, ma spontaneamente forniti dal basso ad opera di innumerevoli individui. E questa è, a ben guardare, una nuova maniera per esercitare il controllo sulle coscienze, più forte di ogni Chiesa, più capillare di qualsiasi forza politica, di qualunque forma di controllo sociale. Ogni dato è registrato, tutto è digitabile e, perciò, manipolabile.
Come ogni religione, anche il culto della società divinizzata ha i suoi fondamenti, i suoi precetti, le sue norme: per l'homo saecularis la normalità ha preso il posto della norma.
In effetti, ciò spiegherebbe, l'ansia di normalizzazione che oggi tende a diluire ogni forma di diversità, dai matrimoni gay, all'omologazione dei canoni di bellezza ottenuti tramite la chirurgia estrema, all'uniformità delle mode.
E se la religione è fatta di riti, così l'homo saecularis ha le sue procedure, che hanno sostituito i rituali, solo che vanno nella direzione opposta a questi ultimi. Il rituale apre la coscienza al mistero della fede, che, per esempio, nel Cristianesimo, culmina nella transustansazione. Invece la procedura abbatte ogni fede, tende al totale automatismo di atti meccanici di registrazione finalizzati a operazioni informatiche, bancarie, scolastiche che fanno capo sempre e comunque al Big Data.
Se si abbatte il senso religioso, però, che cosa resta dell'umano bisogno di spiritualità?
Calasso individua due fenomeni in atto: proliferano le sette e cresce la dedizione a un ente non trascendente, ma genericamente definito come "umanità", di cui l'homo saecularis auspica la perenne prosperità. Si tratta di un culto in grado di accogliere indistintamente tutte le religioni e sette di ogni genere, perché si è sbarazzato della fede nel senso tradizionale del termine, ciò come attenzione rivolta a un'entità trascendente. Oggi la sola fede ammessa dall'homo saecularis è quella nella scienza e nei suoi strumenti tecnologici: le altre religioni sono solo un fenomeno sociale come tanti altri e perciò tali da essere incorporate e inglobate nel più ampio culto della società divinizzata. E il rituale di questa religione secolarizzata è la ripetizione che ribadisce l'esistente: pubblicità che si insinua in modo martellante nel mondo psichico degli individui, autoesposizione spontanea e reiterata sui social media.
E se le antiche religioni si costruivano anche attorno a viaggi redentivi compiuti da devoti pellegrini, oggi il secolarismo ha i suoi turisti che si muovono nel mare magnum del cyberspazio, navigano in rete, percorrono una realtà aumentata.
E la nuova Bibbia, il testo sacro del secolarismo, è il digitale/digitabile. Tutto ciò che è digitabile, infatti, diventa digitale: si tratta di una dimensione iperenciclopedica, che contiene tutto, è un caos algoritmico che mescola informazioni veritiere a informazioni infondate. Il sapere perde prestigio a favore di un'infinita disponibilità informatica di dati. I Big Data amministrano coloro da cui hanno avuto origine, mescolano e rielaborano i dati che noi abbiamo spontaneamente fornito, un immenso materiale cui si applica il gioco combinatorio dell'algoritmo.
Cè, tuttavia, in questo processo, l'illusione della libertà: si chiama disintermediazione e consiste nell'impressione di agire in prima persona senza il fastidio di ricorrere a intermediari. Questo odio per la mediazione ci spinge ad agire da soli per prenotare una camera d'albergo e il biglietto per un viaggio o a vagheggiare una democrazia diretta, meglio se fondata sull'infatuazione informatica, che abbatte ogni passaggio, ogni mediazione, ogni attesa.
E la coscienza? Quale posto occupa la coscienza nel pensiero dei transumanisti, il cui approdo finale è la Singularity di Ray Kurzweil?
L'homo saecularis è transumanista perché affida alla tecnologia quell'ansia religiosa che però ha espulso dalla sua storia e perché tende verso il superamento dei confini della natura umana. La sua è la religione del Dataismo. Con un abile gioco di parole Calasso delinea la sostituzione del Dadaismo - dirompente movimento avanguardistico del Novecento che predicava la sconnessione universale e l'abrasione di ogni significato - con il Dataismo che vuole, invece, la connessione coatta di ogni individuo trasformato in soldatino agli ordini di un fantomatico Stato Maggiore non meglio identificato  se non come Big Data.
Il senso è questo: registriamo e connettiamo la nostra esperienza al grande flusso di dati e gli algoritmi scopriranno il suo significato e ci diranno cosa fare.
E questo processo investirà anche la dimensione dei valori, dunque, della coscienza.
Si arriverà al punto in cui l'intelligenza artificiale sarà human compatible: attraverso un allineamento di valori la macchina/robot diventerà altruistica. Il robot diventerà superintelligente e capace di orientarsi tra i valori umani grazie a un sistema infallibile: LEGGENDO  tutto ciò che la razza umana ha scritto e da cui sgorga il succo dei valori.
Questo è il punto di arrivo: Singularity, una teologia secolarizzata, che si risolve tutta dentro la società, procede attraverso i mezzi tecnologici, ha fede solo nell'umanità, attribuisce alle macchine anche il complesso dei valori umani, ma non sa che farsene di principi come grazia  e libero arbitrio.

