Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

martedì 18 aprile 2017

RAYUELA. IL GIOCO DEL MONDO

Dicono che somigli all’Ulisse di Joyce. Invece Rayuela ha pathos. Leopold Bloom si perde nei meandri e nei labirinti della sua psiche, vaga nella sua Dublino, così come erra nel cerebralismo dei suoi pensieri. Horacio Oliveira, invece, ama, soffre, si interroga, dialoga, e parla al lettore. Joyce fa conto che non esista un lettore e costruisce un personaggio che vive solo del dettato automatico della sua psiche.
Cortázar plasma Oliveira dandogli un’anima pulsante. Noi lo capiamo quando dice: finisco sempre coll’alludere al centro senza la minima garanzia di sapere quel che dico, cedo al facile tranello della geometria con cui si pretende di far ordine nella nostra vita.
Cortázar comunica al lettore lo smarrimento umano del suo personaggio e il lettore sente l’incertezza di Oliveira, la vive con lui e la riconosce come sua.
Cercare un centro, avvertire l’insufficienza del Logos (pensiero e parola) nella storia è ciò che inchioda Oliveira al suo male di vivere: quel che non mi va giù è la mania delle spiegazioni, il Logos inteso esclusivamente come verbo. Intellettuale e amante, in entrambi i casi è imperfetto e incompiuto.
Cercare un centro, aspirare alla conquista di un’identità, tendere all’assoluto, forse, significa perdersi e smarrire per sempre anche il senso della bellezza. Quando la sua donna, detta la Maga, gli chiede che cos’è l’assoluto? Horacio le risponde che è il momento in cui qualcosa raggiunge il massimo della sua profondità, il massimo della sua portata, il massimo del suo significato, e smette completamente di essere interessante.
Oliveira avverte il peso di vivere in un mondo in cui si è sempre meno uomini, legati alle etichette di una società che definisce e che, definendo, svilisce. La società riduce la libertà a un gioco estetico o morale, la vita a una scacchiera in cui sei alfiere o cavallo. Questa è la libertà che si insegna nelle scuole, esattamente nelle scuole dove mai si è insegnato e mai s’insegnerà ai bambini il primo tempo di un ragtime e la prima frase di un blues… Emerge il rimpianto per la "vita", che non si situa mai nelle geometrie razionali; è forte il desiderio di terra, di cose vive. E le cose vive si vivono, non si indagano, non si esaminano. Non bisogna togliere loro il mistero che le anima. Anche nell’amore è così: c’è un gioco di nomi, in Rayuela, che lo chiarisce. La donna di Oliveira si chiama Lucia, ma vuole essere chiamata la Maga. Lucia evoca la luce: far troppa luce sulla realtà significa toglierle il mistero. L’uomo, con il suo Logos, di questo è colpevole: ha tolto l’incanto e la magia alle cose. Questo scontro di prospettive si chiarisce in un dialogo tra Horacio e la Maga che riflettono sui loro incontri senza appuntamento tra i labirinti delle strade di Parigi. Horacio  si abbandona all’analisi delle probabilità, la Maga alla bellezza del fato. E alla domanda di Oliveira: e se non ti avessi incontrato? prontamente la Maga risponde con un non so, comunque sei qui. Quello che conta è l’attimo di bellezza che rivela il volto dozzinale degli strumenti logici, degli interrogativi, dei perché e dei se.
Rayuela ha un sottotitolo emblematico: Il gioco del mondo. Non si può incasellare l’esistenza in uno schema precostituito fatto di convenzioni o di formule dal potere definitorio. Bisogna saper preservare la sua natura di “gioco”, di avventura, la sua irriducibilità a gabbie e regole che finirebbero solo con l’incapsularla in un grigio susseguirsi di giorni. Forse un centro non c’è. È perdente, quindi, la fatica di ridurre la vita e la realtà in termini di metodo. Perciò è nostro il grido di Horacio che chiede alla Maga, la implora: lasciami vedere un giorno come vedono i tuoi occhi.
La struttura del romanzo è sperimentale, è personale. L’autore stesso ne parla all’inizio dell’opera. Ma non è questo l’aspetto più alto del romanzo, ne è solo l’aspetto più insolito. Su tutto aleggia un senso di confuso smarrimento e di profonda solitudine: in fondo non esiste otherness … la vera alterià non poteva realizzarsi con un solo termine, alla mano tesa doveva corrispondere un’altra mano da fuori, dall’altro.

La vita mette alla prova: sospetti, dolori, incomprensioni soffocano i sentimenti, indeboliscono i desideri. Restano i ricordi e la certezza di incolmabili distanze, mancanze.

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