Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

giovedì 24 gennaio 2019

SOLO PAROLE, AMICA. Poesia inedita di Antonio Caione


Solo parole, Amica.
Solo parole ho io per te.
Giovanni Boldini, Mademoiselle  Lanthelme, 1907
Niente sguardi, niente strette di mano.
Niente saluti, niente abbracci
di ritrovata nel tempo
anima allora incrociata,
sfiorata e perduta
nel gioco di vita tessuta 
da divinità ignota.
Solo orecchie, Amica.
Solo orecchie ho io per te.
Per ascoltare, leggendo,
parole che dici scrivendo di te.
Non ho fiori per i tuoi capelli,
non ho vino per le tue labbra.
Forse musica ho io per te?
Solo parole, solo silenzi,
parole non dette,
ho io per te, Amica mia.
Antonio Caione

Ut pictura poësis, sosteneva Orazio. Eppure, scrivere della mancanza, rappresentare ciò che non c’è e non c’è stato, rendere tangibile il desiderio, dare forma a una realtà immateriale, significa forzare i mezzi linguistici, trasformare l’affermazione in negazione. Plotino parlava di teologia negativa: è più facile dire ciò che Dio non è, piuttosto che definire l’ineffabile. Questo principio, però, non dovrebbe valere anche per i sentimenti. Loro non ci eccedono, ci abitano; d’altra parte non sappiamo più definirli. O forse è lo spirito dei tempi che ci ha resi disarmati rispetto ai nostri sentimenti. Nell’era del videor ergo sum, guardarsi dentro è difficile.
Solo parole, Amica è un testo fondato interamente sul senso della perdita e della dimensione residuale: la possibilità di ascolto che pure Antonio Caione pare inizialmente lasciare aperta (solo parole, ho io per te … solo orecchie ho io per te), si converte presto in occasione mancata, in incontro negato. Restano parole non dette; la quadruplice anafora del niente (vv. 3-4) sottrae le attese di un contatto fisico ad ogni ipotesi di concretezza; e la duplicazione del non (vv. 14-15) ne è un’ulteriore conferma: prevale, nella selezione linguistica operata dal poeta, la dimensione negativa, la più appropriata per spiegare il senso della privazione. Anche la domanda introdotta dal dubitativo forse (v. 16), che pure sembrerebbe aprire un varco alla speranza, si trasforma in rapida, amara frustrazione: le parole, l’ascolto, la musica diventano sostanze evanescenti e lasciano il posto a ciò che propriamente rimane, solo silenzi (v. 17).
Eppure la donna proprio in virtù dell’assenza si accampa come protagonista dei versi; con la sua fisicità non posseduta dal soggetto lirico, diventa il pensiero dominante. Di lei immaginiamo i capelli (v.14) e le labbra (v.15) in una vaghezza petrarchesca che evoca e suggerisce: un’anima incrociata, sfiorata e perduta ha inciso con forza impalpabile, ma incancellabile, la propria esistenza e la propria permanenza nella memoria di chi scrive. La donna che fornisce all’autore il pretesto per parlare d’altro, non è descritta nei suoi tratti plastici, ma è proprio la sua evanescenza che dà corpo e forma agli stati interiori del poeta.
È impossibile non riconoscere nel testo di Antonio Caione, la risonanza poetica della bellezza fuggitiva che Baudelaire attribuisce alla protagonista del noto componimento A una passante
Il poeta dei Fiori del male traduce – come ha sottolineato W. Benjamin – l’esperienza dello choc a causa della modernità: la società di massa, l’anonimato, l’omologazione, la strada assordante rendono epifanici, sconvolgenti, irrealizzabili gli incontri, lasciano contratto come uno stravagante chi per un attimo ha ceduto alla speranza di una condivisione. Il caos toglie, sottrae, divide, separa: un lampo… e poi la notte, scrive Baudelaire. È la modernità, la velocità del progresso sintetizzata nella rue assourdissante, che nega la relazione e atomizza le possibilità di contatto. L’incontro non è vissuto, si dà come mancato, irrealizzato, vuoto. 
La modernità disorienta, attesta l’incapacità di controllo sull’esistenza che si fa anarchica e sfugge rispetto ad ogni progettualità. Perciò l’incontro si smaterializza, lascia gli effetti di un’incontrollabile e sentita vis attractiva, ma non si attua. Il contatto mancato non è, però, un dato biografico e individuale: è la metafora di un’epoca. Questo è il non detto di A. Caione. Nel gioco di vita tessuta /da divinità ignota si situano la chiave di lettura e l’origine del rimpianto. L’arcano mistero della vita, una partita che l’uomo gioca a dadi con il destino, è uno scacco: circostanze, casualità, imprevisti, imponderabili incroci di ombre che si sfiorano e non comunicano, non possono essere decriptati. Siamo sopraffatti dall’esistente che come una valanga travolge corpi, emozioni, sentimenti, non abbiamo il tempo e l’attenzione necessari a riconoscere ciò che si agita nell’animo. Ci lasciamo sfuggire le emozioni, non sappiamo forse neanche più nominarle, scriviamo emoticon invece di poesie. È la modernità, appunto: percepire e non accorgersene.
Quello che resta da fare ai poeti, tuttavia, è  dare voce ai silenzi, ritrovare nel tempo attimi di una felicità mancata e chiamarli con il loro nome: desiderio.
In fondo è dalla mancanza che nasce l’eros.
I versi sono polvere chiusa
di un mio tormento d’amore
(A. Merini, da La Terra Santa, 1984)

mercoledì 16 gennaio 2019

IL TRAMONTO DELLA REALTÀ


Sbagliava Platone a condannare le immagini: lui riteneva che producessero effetti illusori e ingannevoli. La rivoluzione digitale ha, invece, dimostrato il contrario: nel mondo digitale tende a scomparire ogni differenza tra l’originale e la sua copia, la realtà diventa più reale della realtà, più vera del vero,  cioè “iperreale” e la sua forza comunicativa si intensifica. Ne parla Vanni Codeluppi nel saggio Il  tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite.