Gli scrittori hanno doti profetiche.
Come Baudelaire nel suo sogno visionario aveva previsto il crollo di un'immensa torre che poi la storia ha tragicamente conosciuto in forma persino raddoppiata, in quel famigerato 11 settembre 2001, così Calasso profetizza apocalitticamente, in un futuro non troppo lontano, la fine della società umana, l'unica in grado di autodistruggersi, paradossalmente in nome della religione del progresso e della felicità.



giovedì 21 settembre 2017

PAPAVERI ROSSI

Giuseppe Messina, Papaveri rossi. Il soffio caldo del favonio, Kimerik, 2016



A  meno che non si tratti dell’Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, l’autobiografia è un genere che presenta ardue difficoltà per chi voglia affrontarlo. Casanova riusciva ad attrarre il lettore con i particolari pruriginosi di una mitografia di sé costruita nei termini esemplari di un riuscito e coerente progetto di vita libertino, edonistico e consumato all’insegna del desiderio. Ma un buon padre di famiglia a quali espedienti narrativi deve ricorrere per incuriosire i suoi lettori?

La principale strategia che Messina usa è l’affabulazione.
L’autore prende le mosse da un paradigma letterario nobile, Pasolini, e, precisamente, decide di riferirsi ad un suo testo dal titolo emblematico, appunto, Affabulazione. Non è qui importante il contenuto, dell’opera pasoliniana certamente di ispirazione autobiografica (al centro del suo dramma Pasolini pone il controverso rapporto con la figura del padre), quanto, piuttosto il senso stesso dell’affabulazione in sé.
In excipit della tragedia di Pasolini, in un dialogo tra il personaggio del Padre e un’enigmatica presenza - che forse c’è o probabilmente è solo frutto dell’immaginazione del personaggio – il Padre rivolgendosi al suo interlocutore e riferendosi alla complicata storia con il figlio, dice: come tu hai ben capito, questa non è la storia di un solo padre.
Ebbene,  Papaveri rossi non è solo la storia di Giuseppe Messina.
Un’opera d’arte si riconosce dalla forza universalizzante che emana.
Uno dei rischi maggiori di un libro autobiografico consiste nel fatto che esso riguarda l’esperienza personale del narratore/autore e non è detto che questa riesca a suscitare l’interesse dei lettori, oggi, in particolare, sollecitati da una serie di storie e fatti cui il web dà immediata e ampia diffusione.
Occorre, dunque, riflettere sul significato dell’affabulazione: si tratta della capacità di rendere universale ciò che si narra; “affabulare” significa fare in modo che il lettore si senta chiamato in causa, e percepisca che quanto è scritto lo riguarda: mutato nomine de te fabula  narratur, diceva Orazio[1].
Ancora in Affabulazione, il personaggio pasoliniano del Padre si chiede: che cos’è un’epoca? Messina risponde chiaramente a questo interrogativo: un’epoca è un tempo destinato a finire, un’epoca è una stagione che passa. E per questo bisogna narrarla, immortalarla, perché l’uomo non dimentichi, scrive Giuseppe Messina. Questo è l’alto mandato della letteratura: uno scritto, un romanzo, un libro è un monumentum, un’opera, cioè, destinata a sfidare le stagioni, il tempo che passa.
