Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

lunedì 4 luglio 2016

Il colore del vetro


FRANCESCO CARINGELLA
Il colore del vetro

Il colore del vetro è costruito sulle storie parallele del barese Maurizio Salinaro - un serio giudice penale detto Cristo per via della somiglianza con il Redentore di certi crocifissi lignei - e del lucano Nicola Morgese, un brillante Pubblico Ministero, tuttavia provato dalla vita, con un matrimonio fallito alle spalle. Il loro primo fulmineo incontro avviene durante le prove scritte di un concorso in magistratura che cambierà i loro destini. Tra vite complesse e amori difficili – Maurizio ha una relazione sospesa con Roberta e Nicola tenta una svolta sentimentale con Giovanna - i due si rivedranno in circostanze impreviste solo dopo dieci anni, durante i quali nelle loro esistenze, come in quelle di ogni uomo, scorrono gioie, dolori, speranze.



Interpretare un testo significa muoversi su un terreno accidentato. Interpretare  è come camminare inter petras, tra le pietre. Scegliere i sentieri giusti, però, consente di allargare gli orizzonti, di scoprire il mondo, di arricchire le prospettive.
La chiave di lettura de Il colore del vetro non è, certamente, univoca, perché i risvolti di significato e le interpretazioni di un libro sono infinite, tante quante sono i lettori, visto che sosteneva Alfieri -  leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare.

Il titolo scelto dall’autore si presenta suggestivo: Il colore del vetro allude al mutevole filtro cromatico del vetro attraverso il quale la realtà e la verità possono assumere diverse sfumature. La genesi del titolo si rintraccia in una frase di Duque de Rivas, un intellettuale del Romanticismo spagnolo:
In questo mondo traditore non c’è verità né menzogna.
Tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda. 