Che cosa accade se la vita reale si trasforma in un reality? Certo, ci sono senza dubbio conseguenze se il reality show consente il facile successo di persone comuni e l’interazione con gli spettatori a casa, sempre più coinvolti nei programmi televisivi; ma, in fondo, questo è semplicemente marketing neotelevisivo che ha tolto alla “paleotelevisione” la sua antica funzione pedagogica, per usare espressioni care a Umberto Eco, lo ricorda giustamente V. Codeluppi.
Piuttosto, c’è da chiedersi, che cosa succede se la vita quotidiana diventa un reality show, se la politica diventa spettacolo, con una trama, personaggi e spazi d’azione, suspance, colpi di scena, e, infine, se persino la scuola si esibisce in performance da postare sui social e sui siti web, sui media digitali? E, soprattutto che cosa accade se questa dimensione costruita per la visibilità diventa più reale, anzi, forse l’unica a cui la società dà credito?
Spettacolizzare, per esempio, l’arresto di un terrorista per costruire una narrazione delle forze politiche al governo, agire con abiti di scena – divise delle forze armate - che trasformano agli occhi di moltitudini spaventate da una crisi che non passa più, un uomo politico in un supereroe macchiettisticamente dannunziano, fa sì che lo storytelling lasci sedimentare un preciso messaggio nell’opinione pubblica. E questo messaggio è tanto più penetrante non solo se i canali di comunicazione sono molteplici (radio, televisione, stampa, media digitali, social network), ma soprattutto se chi recita la parte e il copione finisce col crederci,  fino a considerare vero quello che ha narrato, immedesimandosi perfettamente nel ruolo e facendo così coincidere il personaggio con la persona.
Si tratta di un processo abbastanza fuorviante, piuttosto pericoloso perché contamina vari ambiti della vita sociale.
Si pensi a ciò che avviene a scuola, il posto in cui mandiamo i nostri figli perché diventino persone complete, colte, capaci di affrontare la vita e le sue sfide.
E invece anche a scuola quello che conta non  è ciò che si fa, ma la sua narrabilità. Siamo assistendo, in vari campi, ad un lento, graduale, programmatico svuotamento di senso, alla costruzione di una realtà deformata dalla trama narrativa che viene costruita esattamente come nel mondo politico: chi governa cerca consenso, la scuola vuole ottenere iscrizioni. Il punto fondamentale è che non è più possibile fare a meno della trama narrativa. I dirigenti scolastici adoperano i media come cassa di risonanza per la propria propaganda, esattamente come facevano Alessandro Magno e Augusto per celebrare le proprie res gestae o, in tempi più recenti, i grandi Dittatori per costruire l’ideologia del potere: amplificare la portata dei fatti attraverso la loro narrabilità. Però, va ricordato, quelli citati non furono fulgidi esempi di democrazia.
A scuola si opera perché tutto possa diventare esperienza visibile, pubblicabile, “postabile”. I dirigenti scolastici travolti dal vortice della competizione fra istituti ormai strutturati come aziende in concorrenza, non puntano più sulla qualità delle conoscenze e delle proposte culturali, ma solo alla narrabilità delle iniziative: un’attività conta per la narrazione che se ne può dare e che possa tradursi in un quantum di iscrizioni, è merce di scambio. Perciò non sono affatto importanti i libri che i docenti fanno leggere ai ragazzi, vale solo il fatto che si possa dire, raccontare, che è in atto un reading in classe, perché l’elemento anglofono fa più effetto; oppure l’idea conta solo nel momento in cui si decide di riabilitare quella materia “inutile” come il latino per trovare un titolo stravagante all’idea, non troppo appetibile in sé, di far leggere un libro in classe agli studenti: e allora dare un nome straordinario, in latino,  - per esempio, verba … manent - alle ordinarie ore di lettura, trasforma una cosa antica e sensata, ma dai più giovani evitata - come appunto è la lettura - in un post, in un video che amplifichi l’evento e trasformi l’ordinario in straordinario, la classe in eccellenza, il docente in intellettuale carismatico e la scuola nell’Empireo della novità, ergo, nella scuola “da scegliere”!
Licei che organizzano corsi di addestramento per bagnini e velisti, angoli relax con tavolini da bar, scale decorate con titoli variopinti di opere classiche e scientifiche sembrano dire molto di più, spettacolarizzano, aggiungono l’effetto speciale ad una scuola che se si limita a fare ciò per cui è nata (istruire, insegnare, formare) non attrae “utenti”. Il punto è che chi costruisce la narrazione crede alla finzione che ha inventato e l’immagine cattura, seduce, attrae più della sostanza: si chiama “imagocrazia” (definizione che fa capo a Guerino Bovalino). Insomma, come scrive Marc Augé  nel saggio La guerra dei sogni, non è più la finzione che imita la realtà, ma la realtà che riproduce la finzione. Si costruisce così una mitografia: quello che conta è il nome … nomina nuda tenemus.