Un monumento MANET, resta per sempre.
Un monumento MONET, ammonisce, ti mostra un cammino, ti dice che cosa stai perdendo e che cosa dovresti conservare, per rimanere te stesso, anche se il mondo intorno a te cambia freneticamente.
Un monumento perpetua il ricordo del passato, lo rende meno lontano. Per i Greci, le Muse, le dee dell’arte e della poesia, erano figlie di Mnemosyne, la Memoria divinizzata, e nella radice del termine monumentum c’è il verbo memini “io ricordo”.
E l’atto del ricordare è un lento e accurato riesame della propria vita; non vuol dire abbandonarsi a semplici rievocazioni nostalgiche, a vaghe memorie, ma implica una selezione attenta di ciò che ha contato davvero ed è rimasto nel cuore, come suggerisce l’etimologia della parola “ricordo”,  (da  “cor, cordis”, cuore).
 A questo proposito, annota Messina: fra qualche anno toccherà ai nostri figli e ai nostri nipoti rammentare gli anni migliori con i propri ricordi: dei nostri resteranno quelli che avremo saputo trasmettergli. (p. 138)
In Papaveri rossi appare chiaro che la capacità di affabulare acquista anche un carattere sociale e civile. Narrare, si è detto, significa custodire la memoria individuale e collettiva: si tratta di un messaggio profondo e incisivo,  di un’impresa davvero coraggiosa, in un’epoca, come la nostra, fatta, invece, di facili rottamazioni del passato.
Sin dalla dedica iniziale Messina istituisce un rapporto privilegiato con il lettore e, immaginandolo, cerca le parole più precise per rendere concreto e plastico il racconto di una vita che si snoda attraverso vicende, incontri ed emozioni intense.
Scrivere è come parlare: presuppone che qualcun altro legga o ascolti. È innegabile: chi scrive non lo fa mai solo per se stesso, vuole, piuttosto lasciare un segno che resti al di là del breve spazio che gli è concesso nell’esistenza. Possidio, alla fine della sua biografia di S. Agostino riporta un interessante epigramma, che spiega bene l’aspirazione di ogni scrittore a proiettarsi oltre i limiti cronologici in cui si trova a vivere: Vuoi sapere, viandante, se il poeta vive dopo la morte? Tu leggi, ed ecco io parlo: la tua voce è la mia.
Papaveri rossi  va, quindi, letto anche in questa prospettiva: si tratta di un libro che vuole immortalare un’epoca, lasciare un messaggio e consentire al suo autore di sfidare il tempo.
Messina precisa, però, che affabulare vuol dire anche saper affascinare, procedere, cioè, non per ricostruzioni memorialistiche o documentaristiche, ma escogitare modi per sedurre il lettore, nel senso etimologico di se-ducere, portarlo cioè, verso un altrove che lo catturi e lo allontani dalla una routine abitudinaria: non è questo il potere della letteratura?
Quindi, affabulare equivale a universalizzare la propria storia e a sedurre con la parola.