E, in effetti, la verità stessa sembra essere poliedrica.
Ma questa è un’acquisizione solo graduale da parte di Maurizio, l’alter ego letterario dell’autore.
Da un lato, infatti, emerge la convinzione del giudice protagonista, Maurizio, secondo cui la giustizia è frutto di regole ben precise: prima la colpa e poi la penala legge è uguale per tutti, un “intuitus personae” abbinato all’esatta conoscenza e ad un’esperta pratica del diritto, la capacità di decidere bene, ma anche di farlo presto. Decidere bene significa decidere presto: se la sentenza giunge in ritardo è già sbagliata.
Maurizio è convinto che esistano strade percorribili per poter giungere a punti fermi, a verità possibili: basta agire con metodo, sfuggire la fretta ed evitare lo spreco di minuti che proprio la fretta  porta con sé. (p. 134); l’importante è non girare a vuoto: se non si disperdono energie in movimenti e pensieri senza costrutto, c’è sempre modo di fare tutto. (p. 133). Rispetto per le norme, metodo e competenza sono fondamenti imprescindibili per il successo.
Nel contempo, però, si fa strada in Maurizio, progressivamente, la presa d’atto della complessità del reale e della problematicità delle scelte, delle decisioni, delle verità.
Perché - si chiese -  a un certo punto della vita, ciò che prima era così semplice diventa terribilmente complicato. Perché si perde la leggerezza? (p.174)
Le cose non erano bianche o nere, ma si coloravano di un grigio opaco che rendeva maledettamente difficile distinguere la verità dall’apparenza. (p. 164)
No, la verità non è mai come sembra, si convinse Maurizio. Cambia a seconda degli occhi con cui la si guarda. (166)
Mutano le prospettive e i punti di vista, si moltiplicano le possibilità e le spiegazioni: il confine tra vero e falso, giusto e ingiusto, bene e male diventa sempre più labile.
Risulta, quindi, quanto mai vera e appropriata la frase di Duque de Rivas, posta dall’autore in epigrafe al romanzo e ripresa a pagina 114: tutto dipende dal colore del vetro attraverso cui si guarda. Non ci sono verità nette e definitive, ma solo prospettive e angolazioni opportune da cui guardare. Bisogna solo capire quale sia quella giusta.
Va notato che a Caringella non interessa il relativismo delle verità interscambiabili, frutto di mode postmoderne: quella condotta dall’autore  è un’obiettiva indagine sulla forza del dubbio come strumento di progresso intellettuale, come sprone verso mete sempre nuove e non, invece, come paralizzante scepsi.
Brecht scriveva Sia lode al dubbioMa pure ammoniva
Con coloro che non riflettono e mai dubitano
si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
per schivare la decisione. Le teste
le usano solo per scuoterle. (…)
La loro attività consiste nell’oscillare.
Il loro motto preferito è: l’istruttoria continua.
Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
I personaggi di Caringella, e in particolare il giudice Maurizio, non sono vittime di una pietrificante ipertrofia del dubbio. Maurizio riflette e sa tradurre in azione proficua ed efficace le sue esplorazioni interiori.
Un elemento significativo che caratterizza Il colore del vetro è il contrasto – già pirandelliano - tra “maschera” e vita interiore, quella forza che urge alle porte dell’animo e che rivendica dignità. La maschera è il ruolo che i soggetti si autoimpongono,  come  quello di Pubblico Ministero assunto da Nicola; la maschera è anche il ruolo pubblico  che viene, invece, attribuito dalla società, come quello di giudice responsabile rivestito da Maurizio. Ma accanto ai ruoli codificati si fanno strada, in modo dirompente, varie istanze interiori: mondo pulsionale, dimensione affettiva, desiderio di ritrovare se stessi. Per questo Maurizio si trasferisce da Milano nella sua città d’origine, Bari, ancora a misura d’uomo e non persa nel caos metropolitano che sopprime nella frenesia quotidiana ogni barlume di autenticità.
Ne consegue che l’identità dell’uomo sembra moltiplicarsi come i riflessi della luce che sfiorano la superficie del vetro: schiacciato da una realtà inappagante e costretto a recitare parti imposte dal copione dell’esistenza, l’individuo non è più in-dividuus, ancorato, cioè, ad un’identità in cui si riconosca. I protagonisti del romanzo sono oppressi da ruoli che li ingabbiano. Maurizio è il giudice onesto, garantista e convinto della buona fede dell’imputato fino a prova contraria, ma, tuttavia, sente il peso dei suoi verdetti da cui dipende il corso della vita altrui:  tutti, amici e colleghi lo chiamavano Cristo non solo per la somiglianza con il Salvatore ma anche per l’eccessiva sensibilità. Maurizio vive lacerato da molteplici contraddizioni: le sue certezze razionali si scontrano con inevitabili emozioni.
Perciò, se è vero che il processo non deve mai confondersi con una vicenda umana e ci vuole un sano distacco per essere sereni e, quindi, giusti (p. 91), è anche vero che nella storia di chi delinque ci sono povertà, ignoranza, cattivi esempi. Non si sceglie la strada della criminalità.(p. 89). Freddezza tecnica e umana compassione: i conflitti convivono nell’animo umano.
Nicola, poi, si presenta come un aitante Pubblico Ministero, ma dietro brillanti apparenze, un inquietante destino fa di lui un uomo “ombra”, un’immagine, cara a Caringella e utile a costruire intorno a Nicola un alone di mistero che rende problematica la sua personalità. Lo dimostra il brano a pagina 170.
Scorse un’ombra dileguarsi fulminea. Come se qualcuno, sorpreso dai suoi occhi, fosse arretrato bruscamente per non farsi vedere. Fu solo un  attimo. Giovanna cercò di convincersi che la sua fosse stata soltanto un’impressione. Forse il desiderio di vedere Nicola, tanto forte da farlo comparire dietro quella finestra. O il riflesso del sole sul vetro. O, più semplicemente, un attimo di stanchezza.
Quella di Nicola Morgese è una presenza? È un’assenza?
Subentra nella fanciulla il tentativo di autoconvincersi:
Era un’impressione. Solo un’impressione.
Ma non c’è alcuna spiegazione. Resta il dubbio: qual è la verità?

La dicotomia tra essere e apparire amplifica e arricchisce la sostanza tematica de Il colore del vetro.
In gioco non c’è solo il carattere multiprospettico della verità che deve scontrarsi con le interpretazioni e i conflitti interiori di chi la cerca. Gradualmente diventa preponderante la riflessione sulla condizione esistenziale dell’uomo, sospeso tra essere e dover essere, tra forma e vita, tra bisogno di ancoraggi e perenne ricerca, tra l’obbligo di approdare a verità – almeno processuali – e la costante erosione dell’animo a causa del dubbio.