giovedì 10 gennaio 2019

SCRIVERE IL FUTURO


Del futuro gli antichi ci hanno insegnato a diffidare: Orazio scriveva malinconicamente carpe diem, quam minimum credula postero. In tempi recenti il futuro ci è stato presentato come un incubo: M. Benasayag e G. Schmit, nel loro saggio L’epoca delle passioni tristi, hanno ben spiegato il passaggio dal futuro-promessa al futuro minaccia che segna ormai i nostri giorni, incombe sulle nuove generazioni, spoglia il loro occhi dell’energia necessaria ad affrontare il mondo, la vita.  
Anche Bauman, in un suo breve saggio Scrivere il futuro, sviluppa questo argomento e non nega certo che il carattere fondamentale del tempo attuale sia l’incertezza, una spiacevole dimensione che precarizza il presente, rende nebuloso l’avvenire e circoscrive il campo della soddisfazione alle “retrotopie”, cioè a un passato che non può tornare. Bauman, anzi, precisa che l’errore più frequente che  noi ingenuamente commettiamo è quello di considerare l’incertezza come l’effetto di un nostro deficit  di conoscenza. Invece, spiega il sociologo, è proprio una questione ontologica: l’instabilità e la turbolenza sono sistemiche e strutturali. Il nostro non è il mondo dell’essere, è il mondo del divenire. Può non piacerci, ma è così: siamo come matite che non possono reggersi sulla punta e se anche ci riuscissero per qualche frazione di secondo, al primo colpo di vento crollerebbero. Appare chiaro, dunque, perchè il futuro non abbia i tratti della vie en rose.
Bisogna rassegnarsi? No. Bauman non è affatto di questo parere! Anzi, sottolinea il valore importantissimo dell’azione individuale nella e sulla storia. De Gregori cantava la storia siamo noi. E citando Havel, il grande eroe che riuscì ad abbattere il peggior bastione, uno dei più biechi regimi, quello della Repubblica Ceca, il sociologo riporta una sua riflessione e cioè che per prevedere il futuro bisogna sapere quali canzoni una nazione ama cantare.
Ebbene, l’Italia oggi non canta più i testi di De Gregori, Guccini, De Andrè. Canta e ascolta quelli di Sfera Ebbasta.
Forse dobbiamo ripartire da qui per rifare la storia e costruire il futuro: impegnarci a scegliere canzoni migliori.

DI NUOVO SOLI. UN'ETICA IN CERCA DI CERTEZZE

A chi importa se l’uomo è degno del suo nome, se fa scelte morali, se nella vita lascia spazio ai sentimenti buoni? In che cosa risiede il fondamento dell’etica? Può essere lo stoico “vivi secondo natura”? Si situa in un orizzonte metafisico come le religioni rivelate insegnano? Oppure sta nella Legge, come gli Illuministi hanno spiegato?
Zygmunt Bauman, nel suo saggio Di nuovo soli , nota che viviamo in un’epoca di netta cesura tra ragione ed emozione e che il mondo oggi sembra aver deciso di soffocare, eradicare le passioni.
Ciò che conta è l’osservanza di codici etici che prescrivono l’obbedienza a regole precise di cui non si chiede affatto l’intima condivisione. Funzionano così la burocrazia e il mondo degli affari: capacità esecutive e razionalità procedurale devono assicurare che il sistema funzioni e forze centrifughe, erratiche, imprevedibili come le emozioni e i sentimenti non possono rischiare di far inceppare la macchina. I soli sentimenti ammessi sono la lealtà al sistema (società, azienda) e – nota Bauman – disponibilità a svolgere la propria mansione a prescindere dal contenuto del lavoro assegnato, come tanti piccoli Eichmann. Nel mondo degli affari il solo principio guida è la razionalità strumentale: i mezzi devono essere sfruttati in modo tale da ottenere il miglior risultato possibile: se la conseguenza è, per esempio, il danno ambientale, è un dato secondario; se “razionalizzare”  significa il più delle volte licenziare persone diventate un “esubero”, dimenticando i loro meriti e la gratitudine per il lavoro compiuto, fa parte del gioco. Bauman conclude che la burocrazia soffoca gli impulsi morali e gli affari si limitano a metterli da parte: perché “funzioni”, il mondo degli affari ha bisogno di paraocchi che impediscano in eterno di vedere il volto umano

Il punto è questo: “funzionare”. Noi cerchiamo ormai solo la perfezione, che è figlia del logos, aborriamo sbavature umane, temiamo l’imperfezione. Le città contemporanee sono ipertecnologiche, progettate dai migliori urbanisti, hanno abbattuto ogni possibilità d’inciampo, sono smart. Però sono brutte. Nella loro serialità (edifici uguali, aeroporti e stazioni uguali, ipermercati clonati) non hanno niente di umano: “funzionano”, sono razionali, perfette, ma brutte. Nessuna di loro è all’altezza di una sola piazza medievale di un borgo del Centro Italia.
Lo stesso discorso vale per i luoghi di lavoro: presentano delle chiarissime Carte dei Servizi, gli utenti sono consumatori o clienti da soddisfare, non hanno il rango di persone, e i dipendenti sono anelli di una catena: ognuno è responsabile del proprio comparto, settore, compito, in una frantumazione spersonalizzante che abbatte ogni relazione umana. Certo, il sistema “funziona”, è efficiente. Ma può dirsi umano?
Il mondo può anche “funzionare”. Ma non vive senza bellezza. Nella sua riflessione sull’equivalenza tra etica ed estetica, recentemente Vito Mancuso ha fatto riferimento al discorso di Trofimovič nei Demoni di Dostoevskij. Trofimovič  sostiene che è accaduta soltanto una cosa: uno spostamento di scopi, la sostituzione di una bellezza con un’altra! Tutto il malinteso non è che nel dubbio se sia più bello Shakespeare o un paio di stivali, Raffaello o il petrolio.
Ecco, oggi l’uomo ha fatto le sue scelte: ha preferito un paio di stivali, il petrolio. Semplice. Ha scelto un’umanità meno bella.
Certo, se il mondo in cui viviamo non ci piace e sentiamo intimamente che calpesta la nostra coscienza, resta la disobbedienza, con i rischi che comporta. Essere responsabili non significa seguire le regole: spesso può richiederci di ignorarle o di agire in modi che le regole non consentono, conclude Bauman.
Ma per essere disobbedienti bisogna aver ben chiaro, nella mente e nel cuore, un ideale bello di umanità, migliore di quello esistente.