Una seconda strategia narrativa che rende Papaveri rossi un’autobiografia interessante - nel senso, ancora una volta etimologico del termine, che fa riferimento a un testo in cui il lettore abbia l’impressione di inter- esse, di starci in mezzo, al punto da sentirsi coinvolto nei fatti narrati e nelle emozioni evocate – è il realismo come forma di innamoramento.
Spesso, ingenuamente, - spiega Walter Siti nel suo saggio Il realismo è l’impossibile[2] - si crede che l’approccio realista in letteratura sia il “copia e incolla” di un frammento di realtà: quanto più un libro è verosimile, tanto più è ritenuto realista.
Invece il realismo vero non è affatto mimesi del reale, non si limita a documentare; lo scrittore realista non è certo un copista, deve essere capace di disvelare un mondo che non  è ovvio; deve essere in grado di sfidare il mondo; deve saper estrarre da una scena di vita, da un dettaglio, dalle cose, dai fatti che accadono, il volto di un’epoca, il senso della vita, sottraendo quei dettagli dal flusso indistinto della consuetudine e rendendoli esemplari.
Lo scrittore realista deve amare a tal punto i particolari che cattura dalla realtà da renderli il filtro prospettico di una visione del mondo. E quando si parla di particolari si fa riferimento ai particolari belli e ai dettagli brutti: ogni cosa – vicenda, evento, fatto, oggetto, incontro, paesaggio, luogo - va amata profondamente per quello che è, esattamente come di un uomo o di una donna si amano i tratti seducenti e le imperfezioni, perché ogni cosa concorre a rendere unica la persona che ci appassiona.
E per questo, con fedeltà al reale Messina descrive Foggia distrutta e ridotta in macerie dopo la guerra, documenta la piaga del caporalato, ricorda le battaglie di Giuseppe di Vittorio, il gigante del sindacalismo italiano, ma con lo stesso amore per il vero sa cogliere la luce autentica della vita nella processione dei terrazzani che tornano, sui loro traìni, dalla raccolta dei fichi d’india. Si tratta di una descrizione realistica e lirica al tempo stesso: sotto ogni carro dondolava un lume a petrolio dalla luce fioca … quella cinquantina di luci, come grosse lucciole, creava una suggestione unica nel dondolante cammino verso “I tre archi” della Porta, su una strada appena rischiarata dai pochi lampioni a gas. (p. 77). Non è casuale l’insistenza, da parte dell’autore, sul verbo “dondolare” che fa riferimento plasticamente all’instabilità degli antichi e rudimentali mezzi di locomozione, carri di legno a due ruote, ma – metaforicamente – suggerisce anche la precarietà di un rito quasi sacro, tuttavia destinato a perdersi, come tutte le cose belle, al tramontare di un’epoca.

 Messina, inoltre, fa leva  su un altro fondamentale procedimento, la personificazione.
Qualunque tema o argomento venga trattato, esso è incorporato, incarnato, personificato: prende corpo, cioè, in personaggi emblematici che fissano in modo indelebile nel lettore il senso della riflessione, senza che l’autore faccia ricorso a parole di commento. Ogni aggiunta esplicativa rischierebbe, infatti, di rovinare la densità e il vigore di creature che nascono dal contesto narrato e nel contempo lo travalicano per stagliarsi come espressione di valori. Si pensi, per esempio, alla famosa Madre di Cecilia di manzoniana memoria, sintesi perfetta di straziante dolore, dignità nella sopportazione, rassegnazione di fronte all’ineluttabilità degli eventi, incrollabile fede in Dio.

In Papaveri rossi, l’uomo anziano  e la signora vestita di nero(p. 96) sono due anonimi personaggi che, però, nel racconto assurgono a emblemi di una condizione esistenziale. Il piccolo Giuseppe si sta recando con sua madre verso il campo  di concentramento di Statte, presso Taranto, dove il padre è prigioniero degli Inglesi. Il modo di starsene silenzioso in un angolo del camion, a ridosso della cabina di guida, con lo sguardo perso nel vuoto traduce icasticamente la pena sofferta dal primo dei due personaggi prima citati: si tratta di un padre che si reca a Taranto per far visita al solo sopravvissuto dei suoi tre figli andati in guerra. Non c’è bisogno di profondere parole sullo strazio della guerra: la realtà parla da sé. Dolore, disperazione, annientamento si leggono sulla sua persona.
La donna, in quello stesso camion, è, invece, un misto di dignità, rassegnazione e forza d’animo: lei va a trovare a Statte l’unico nipote rimastole, il solo scampato dell’intera famiglia. Al silenzio dell’uomo anziano fa da contraltare il bisogno di parlare, di raccontare, da parte di questa signora che trova la forza di compensare l’amarezza delle perdite con la pienezza dei tanti momenti di vita vissuta con chi non c’è più e con la memoria dell’amore dato e ricevuto: i ricordi erano la luce del viso, il viso la luce stessa dei ricordi. La compresenza del dolore e della vivezza speciale che contraddistinguono la donna, è chiara sin dalla presentazione iniziale, nel contrasto cromatico tra il nero del lutto e il merletto bianco che decora il collo e i polsi.
Resta comunque, fermo un dato: l’ineffabilità del dolore e, in generale, dei sentimenti. Si chiede, infatti Messina: è mai riuscito un solo scrittore, anche il più bravo e osannato …  a rendere appieno quello che si è vissuto e provato ogni volta … è mai riuscito a renderne tutto il dolore e l’angoscia più intimi, pur disponendo della lingua più completa, più ricca?
A questo punto l’autore si affida ai suoi intensi versi (p. 109):