La complessa materia del romanzo di Caringella prende corpo nella struttura del giallo giudiziario, di cui Il colore del vetro possiede tutti gli ingredienti: reati, processo, tormento interiore dell’errore giudiziario, indagini, tensione verso la ricerca della verità, suspance, shock finale.
La traccia fondamentale de Il colore del vetro è costituita dal tema dominante della ricerca della verità. La “quête” è un archetipo narrativo antico, addirittura di matrice epica. È una “quête” quella di Ulisse che cerca Itaca, quella dei cavalieri arturiani che cercano il Santo Graal, quella di Orlando – nel Furioso di Ariosto – che cerca Angelica e quella di Renzo – ne I Promessi Sposi – che cerca Lucia. A ben guardare, tutti questi eroi cercatori affrontano un viaggio metaforico e svolgono un percorso alla ricerca di se stessi. Anche Maurizio intraprende un cammino di formazione: la sua ricerca affannosa della verità è un banco di prova. Maurizio vuole dimostrare prima di tutto a se stesso che in questo mondo traditore, per usare le parole di Duque de Rivas, c’è ancora spazio per la giustizia, c’è ancora spazio per la verità.
Il colore del vetro ruota intorno all’accertamento delle circostanze di reati concatenati, tende alla raccolta di dati, indizi e prove, si fonda sulla ricerca dell’identità dell’autore di alcune rapine, visto che sulla colpevolezza di quello incriminato e condannato Maurizio nutre seri dubbi, corroborati da una fitta rette di incongruenze, aporie, superficialità procedimentali da parte, soprattutto, del commissario responsabile delle indagini. Resta forte nel magistrato il tormento dell’errore giudiziario, il senso di colpa di aver emesso un verdetto sbrigativo, drammi interiori che nascono da una presa d’atto di aver inchiodato il destino di un uomo ad “una” verità – la più facile, la più ovvia – senza però accertare fino in fondo “la” verità, che, a questo punto inizia un duello ideale con la sua vittima, Maurizio.
La verità lo guardava severa. Aveva la forma di quel soffitto che, con occhi freddi e labbra serrate, stava accendendo con una luce sinistra il buio pesto della notte. (p. 122)
La verità viene antropomorfizzata, assume le fattezze di un mostro umano, prende corpo in un freddo soffitto, tormenta l’uomo tutto d’un pezzo, quello con la toga dentro, lo guarda con occhi che gelano e labbra che non parlano, non aiutano, non suggeriscono. È questa la solitudine più profonda di chi capisce con terrore di aver guardato il processo con la lente sbagliata: la lente del pregiudizio.
Cristo si soffermò sulle rivoluzioni dell’animo umano: un’ora prima, in tribunale, era sicurissimo della colpevolezza dell’imputato più d’ogni cosa al mondo; dopo quindici minuti era salito sulla metropolitana già tormentato dal dubbio; ora stava per tornare all’aperto animato dalla certezza dell’errore. (p.114)
Il climax ascendente delle emozioni di Maurizio rivela il suo dramma interiore: il peso della sentenza (…), il senso di colpa (…).
Si tratta di un dolore morale che produce effetti anche fisici.
Maurizio era dominato da un’inquietudine impalpabile. Un nodo alla gola, un brivido freddo nelle ossa: era la raggelante ombra dell’errore giudiziario. (p.92)
Nella coscienza di Maurizio, allora, insegnamenti remoti dei suoi maestri, dei suoi modelli professionali e anche etici, l’esperienza, lo spettro di un tragico evento del passato – un disperato suicidio, forse evitabile - si intrecciano fino a diventare il motore, l’elemento propulsivo di una ricerca personale, di un’istanza morale - oltre che psicologica - di revisione e cambiamento, non solo di fatti processuali e di atti giudiziari, ma, soprattutto, di consistenza biografica.
Caringella lascia intendere che  l’abusato  brocardo in claris non fit interpretatio - tipico del linguaggio giuridico -  rispecchia un semplicistico atteggiamento liquidatorio nei confronti di accadimenti che non sono, affatto chiari, logici, lineari, ma, al contrario, si presentano multiformi, aggrovigliati, labirintici, come ben sapevano intellettuali del calibro di Borges, Gadda, Calvino, di cui, in particolare, aleggia lo spirito culturale.
Per questo è difficile ascrivere Il colore del vetro  solo al genere del giallo giudiziario, componente, certo, prevalente nella struttura dell’opera.
Il romanzo di Caringella è stratificato e soprattutto si arricchisce di autoinvestigazioni da parte di Maurizio e di Nicola, che fanno assumere a Il colore del vetro il profilo di un romanzo psicologico. L’esplorazione nei meandri emotivi, l’incessante insinuazione di necessari ed efficaci dubbi come stimoli costanti al cammino verso l’accertamento della verità, i ricordi che affiorano come spiegazione dei comportamenti del presente, il dramma di Maurizio dimidiato tra ineludibili responsabilità professionali e profonde esigenze affettive; le ambiguità comportamentali di Nicola, la sua frustrazione per l’insuccesso, il bisogno di una stabilità sentimentale che spera di concretizzare con Giovanna, l’equilibrio precario tra reticoli di bugie, menzogne, colpe, istanze di riscatto morale e personale: si tratta di indagini, certo, ma non processuali.