domenica 6 gennaio 2019

21 LEZIONI PER IL XXI SECOLO


In  un futuro non troppo lontano l’algoritmo ci “seppellirà” … metaforicamente, ma non troppo. È questa in buona sostanza la tesi del libro di Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo. E, in effetti, il controllo totale da parte degli algoritmi pare proprio un fenomeno inarrestabile. Del resto, indietro non si torna, si sa, né sarebbe consigliabile per molti aspetti a cominciare dalla medicina. Tuttavia c’è un rischio grave che dobbiamo prendere in considerazione: quando qualcuno avrà messo a punto la tecnologia per controllare abusivamente i sentimenti e per manipolarli, la politica democratica si trasformerà in un teatro di marionette emotive: la dittatura digitale sarà (oppure già è?) un processo per cui i politici al potere forse potranno anche fare le loro scelte tra opzioni differenti, ma tutte queste opzioni deriveranno dall’analisi dei Big Data e rifletteranno il modo in cui l’Intelligenza Artificiale vede il mondo, più che il modo in cui lo vedono gli uomini e le donne.

Non si tratta di auspicare un improponibile ritorno all’oscurantismo o di negare ciecamente gli indiscutibili vantaggi che la rivoluzione tecnologica ha prodotto; però, un dato è certo, non possiamo demandare agli algoritmi le scelte, le decisioni, sui nostri destini individuali e collettivi.
Certo non è facile trovare soluzioni all’altezza del problema, della complessità del mondo, soluzioni capaci di contrastare la seduzione che la tecnologia è in grado di esercitare con il suo fascino e con le sue promesse di felicità. La società è nel caos, non tiene il passo rispetto alle vorticose trasformazioni in atto: la scuola è ferma alle sue nozioni e informazioni di base (che invece Wikipedia, in molti casi, fornisce in maniera precisa e forse più completa); il lavoro richiederà presto competenze oggi imperscrutabili; adattamento e flessibilità saranno le nuove parole d’ordine, con la conseguenza – sottolinea con una certa preoccupazione Yuval Noah Harari – di una crescita esponenziale di malattie legate allo stress perenne che il lavoratore dovrà subire per fronteggiare la velocità del cambiamento e la riconfigurazione reiterata dei profili professionali. Questa sarà (è) la realtà. Chi non si adatta ai tratti di una società perfetta, ma disumana, è già fuori: è capitato a John il Selvaggio che ha deciso di impiccarsi nel Mondo nuovo di Huxley. Ma – molti obietteranno – è solo letteratura! Eppure, in tempi recenti, la sorte di David Foster Wallace e di Mark Fisher non è stata molto diversa. C’è chi con acutezza e sensibilità previsionale avverte e vive su di sé, dolorosamente, la distonia tra il proprio essere e il sistema. La tecnologia naturalmente non ha colpe. Nasce con un preciso obiettivo: “semplificare”. Tuttavia, a forza di semplificare si perdono tutte quelle sfumature che rendono umana la vita. Se odiare è più semplice che comprendere, se  imporre è più semplice che spiegare, la conseguenza è chiara: saremo più violenti, meno comprensivi, i governi “semplificheranno” ogni iter fino ad abolire i dibattiti parlamentari, “correggeranno” la lentezza democratica e preferiranno l’efficienza dell’uomo solo (e forte) al comando, che attraverso accorti sondaggi sui social media potrà monitorare e manipolare a proprio vantaggio l’opinione pubblica.
Fuggire dal mondo, fuggire da se stessi? Ovviamente no.
La tecnologia non è cattiva. Se sapete che cosa volete nella vita, la tecnologia può aiutarvi a ottenerlo. Ma se non sapete che cosa volete nella vita, sarà fin troppo facile per la tecnologia dare forma alle vostre intenzioni al posto vostro e prendere il controllo sulla vostra vita. Il contrario della libertà è la schiavitù, ammonisce Yuval Noah Harari e se abdichiamo all’esercizio costante della nostra umanità lo slittamento dalla libertà alla schiavitù sarà un processo inevitabile.

Il rischio sta nell’uso che il prometeismo dell’Homo deus fa della tecnologia; sembra essersi realizzato il sogno baconiano delineato nel profetico libro La nuova Atlantide: allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo. Davvero è questa l’essenza della felicità? Realizzare ogni possibile obiettivo? Tutto ciò che si può fare, si deve fare? E poi, abbattuta ogni frontiera dell’esperibile, quale orizzonte resterà? Quale sarà il prezzo da pagare quando una possibile Intelligenza Artificiale programmata – supponiamo – per salvaguardare l’ecosistema dovrà dirigersi contro chi lo sta distruggendo, cioè, contro l’uomo? Certo, è uno scenario apocalittico: lo immagina Frank Schätzing nel suo ultimo libro, La tirannia della farfalla.
Per Yuval Noah Harari la risposta sembra essere una sola, rivoluzionaria pur nella sua semplicità: imparare a conoscere il proprio sistema operativo. Ciò significa, in altre parole, come disse qualcuno un po’ di anni fa, conosci te stesso. Se riusciremo a indagare chi siamo davvero, rimarremo umani, umanizzeremo la scienza e la tecnologia perché non si convertano nel loro contrario, in incoscienza. E per farlo dobbiamo imparare a vivere il nostro presente, conoscerlo bene, fino in fondo, guardarlo con occhi attenti e non ottenebrati da illusioni, narrazioni, false speranze di lontane felicità: il futuro si costruisce oggi. Marco Aurelio rivolgendosi all’uomo di ogni tempo, gli sussurrava:  la verità è che tu non ti ami, altrimenti ameresti anche la tua natura.


domenica 21 ottobre 2018

LA BELLEZZA VIVE IN UN ISTANTE

La mostra di Ubaldo Urbano a Parco Città di Foggia ha un titolo insolito: "Retouchés", ritocchi. Si tratta di riproduzioni su carta di opere che l'autore ha "ritoccato": piccoli interventi per rinnovare l'unicità dei temi portanti di un percorso artistico e ribadirne la persistenza nel tempo.