Il mio dolore è il mio dolore,
la mia angoscia è la mia angoscia,
la mia tristezza è la mia tristezza.

Così come la mia felicità e la mia gioia
sono la mia felicità e la mia gioia
e nel loro, nel mio profondo,
nessuno potrà mai penetrare:
neppure io che le ho vissute,
perché non sarà più quel tempo.

Un’altra coppia di personaggi emblematici sono il Gobbo e l’Angelo (p. 214 e ss.): nel loro incontro c’è davvero il senso profondo della salvezza possibile pur nell’inferno della vita.
Messina sembra aver fatto proprio il messaggio di I. Calvino, un altro autore che aleggia spesso, come inferenza letteraria nobile nell’intero libro: l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio[3].
Dare spazio a ciò che non  è inferno, riconoscere il senso umano della vita: è questo il messaggio che trapela dall’incontro casuale, ma intenso, tra due insoliti personaggi, diversi, ma complementari.
Giovanni, il Gobbo, è arrabbiato con la vita e con la levatrice che lo aveva estratto malamente del paradiso materno per precipitarlo nell’inferno di una vita sgraziata e disgraziata; Maria Teresa, l’Angelo, è una bambina triste per la sofferenza di dover vivere a Bari, città bellissima, ma lontana dal padre, che lavora come responsabile tecnico delle miniere della ditta Montecatini, ai piedi di San Giovanni Rotondo. Nel loro incontro avviene un “miracolo”, nello scambio di poche battute - pronunciate da Maria Teresa con la semplicità che solo i bambini possiedono - è contenuta la chiave che aveva cambiato una vita, prodigiosamente. Le parole incoraggianti di una bambina fanno uscire il Gobbo dall’inferno del suo isolamento, forse più pesante della malattia stessa, e la rinnovata apertura agli altri trasformano Giovanni, il “poveretto”, in una specie di “mito”, un “portafortuna” per quanti vogliano toccare la sua gobba, illudendosi di trovare la felicità e nel contempo donandola a Giovanni, parlando un po’ con lui e liberandolo dalla sua solitudine.
È, certo, discutibile il fatto che la gente cerchi il Gobbo non per il sincero desiderio di stare con lui, ma solo per il bisogno di trovare un rimedio – peraltro illusorio -  alle proprie sventure.
Tuttavia, Messina ci fa riflettere sul risvolto positivo della vicenda: nell’incontro si accorciano le distanze e ci si riscopre affratellati da un medesimo destino di dolore. Chi cerca il Gobbo è, in fondo, infelice come lui e solo nella reciprocità si può scorgere il volto umano dell’esistenza.