L’asse narrativo si muove, dunque, su un doppio binario: giallo giudiziario e romanzo psicologico. I fatti giudiziari, i crimini da esaminare, la ricerca del vero colpevole e la scarcerazione di quello presunto si intrecciano con le vite, le emozioni, le sofferenze, le speranze di Maurizio e Nicola.
Tutto nel romanzo di Caringella si rivela duplice: la verità processuale non è quella che appare, le vite dei due protagonisti non sono quelle che loro vorrebbero. Non è un caso, allora, che la struttura binaria sia uno schema compositivo iterato: due sono i protagonisti del romanzo e ogni capitolo è  una tranche de vie di ognuno; ciascuno di loro fa riferimento a due donne che hanno segnato la loro vita; due sono i profili che emergono di Nicola Morgese, sospeso tra rispettabilità apparente e inquietanti ombre morali; due sono, infine, gli incontri tra Maurizio e Nicola e che costituiscono la chiave di lettura del romanzo nella sua interezza.
Giallo giudiziario e romanzo psicologico si fondono, come pure i piani temporali che si dipanano tra un presente in precario equilibrio, polverizzato in emozioni contrastanti – insoddisfazione, frustrazione, speranza – e un passato pure percepito dai protagonisti come un groviglio di errori, rimpianti, rimorsi cui fa da contraltare il bisogno di porvi rimedio e di chiedere alla vita un’altra chance.
A questo punto i livelli tematici compresenti si moltiplicano.
Campeggia la dimensione della ricerca della verità che faccia luce sulla misteriosa identità del recidivo rapinatore dai tratti inconfondibili e dalle tecniche collaudate. Ne deriva un’ombra di forte sospetto sugli esiti del processo conclusosi con la condanna di un innocente e con un errore giudiziario da parte del collegio giudicante, composto anche da Maurizio. Se l’errore persistesse, Maurizio, il giudice onesto e coscienzioso, sarebbe dannato all’inferno in terra. Si mette in moto, allora, la macchina della ricerca, l’inseguimento della verità.
Non è affatto secondario, poi, il tema della solitudine e del vuoto esistenziale di uomini divorati dal lavoro, provati dalle insoddisfazioni, bisognosi di un altrove, alla ricerca di nuove possibilità di autorealizzazione.
Profonda è, poi, l’analisi condotta sulle relazioni interumane, sul loro spessore, sulla loro incidenza nella vita di ognuno, sul valore degli incontri.
L’amore – lascia intendere l’autore -  rafforza  e muove la vita, attribuendole un senso che altrimenti sfuggirebbe in modo angoscioso. Si spiega così il cospicuo numero di pagine dedicato da Caringella ai percorsi sentimentali di Maurizio e Roberta, di Nicola e Giovanna.
La complessita strutturale e tematica del testo di Caringella si incanala in un tessuto narrativo condotto con il brio e l’ironia che solo la “baresità” può consentire.
Il colore del vetro è scritto, infatti, all’insegna della “baresità”, quella sana, saggia capacità di burlarsi del mondo intero, senza prendere troppo sul serio la sua schiacciante assurdità: battuta facile, fare scherzoso, periodi agili ed efficaci, dialoghi immediati e comunicativi, incursioni di un dialetto icastico stemperano, a tratti, la serietà dei temi.
Esemplificativo è, a questo proposito, il brano relativo alla “debacle” della capacità seduttiva femminile nel corso di una lunga relazione coniugale.
A un certo punto, a metà strada tra Bari e Monopoli, più o meno all’altezza dello svincolo per Mola, Gianni aveva iniziato a parlare del matrimonio. Serio. Compunto. Un impegno importante da assumere con attenzione, un vincolo per la vita … mica uno scherzo. Poi, sempre con lo stesso tono grave, aveva cominciato a spiegare i cambiamenti che il matrimonio, anche il più felice, produce nel ménage di coppia. Cambiamenti, soprattutto per le mogli, rese diverse dal peso della responsabilità che assumono mettendo al mondo dei figli. Aveva puntualizzato, dopo una pausa strategica, che il tormento più grande che registra i mutamenti delle donne dopo le nozze è il pigiama. Dopo l’ennesima pausa aveva chiarito il concetto. Con tono sempre grave. Da fidanzata ti entra nel letto una tigre assetata di sesso, dalle movenze felpate e dallo sguardo feroce, fasciata da una vestaglietta stretta e corta, di pizzo trasparente, vedo e non vedo, che lascia balenare un perizoma nero da infarto. Dopo dieci giorni di matrimonio sparisce il perizoma, sostituito da una dignitosa mutandina di seta mentre la vestaglietta resta corta ma diventa meno trasparente: i movimenti sono già stanchi mentre lo sguardo è tra l’assente e l’annoiato. Dopo una mesata entra in scena una bella mutandona bianca modello Nonna Papera coperta alla vista da una vestaglia lunga e scura. Ancora qualche altra settimana ed ecco il segno della fine: esce dal bagno, dove si è preparata per la notte un essere di sesso incerto, dagli occhi spenti e dalle movenze claudicanti, che si perde in un pigiamone sovrastato dal faccione di uno dei sette nani: in genere Pisolo, giusto per ricordare che alla vecchia predatrice il letto, ormai, serve solo per dormire. Il pigiama antisesso, che fa passare ogni fantasia.