Urbano conferma, come sempre, l'inconfondibilità del suo stile: volumi plastici e palpabili, contorni netti, di cui è superfluo ricordare il richiamo a Carrà o Casorati, forse solo punti di partenza - necessari più agli osservatori che hanno bisogno di termini di paragone - e non tanto oggettive radici del profilo culturale di Urbano, che si muove, invece, su itinerari creativi e originali. 
Nell'esposizione di Parco Città i "ritocchi" non hanno alterato le costanti della ricerca iconografica di Urbano: atemporalità e aspazialità dei soggetti; tendenza all'essenzialità tematica; cromatismo insistente sulle dimensioni del bruno. L'essenza dei contenuti pittorici converge in modo chiaro su un tema predominante: la figura femminile.
Le donne di Urbano suonano, sognano, dormono, danno vita, allevano, amano. Non sono collocate in cornici spazio-temporali definite: sono loro a creare lo spazio e il tempo; la prospettiva in cui sono inquadrate nasce dalle relazioni che i loro corpi intessono con la dimensione che le circonda. Non c'è storia, non c'è luogo: i corpi femminili sono LA DONNA, incarnano l'idea della donna, la quidditas della donna, dipinta attraverso i colori della Terra, sabbia, ruggine, marrone, verde. Il legame tra terra e donna appare forte e intuibile: come la terra, la donna accoglie; come la terra, la donna dà vita. L'insistenza su questa scelta assume un valore oggi quanto mai incisivo. Rappresentare la donna nella sua pura essenzialità - LEI che si accampa nello spazio, LEI che occupa totalmente l'occhio dell'osservatore e monopolizza l'attenzione di chi guarda, nell'assolutezza della sua asciutta figura - obbliga a riflettere su un dato: la donna rappresenta l'altro sguardo sul mondo.
In una società sempre più virilizzata, in cui, cioè, i modi bruschi della forza verbale o fisica sembrano far ripiombare le relazioni umane in una barbarie iliadica, Urbano riesce in modo unico e gentile, a rappresentare l'alternativa alla forza, allo scontro: nel corpo accogliente della donna, nella sua morbidezza si situa una visone del mondo, un altro modo di vivere i rapporti umani.
La donna incarna da sempre la forza dell'EROS, che è una via immediata e passionale verso la vita, una strada che cerca l'incontro, l'intesa di corpi e di anime. La civiltà ha, invece, troppo spesso soffocato lo slancio propulsivo dell'eros, in nome della sofisticata forza del LOGOS, la ragione catalogante, classificatrice, quella che cerca il discrimine di ogni cosa, per etichettarla, incasellarla.
Della pittura di Urbano, inoltre, colpisce un tratto specifico la capacità di cogliere la bellezza dell'ordinario. In un'epoca come la nostra in cui ci si affanna alla ricerca della stravaganza, dell'eccezionalità, degli effetti speciali, Urbano lascia a chi osserva attentamente i suoi quadri un messaggio che resta impresso in modo indelebile nell'animo. Si tratta di una gratificazione difficile da raggiungere, ma è certo intensa e duratura: Urbano ritrae la bellezza del quotidiano, quella che permette di scoprire il senso della vita nella vita stessa. Molti intellettuali hanno inteso sacrificare la vita all'arte, chiudendosi nella turris eburnea della Bellezza.
Le donne di Urbano ci ricordano, invece, che tocca a noi rendere bella la vita di tutti i giorni.
Le donne di Urbano, nella loro pienezza, accampandosi con volumi forti, concreti, ci dimostrano che la felicità non consiste nell'essere avventurieri dell'assoluto né nel cercare impossibili risposte collettive. Il male di vivere c'è, non si può negare. Eppure la bellezza dell'esistenza non è inafferrabile, si situa in un istante e bisogna saperlo cogliere: una donna suona, un'altra guarda il suo bambino, un'altra ancora chiude gli occhi nel sogno o nell'attesa o nel ricordo. Come scrive Tzvetan Todorov, in quel preciso istante la materia diventa bellezza.

domenica 30 settembre 2018

MORFISA O L'ACQUA CHE DORME


La cosa migliore, forse, è non spiegarci,
non dare la chiave del nostro essere, 
la formula del nostro destino.
E. M.  Cioran, Taccuino di Talamanca 

Morfisa o l’acqua che dorme è un romanzo carico di suggestioni letterarie, di immagini ad alto tasso simbolico, vi trionfa l’immaginazione sia nella barocca architettura narrativa sia nel complesso impasto stilistico - abilmente costruito - che varia dalle sfumature ricercate alla vivacità del dialetto napoletano sino all’uso insistito dell’ironia da parte della voce narrante che assume nei confronti dei personaggi una funzione smascherante sullo stile di Cervantes.

La trama del romanzo di A. Cilento ruota intorno a Teofanès Arghìli, poeta velleitario capace solo di copiare storie già scritte. Come ambasciatore dell’impero d’Oriente, egli viene inviato dalle sovrane di Bisanzio, Zoe e Teodora, a Napoli, dove dovrà prendere in consegna Crisorroè, figlia del Duca di Napoli, perché la fanciulla possa sposare un Porfirogenito e affinché le relazioni diplomatiche tra Napoli e Costantinopoli si rinsaldino in virtù di un matrimonio che è assolutamente un’alleanza politica. A Napoli il messo d’Oriente scopre che Crisorroè è stata assassinata: alcuni pescatori trovano tra le reti la sua testa coperta di alghe. Inizia  a questo punto per Teofanès una serie di complicate avventure e di inattesi incontri con creature straordinarie, tra le quali si distingue Morfisa, la fanciulla polimorfa e metamorfica, che nel romanzo il lettore conoscerà, infatti, in forma di atleta, aquila, cinghiale, balena, tra caleidoscopiche trasformazioni, suggerite dal suo nome parlante che deriva dal greco morphé, cioè,  “forma”. Morfisa è la bambina magica venerata a Napoli come una Madonna, che mette Teofanès, il sedicente poeta, di fronte ai suoi limiti di scrittore. Grazie ai racconti della fanciulla, infatti, il poeta scopre quello che gli manca: la creatività, l’immaginazione, la capacità di donare fascino alle narrazioni, la grazia affabulante della parola.
La storia si dipana intorno ad alcuni temi focali: il viaggio, Napoli, il mare e l’acqua, la diversità, il tempo, il fantastico, l’uovo.