Intensamente emblematico è, poi, il personaggio di Mamma Olga.
Dichiaratamente ispirato al personaggio brechtiano di Madre Coraggio – come spiega nelle note l’autore stesso – Olga è una figura che domina sull’intera narrazione, soprattutto per la sua eredità intellettuale e morale.
Il profondo affetto che lega il figlio alla madre non ha bisogno di descrizioni, emerge invece, esplicitato a chiare lettere, l’insegnamento che per tutta la vita accompagnerà Giuseppe Messina: aveva inculcato, in tutti, il senso della libertà, libertà del cuore, delle idee, della vita stessa, alla quale nessuno deve rinunciare, fino a combattere per la sua difesa e per tutti coloro che ne vengono privati (p.27). E non si tratta di parole dettate solo dalla contingenza storica – sono questi gli anni del fascismo liberticida e della lotta resistenziale dei partigiani – ma sono convincimenti profondi e radicati nella coscienza di una donna che è simbolo di coraggio, forza interiore, conoscenza del dolore e capacità di reagire all’abbattimento.
Messina rappresenta Olga in tre precise azioni: narrare storie, impastare il pane, cantare.
Nei giorni del terremoto del 1948,  la mamma, in quel luglio di preoccupazione e paura, aveva preso a riunire nella grande tenda, al centro dell’accampamento per terremotati, bambini e ragazzini per raccontare storie. Un po’ prima di Pasolini, ma in linea con la tradizione già vecchia di millenni. La vocazione e il diploma di maestra la spingevano, con assoluta naturalezza, a trasmettere il suo sapere ai più piccoli. (p.26).
Dopo un periodo trascorso come rifugiati per scampare ai rischi della guerra - prima a Miramare di Rimini, poi nel convento delle suore Carmelitane a San Pancrazio di Russi e dopo ancora, presso la cascina della generosa signora Romanina - finalmente  nel 1945 Olga e i suoi figli ritornano a Foggia, in casa del nonno Edoardo: il rione in cui abitavamo, intorno a via Sapienza, era stato quasi interamente risparmiato dai micidiali bombardamenti che avevano provocato circa ventitremila morti, in una città che contava poco meno di quarantamila abitanti. (p.66)
In questo strazio fatto di macerie e povertà, per gente ormai disabituata ai piccoli piaceri della vita, il meraviglioso e indimenticato profumo del pane bianco che Olga prepara per i suoi familiari e inforna, si diffonde rapidamente.
Per una città che ormai da anni mangia pane nero e duro, impastato con crusca e terra, quello lavorato con la farina bianca che Olga aveva portato dalla Romagna, è una delizia sopraffina.  Tutto il quartiere si rianima, svegliandosi da un lungo stato di prostrazione: Via Sapienza si popolò fino all’inverosimile e le due pagnottelle non  poterono bastare certo a soddisfare tutti.  La fata buona – come ormai Olga è definita – continua a impastare per tante famiglie festanti e riconoscenti; la farina si esaurisce in pochissimi giorni e altra ne viene chiesta alla signora Romanina.  Il pane bianco riportò la fiducia nella vita e fu come se avesse suonato un campanello, quello della voglia di ricominciare e di recuperare tutte le cose buone che la guerra aveva cancellato.
Gli ostacoli non erano pochi e le difficoltà ancora più numerose, ma non apparivano più insormontabili: era sparita la rassegnazione. (p.78)
 Mamma Olga ama il canto, l’opera lirica – amore che le è stato trasmesso dal padre, amico di Umberto Giordano  - ma canticchia anche successi molto popolari come Solo me ne vo per la città e  - a voce sussurrata – canzoni passionali come Malafemmina.
Il suo, però, non è solo un canto libero, è un modo per fingere tranquillità con i figli, una strategia per dissimulare le preoccupazioni e le ansie che la assillavano: allevare da sola i figli, patire la lontananza del marito prigioniero e sforzarsi di non pensare al suo dolore per non moltiplicare l’angoscia di un presente difficile,  sono condizioni che mettono a dura prova una donna.
Raccontare, impastare, cantare:  queste tre sfumature riconducono a un tratto specifico di Mamma Olga e fanno di lei l’emblema di ogni madre.
Olga è la vita che si perpetua nella parola, è la forza che nutre, è il volto che sorride e incoraggia anche se tutto intorno sembra crollare.