Il colore del vetro non nasce da un atto creativo improvvisato. Sono ben dichiarati, infatti, dall’autore i modelli di riferimento culturale e ideologico: Italo Calvino e Milan Kundera che nelle loro opere riproducono i tratti di un’esistenza umana labirintica e ingabbiante.
Anche il mondo descritto da Caringella è desertificato e senza ancoraggi: la certezza del diritto è vacillante e presenta nelle sue applicazioni ampi margini di errore; la cattedrale barese, offre solo un momentaneo sollievo a Maurizio stanco e desideroso solo di sedersi sulle scale di S. Nicola, non di cercare, invece, rifugio nella fede e nella preghiera; la famiglia di Nicola è disgregata e paralizzata da ricatti coniugali, figli contesi, verità nascoste e inaspettatamente emerse; l’amicizia non è eterna, la morte sottrae volti alla vita e li confina nei ricordi.
Si capisce, allora, che la “baresità” sottesa allo stile di Caringella non è affatto una vis comica fine a se stessa, ma nasconde un fondo di amarezza e evoca l’umorismo pirandelliano, quel sottile “sentimento del contrario”  - come amava definirlo Pirandello - che dietro il sorriso cela un dolore malinconico, non urlato, ma persistente; si tratta della capacità di vedere una cosa da prospettive diverse e di cogliere la duplicità di ogni dato: anche ciò che fa sorridere nasconde una sofferenza silenziosa.
Per poter suscitare allegria bisogna conoscere bene il suo contrario, la tristezza: solo così si riesce a esorcizzarla con un gesto, una battuta o anche solo uno sguardo. (p. 247)
Su tutto aleggia, poi, una imperscrutabile forza del destino, che catapulta il lettore verso un’inaspettata conclusione. È un implicito tributo al macromodello letterario di riferimento dei Caringella, lo spagnolo Duque de Rivas, che ha immortalato nella sua più nota opera, Don Álvaro o la fuerza del sino, l’energia distruttiva e travolgente di una fatalità incombente, fatta di incontrollabili circostanze contro cui il calcolo previsionale, la forza della ragione, la “virtù” machiavellica, possono ben poco e contro cui è inutile e vano opporre resistenza.
Nel labirintico naufragare dell’esperienza esistenziale gravata, peraltro, dalla inevitabile forza del destino sono possibili due atteggiamenti: la resa o la sfida al labirinto.
Kundera ha ben descritto la condizione di scacco e di disfatta nel romanzo L’insostenibile leggerezza dell’essere: il crollo dei fondamenti genera un’euforico senso di libertà dalle ideologie ingabbianti; tuttavia lascia all’uomo un forte senso di responsabilità e di solitudine che nasce dalla consapevolezza di non avere più alcun punto di riferimento, nessuna fede, nessuna consolazione: la leggerezza diventa, allora, un peso insostenibile, fatto di vuoto, vertigine, disorientamento. La sensazione di Maurizio che nelle serate trascorse a Milano con gli amici ci sia sempre una punta d’inutilità e che tutto avvenga senza un perché segna lo spaesamento dell’uomo contemporaneo. La percezione conclusiva provata da Nicola di aver vissuto una vita inutile, il dileguarsi di ogni sogno, di ogni speranza, la presa d’atto di un’incontrovertibilità assoluta, di un per sempre irrevocabile sono l’emblema di una generazione che ormai convive con un ospite inquietante  - per usare la nota espressione di Galimberti - che si chiama nichilismo.
Italo Calvino, invece, nota che perdersi nel labirinto e l’assenza di vie d’uscita sono, sì, le condizioni esistenziali più proprie dell’uomo, tuttavia afferma pure che quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. (…)
     Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto. (…)
     Oggi cominciamo a richiedere dalla letteratura qualcosa in più d’una conoscenza dell’epoca o d’una mimesi degli aspetti esterni degli oggetti o di quelli interni dell’animo umano. (…)
     Quel che conta per noi è la sua incidenza nella storia degli uomini.
     (La sfida al labirinto, 1962)
     Non basta, insomma, una letteratura fatta di mimesi fotografica di un mondo desertificato; non è sufficiente neanche una letteratura che sia solo mera introspezione: occorre una letteratura all’altezza della problematicità e della complessità dell’oggi, capace di sfidare il labirinto e di fare proposte, nonostante tutto.