Il viaggio, Napoli, la vita
Morfisa o l’acqua che dorme è strutturato attorno al più antico archetipo narrativo, risalente al modello odiassiaco: il viaggio come percorso accidentato e metafora della vita. In questo romanzo ne è protagonista Teofanès e il suo viaggio assume varie sfumature: è missione diplomatica, rapimento, prigionia, ricerca. La Cilento, inoltre, aggancia le suggestioni classiche legate al tema del viaggio a quelle medievali che attraverso la quête e l’aventure tracciano il percorso lungo il quale avvengono la formazione e la maturazione dei personaggi.
Napoli, luogo di approdo per Teofanès, non è solo lo sfondo geografico del romanzo della Cilento, è, piuttosto, un modo di vedere la realtà.
Napoli è terra di fede e di superstizione, di devozione e folklore; è la città in cui il culto di San Gennaro convive con quello pagano di San Virgilio, il poeta dell’Eneide trasformato dalla fantasia popolare in un mago, profeta, patrono; Napoli, crocevia di culture – greca, latina, araba, normanna, longobarda – Napoli, carica di fantasia, incline a colorare di leggenda anche la storia; città fatta di strade, vicoli e piazze in cui le liturgie delle chiese si mescolano – come attestano le pagine della Cilento - a riti profani, alle voci dei femminielli, a badesse licenziose, a prostitute che si concedono, a incesti che si consumano, a stupri che la oltraggiano.
Le vicende che affronta Teofanès non hanno mai nulla di lineare. Il suo passare da un’avventura ad un’altra con un ritmo convulso e confuso ricorda il girovagare del petroniano Encolpio nella labirintica Roma neroniana e sembra imitare la vagatio errabonda del boccacciano Andreuccio da Perugia che proprio in una  Napoli bella e pericolosa va alla ricerca di se stesso. L’Ulisse omerico più volte evocato nel testo è, dunque, un modello auspicato da Teofanès, ma non realizzato: diversamente dall’eroe dell’Odissea, che tornando a Itaca si riappropria compiutamente dei tutti i suoi statuti identitari di padre, marito e sovrano, Teofanès appare più come un antieroe, palpabilmente contaminato da influenze donchisciottesche. Fallire è il suo mestiere: sedicente poeta, è solo un povero scrittorucolo che sa copiare, ma non ha inventiva; gli viene affidata una missione importante – trasportare un utero fresco a Costantinopoli dal Ducato napoletano (p.34) – ma non la conduce a termine; Teofanès ama Costantino, che improvvisamente a un certo punto del racconto si fa chiamare Michele, ma quando riesce a possedere davvero il suo amato, lo perde per sempre. C’è qualcosa di incompiuto in Teofanès. Il suo smarrimento esistenziale emerge in modo inequivocabile nel ritratto che ne fa l’autrice nelle pagine conclusive del capitolo relativo alla festa dell’Oditrigia, in onore di Morfisa, venerata come una Madonna miracolosa: “aiuto” urlò, ma nessuno c’era ad ascoltarlo. Cercò affannosamente la strada da cui era venuto, fra i cespugli, non la trovò, si poggiò piangendo a un albero. Ancora si lamentò, ululò alla luna,  e poi, quasi senza accorgersene, vinto dal vibo, sprofondò nel sonno.(p.92).
Teofanes cerca: la sua quête (di Crisorroè, dell’uovo magico che gli fornisca l’ispirazione poetica, dell’amore eterno) è continuamente frustrata; affronta senza esito esperienze irte di ostacoli e pericoli, crede nell’amore e resta deluso.
Il suo labirintico percorso rappresenta l’esistenza umana: le certezze si sgretolano, le grandi verità vacillano come gli imperi e si frantumano come la Chiesa aggredita dalle eresie che avanzano. Perdersi è quasi certo, la vita ha l’aspetto di un locus horridus. Il topos della selva inestricabile in cui Teofanès si perde e piange, ritorna, infatti, fedele ai modelli tradizionali: Dante, l’Orlando ariostesco, il Tancredi tassiano smarrito nella selva di Saron. Il pianto notturno, alla ricerca di speranza e protezione, non può non richiamare alla mente nel lettore accorto le invocazioni alla luna del Niso virgiliano, del Medoro di Ariosto, di Lucio nel romanzo di Apuleio, una storia di metamorfosi, appunto, come quella di Teofanès e Morfisa. La Cilento strizza l’occhio compiaciuto alla letteratura di ogni tempo, servendosene per costruire un romanzo ingegneristicamente combinatorio.
Kurt Vonnegut iniziava il suo Mattatoio n.5 con una frase lapidaria: tutto è accaduto, più o meno. Il punto è proprio questo: tutto è accaduto. Il panorama letterario vive oggi in una condizione di estrema saturazione. Tutto è già stato detto e la scelta postmodernistica del gioco combinatorio e citazionistico diventa quasi obbligata, come insegnano Calvino, Eco. Per questo il riferimento ad Eraclito è ripreso testualmente: la vita passa e nessuno si bagna due volte nella stessa acqua, p.88.
La scelta, poi, della metamorfosi come tema portante del romanzo (non solo Morfisa, infatti, è personaggio mutante, anche Teofanès ha una natura duplice: da uomo diviene donna) non può non ricordare il principio ovidiano espresso nelle Metamorfosi: omnia mutantur, nihil interit, espressione chiara del perpetuo divenire di ogni cosa, dell’instabilità dell’esistenza. Lo smarrimento di Teofanès nel labirinto napoletano e il suo pianto disperato nella selva dopo la festa dell’Oditrigia, dovuto anche al mescolarsi vorticoso di riti sacri e profani, devozione popolare e menadi danzanti, sembra dimostrare che quel mondo che noi desideriamo come un ordinato kosmos, di fatto danza sui piedi del caos. Forse, la presunzione logocentrica non ce la fa a spiegare il mondo e la convinzione che ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale, è solo stata una vana illusione, come aveva già dimostrato Nietzsche. Del resto lo ribadisce a chiare lettere Cioran, l'esistenza è indecifrabile: la cosa migliore, forse, è non spiegarci, non dare la chiave del nostro essere, la formula del nostro destino.
E l’ironia scelta dalla Cilento come veste stilistica del suo libro, svolge appunto la funzione di forza demistificante. Le certezze si sgretolano, le grandi verità vacillano, i punti di riferimento crollano. Un personaggio secondario del romanzo pronuncia in napoletano una frase-chiave: la verità! Sulo Dio ave la verità! Lo munno è sogno, lo sogno che ognuno sogna… (p. 184). È chiaramente riconoscibile la citazione dei versi di Sigismondo, protagonista del dramma di Calderón de la Barca, La vita è sogno, testo che al di là del suggestivo titolo, porta in scena il senso tragico dell’inafferrabilità della verità.
Il logos è perdente. La figura dei filosofi viene, pertanto, variamente ridicolizzata nel romanzo, proprio per mettere in evidenza l’insufficienza del loro sistema: i filosofi sono quelli che discutono del sesso degli angeli (p.81), ossia si perdono in discettazioni su temi vuoti e verità indimostrabili; il marito di Maria Merenda, ancora un’altra sorella di Eudochia, è un filosofo, cioè un inetto: è sua moglie, che, infatti, dotata di senso pratico, si occupa dei contratti, degli acquisti, delle vendite, (p. 86) ed è sempre Maria Merenda a definire Pietro Cènnamo, in senso dispregiativo e sarcastico, quel filosofo di mio marito, (p.114).