Lo stesso valore emblematico si legge nella figura di Enrico, padre amorevole, forte e dignitoso anche nell’umiliazione della prigionia: un leone orgoglioso e ferito, che reclamava la sua libertà. (p. 108)

 Una delle più nobili strategie narrative riconoscibili in Papaveri rossi,  è, infine, la leggerezza. A dire il vero, si tratta di un valore che va ben oltre l’impeccabilità dell’arte di raccontare storie. L’autore la definisce il segreto stesso della vita.
Personalizzando in modo originale il titolo di un famoso romanzo di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Messina parla dell’incredibile leggerezza dell’essere. Si tratta di una sapiente inversione di senso rispetto al nichilismo di Kundera: quest’ultimo, richiamandosi alla definitiva caduta di ogni orizzonte di senso - tipica della cultura postmoderna -  definisce “insostenibile” il peso del non senso dell’esistenza, schiacciata dall’assurdo che lascia l’uomo come un relitto nel mondo, spaesato, senza radici e senza mete. Messina, invece, pare più vicino alla posizione di Italo Calvino che polemizzò proprio contro il nichilismo di Kundera, parafrasando il titolo del suo romanzo  con le seguenti parole: “Ineluttabile pesantezza del vivere”.
Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare. Non sto parlando di fughe verso il sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica[4].
Messina adotta proprio questo punto di vista: la leggerezza come reazione al peso di vivere, il volo, come sfida agli ingabbianti ancoraggi e come elevazione verso un altrove fatto di desiderio, di ricerca: la poiana vola maestosa e alta (…) a intervalli regolari (…) vola solitaria nel dominio del cielo (…). “Mi raccomando! Tieni i piedi ben saldi per terra!”. Quanto avrei preferito sentirmi dire: “Vola libero!” e quanto avrei voluto farlo, accompagnato dal battito delle ali, dal loro fruscio nel vento. (p.210)
La leggerezza è, dunque, la forza del sogno che resiste nonostante le dure prove che la realtà ci riserva.
E il filtro della leggerezza si trasfonde nell’idea stessa di letteratura, la sola dimensione possibile dove il senso si svela e dove le storture dell’esistenza acquistano significato e si collocano nelle giuste prospettive, costruendo un quadro in cui tutto ha un suo preciso valore.

Leggerezza significa capacità di vedere oltre il dolore, di affiancare, cioè, alla consapevolezza  del male di vivere - per usare la nota espressione montaliana -  l’insopprimibile spinta propulsiva dello slancio vitale: la vita tiene sempre intrecciati i suoi due volti inscindibili, ἔρως e θάνατος, anzi è proprio la certezza della morte che fa amare la vita e quanto più si è vicini a percepire la fine, tanto più si avverte l’attaccamento alla vita.

Messina dà chiara dimostrazione di questo assunto nel titolo stesso del suo romanzo. Durante il viaggio verso Taranto per rivedere il padre prigioniero, il piccolo Giuseppe è attratto dalla sconfinata distesa di papaveri rossi nei campi (p.94).


Il papavero è un fiore rosso come il sangue dei soldati uccisi dalla guerra, ma, nello stesso tempo, vellutato, come il raso che la mamma ricamava, e morbido, come il suo abbraccio affettuoso.

Non è qui importante l’elaborato accostamento di sensazioni tattili e particolari cromatici che creano un groviglio di sensazioni abbinate a ricordi e sentimenti. Il dato più significativo sta nel carattere complementare tra il dramma della morte e il richiamo della vita, tra ἔρως e θάνατος, tra pesantezza e leggerezza.

La leggerezza diventa, dunque, l’attitudine a cogliere il lato bello dell’esistenza anche quando sembra prevalere il peso della vita. Il rischio di ogni giorno vissuto è, infatti, che – come un vento che gira  e rigira e sopra i suoi giri poi ritorna, come è scritto nell’Ecclesiaste – il destino travolga la spensieratezza della gioventù e la soffochi tra responsabilità, impegni, fallimenti e disillusioni. E, invece, bisogna “catturare” la leggerezza e fare di le un modus vivendi. Scrive Messina: basta ascoltarla, viverla.