La diversità
Uno spazio privilegiato nel romanzo di A. Cilento è occupato dalla diversità.
Teofanes è omosessuale; ad un certo punto della storia subisce una metamorfosi e diventa donna; Morfisa è nera, nasce da uno stupro da parte di un arabo ai danni della madre Eudochia; è disabile, non può camminare: al posto dei piedi ha due moncherini. Si tratta di una diversità che a ben guardare ha un marchio femminile: Morfisa istituisce il Ducato delle Femmine; Teofanès solo in un corpo di donna riesce a giacere con passione e soddisfazione insieme al suo amato Costantino/Michele.
Parlare della donna vuol dire indagare antropologicamente la storia. La società è sempre stata androcratica e il libro lo testimonia, tutti i luoghi del potere sono controllati da uomini: le corti, gli assedi e le guerre, i monasteri, la cultura. Morfisa, però, è donna, governa e, novella Sherazade, racconta storie, ha il potere affabulante della parola e fa miracoli come una santa. Sovverte un ordine stabilito da secoli. Introduce la diversità nella storia. Infrange il tabù del silenzio normalmente imposto alle donne, usa magistralmente la parola, arriva al governo varando come primo atto politico una legge che impedisce il matrimonio per le donne sotto i sedici anni di età, dona a tutte le fanciulle del Ducato un libro e due monete d’oro, ordina ai monaci dello scriptorium della città di istruirle. E sin dall’inizio manifesta il suo programma di vita rivolgendosi a tutte le donne: fate sogni grandi.
La sua risposta al fallimento del logos non è quella che Italo Calvino chiamerebbe la resa al labirinto – lo smarrimento, cioè, sperimentato da Teofanès – bensì, la proclamazione del valore del sogno, il grande motore della creazione artistica. La proposta di Morfisa è un fil rouge tra Don Chisciotte e il Calvino delle Città invisibili che invita i lettori a cogliere nel mondo ciò che inferno non è, cioè, a trovare nell’arte e nella bellezza – che del sogno e della forza immaginativa sono la diretta emanazione – l’alternativa agli orrori della realtà.
Morfisa, donna, affabulatrice, tessitrice di racconti - sembra suggerire sapientemente A. Cilento - è la metafora dell’intellettuale che è sempre un “diverso”, diverge, cioè, dal mainstream, dal sistema, e lo fa inceppare, ne smaschera le falle, proprio come fa la fanciulla metamorfica quando coraggiosamente si oppone al padre pubblicamente e ne decreta la fine.
Emerge, nell’esaltazione del femminile, il bisogno da parte dell’autrice di sottolineare il valore del pathos – da sempre rappresentato dalla donna – contro il logos. In una Napoli che celebra la festa dell’Oditrigia, la folla si contorce, balla, canta:  le donne vengono a chiedere figli, le vergini cercano marito, le coniugate si procurano svago. Agli occhi di Teofanes tutto sembra strano, fuori dagli schemi: donne in preda all’ebbrezza della festa gli ricordano la descrizione sallustiana di Sempronia, colta e consapevole della propria femminilità, capace di osare più di quanto fosse a Roma concesso alle matrone: psallere et saltare elegantius quam necesse est probae, (p. 88).
Se il logos è quello al potere, se il logos è il maschile, bisogna constatare che è deludente: genera guerra, intrighi di corte, vizio e si sintetizza nella figura diabolica del Duca Giovanni, prepotente e incestuoso detentore del trono napoletano e pronto a concedere la mano della figlia Crisorroè a chiunque si prospetti come possibile alleato in nome della ragion di stato.