È la leggerezza che consente a all’autore di cogliere durante il funerale del professor Santollino, l’allegra gaiezza di un corteo matrimoniale o di alleviare la pena del viaggio triste verso il campo di concentramento di Taranto con una sosta al mare, a Margherita di Savoia. Tutti i passeggeri del camion diretto verso la prigione sono improvvisamente catturati dalla distesa azzurra dell’acqua: la spiaggia si popolò di voglia di leggerezza e di spensieratezza, di desiderio di linfa vitale indispensabile per la sopravvivenza di ciascuno.

Ecco, la leggerezza è la forza che aiuta a sopravvivere.

L’uomo l’ha persa, per la sua stupida indifferenza. Chiuso nel suo microcosmo, ha disimparato a riconoscerla.

 

In Papaveri rossi un posto privilegiato è occupato dall’amore, che aggiunge una nota passionale alle pagine di Messina. Nel libro sono rappresentate tutte le sfumature di questo sentimento.

C’è l’infatuazione infantile di Giuseppe per Laura, sullo sfondo dell’imponente Castello Normanno di Ariano Irpino, dove la fantasia fa rivivere le storie degli amori più antichi e impossibili, quelli di Lancillotto e Ginevra, di Orlando e Angelica.

È un amore fatto di guance arrossate solo per uno sguardo o per un contatto lieve … con il cuore che scoppiava.

Diverso è l’amore per Franca, a San Menaio, fatto di appostamenti e goffi tentativi volti a eludere la sorveglianza dei genitori di lei.

E, poi, ci sono i racconti di Vituccio che sulla spiaggia vende frutta fresca per combattere il caldo estivo. Si tratta di storie d’amore intenso e sofferto, come quello tra Eleonora e Totorre, che vivono un sentimento forte, pronto a sfidare le prepotenti pretese del signorotto garganico Duduccio, intenzionato a esercitare sulla ragazza lo ius primae noctis. E nel ricordare questa terribile usanza Messina porta subito il lettore a riflettere sulle innumerevoli umiliazioni subite dalle donne nella storia.

Uno spazio particolare è, inoltre, riservato a Sofia, ragazza bella e seducente, dalle morbide forme. È lei la donna che porta via con sé verità e segreti mia pienamente svelati.

 

E, infine, un valore particolare assume in questo romanzo la tenerezza.

In una conferenza tenuta nel 1988, Raymond  Carver[5], grande narratore dell’Oregon, ricorda una frase di Santa Teresa, tratta dal cap. XXXV della sua autobiografia spirituale: le parole conducono ai fatti (…) preparano l’anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza.

Si tratta di una frase interessante perché presenta due parole inusuali per il nostro tempo, dominato dal materialismo e dalla veemenza: “anima” e “tenerezza”.

Nel capitolo dedicato a alla morte del padre, Messina non nomina mai la parola tenerezza in modo esplicito, ma ce ne fa sentire la presenza nei particolari e risveglia una voce nell’anima. In un’epoca che ha visto fallire modelli autoritari e padri/Narcisi[6], Messina ci fa scoprire il vero senso della paternità in un’espressione: la mano nella mano.

Un padre, infatti, non è un supereroe che ha sempre le soluzioni pronte, è un uomo che ti accompagna nel viaggio della vita, con tenerezza, fra gioie e dolori, cadute e risalite.

Messina lascia un tocco leggero su questo messaggio: ce lo fa percepire, ma non lo spiega. Pochi tratti sono sufficienti: si sa, la leggerezza è anche un modo di narrare.

Uno scrittore non ha bisogno di troppe pagine per dire quello che ha da dire. Trasforma le parole in azioni, con un linguaggio chiaro e preciso. Le parole infondono vita alle storie raccontate, se usate bene toccano l’anima.

 

Una fondamentale accuratezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura[7].

 

E Papaveri rossi lo realizza pienamente.


                                                                    
                                                                                     Teresa D'Errico







[1] - Orazio, Satire, I, 1, 69-70
[2] - W. Siti, Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013
[3] - I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi,1972
[4] - I. Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988
[5] -  R. Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi, 2915.
[6] - Questo tema è ben sviluppato in Massimo Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, 2013.
[7]  - Ezra Pound, ABC of reading, 1934, ristampato da Garzanti, 2012.