Il tempo
Nel vorticoso intreccio narrativo di ariostesca memoria e utile a evocare la dimensione labirintica della storia, anche il tempo è una dimensione antirealistica.
Nel gioco combinatorio della scrittura - magistralmente orchestrato da A. Cilento - i riferimenti riconoscibili non sono solo classici e italiani. Appare chiaro, infatti che Teofanès è stato costruito - con un accorta tessitura di rimandi - sul modello inglese di Orlando, il protagonista dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf, non solo perché come Orlando anche Teofanès è di natura ambigua, è uomo e donna, ma anche perché come il personaggio della Woolf, anche Teofanès attraversa il tempo. La storia narrata dalla Cilento, infatti, parte mille anni fa e attraversa cronotopi svariati: il Giappone della Regina Akiko, Costantinopoli nel 1204, Troyes nel 1176, Napoli nel 1370, Napoli, ancora, nel 1973-1980. Borges, in un racconto intitolato Il giardino dei sentieri che si biforcano,  nota che la narrativa si regge su una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. La letteratura, pare suggerire l’autrice, non è il luogo della mimesi del reale, non è la sede del frazionamento matematico del tempo e della scansione scientifica delle successioni cronologiche. La letteratura è fatta, per usare ancora un’espressione cara Borges, di Finzioni. 

Il fantastico e l'uovo
La dimensione del fantastico è preponderante nel romanzo di A. Cilento, che poggia, sì, su basi storiche, peraltro dettagliatamente ricostruite, ma è un libro che apre scenari fantastici dagli orizzonti dilatati e perciò sfugge ad ogni etichettatura di genere.
Un romanzo neostorico? No: monache volanti che spengono un incendio orinando sulle fiamme non appartengono ad alcuna memoria storica.
Genere fantastico? No: punti di forza del testo della Cilento sono l’attendibilità di date, dati e nomi recuperati da fonti storiografiche e la ricostruzione della fase storica relativa alla autonomia ducale di Napoli.
Morfisa o l’acqua che dorme contro ogni forma di zoliano engagement del letterato, dimostra, crocianamente, che raccontare è un lavoro di invenzione pura, di immaginazione. L’indagine della realtà è, infatti, oggetto della scienza che deve studiarne le leggi, della politica che deve trovare i rimedi a ciò che non funziona: l’arte è un’altra cosa. Secondo Mario Vargas Llosa i romanzi sono fatti di “menzogne” che aiutano ad affrontare l’esistenza: gli uomini non vivono solo di verità; hanno anche bisogno delle menzogne: quelle che inventano liberamente (…). La finzione arricchisce la loro esistenza, la completa. La letteratura amplia la vita umana, nota ancora Vargas Llosa.
Non si tratta, dunque, di fuggire dal mondo, ma di arricchire la realtà con la forza    del sogno. Lo spiega bene Julio Cortázar: il fantastico (…) non è una scappatoia, è un contributo a vivere più profondamente questa realtà.
Morfisa ne è certa: quando inventavo storie da bambina era perché avrei voluto camminare e non potevo, essere bella e mi era negato, avere una madre ma mi era stata strappata. (…) Invece io sognavo di essere libera, veloce, potente … L’ho sognato con così tanta intensità che una parte di me lo è diventata (p. 299). È questo il senso della letteratura, quello che è nascosto nell’uovo di Morfisa, simbolo della creatività.
Teofanès “legge” nell’uovo milioni di storie … quelle conosciute, antiche, degli eroi famosi – Ulisse, Ercole, Edipo, Medea, Didone, Enea -   e quelle non ancora scritte (p.170) e perciò ancora sconosciute a chi vive nella Napoli di mille anni fa. Teofanès vede una balena saltar fuori dalla onde contenute nell’uovo in cui vorticano le immagini che daranno vita ai racconti del futuro e riconosce Pinocchio nel ventre del pescecane, il capitano Achab che insegue Moby Dick, il vecchio Santiago di Hemingway che, solo su una barca, cerca a tutti i costi di pescare il gigantesco marlin. L’uovo è l’origine dell’invenzione artistica, che, però, non bisogna immaginare generata da fonti esterne all'animo umano. L’uovo rappresenta la forza creativa che ognuno deve trovare prima di tutto in sé. Perciò sbaglia Teofanès a cercare di rubarlo, di appropriarsene, nella speranza di trovare l’ispirazione artistica che possa renderlo famoso nei secoli e dare spessore alla sua esistenza. Il talento non si insegna. Come diceva Orazio nell’Ars poetica, occorrono ingenium e ars per essere poeti: ars, studio, esercizio, metodo, ma soprattutto ingenium, talento naturale, genio creativo. Certo indagare che cosa sia il talento è arduo. Forse Raymond Carver ne dà un’idea:  è un modo di vedere le cose originale e preciso, l’abilità di trovare il contesto giusto per esprimerlo, il dono di vedere quello che gli altri non hanno visto, il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato. Esattamente come sa fare Morfisa.
Morfisa o l’acqua che dorme è un’indagine sul senso del talento artistico. 
A. Cilento, secondo un consolidato schema binario, risalente già alle strutture esopiche del racconto, costruisce attraverso una scrittura che denota una lunga esperienza, due antitetici modelli narrativi: uno ideale, alto, nobile (Morfisa) e uno reale, perché molto diffuso, (Teofanès), fatto di racconti che rinviano a sogni già sognati e a libri già scritti. A quale dei due si assimila l’autrice, abile tessitrice di illusionismi citazionistici chiaramente riconducibili alla famosa tradizione del Barocco napoletano? Ai lettori…il compito della risposta.