Con una scrittura limpida e briosa Caringella indica una via praticabile: l’amore come sfida possibile all’annichilimento.
Calvino scriveva, nel romanzo La giornata di uno scrutatore, che l’umano arriva dove arriva l’amore: non ha confini se non quelli che gli diamo. La scelta appassionata che avvicina Roberta a Maurizio, pur tra rinunce e sacrifici, ne è la chiara dimostrazione.
Parlando di Maurizio e della sua incerta relazione con Roberta, l’autore scrive: non capiva se il suo amore per Roberta era diventato un amore difficile o, più semplicemente un amore finito.(p.36). Citando il Calvino de Gli amori difficili, Maurizio si interroga inizialmente sulla consistenza del suo rapporto con Roberta: distacco, ricomposizione, passione, comunione sono le tappe della riscoperta dell’amore. Maurizio avverte infine la sensazione rara di un’armonia assoluta con il mondo: Maurizio capì con una chiarezza che mai aveva avuto, quanto fosse innamorato di Roberta. L’amava alla follia. Più del primo giorno. La salita era veramente finita e una lunga discesa li aspettava con impazienza. (pp.256-257)
Del resto questa è la stessa filosofia di Nicola: anche per lui l’amore è la sostanza dell’esistere. Rivolgendosi a Giovanna le confida: non ho mai creduto alle persone sole per scelta. La solitudine è una condizione innaturale per l’uomo (…) Da qualche parte ho letto che nessuno si salva da solo. (…) Cerchiamo, dalla mattina alla sera, una scialuppa che ci salvi dalle onde e ci tracci la rotta da seguire. (p. 27)
Citando Margaret Mazzantini (Nessuno si salva da solo), Nicola si spinge oltre Maurizio: conta l’amore, sì, ma nutrito di reciprocità, di cura per l’altro, di empatia e solidarietà. L’uomo postmoderno pur inebriato dalla cesura netta con una tradizione ingombrante, non riesce a reggere il peso del vuoto e della vertigine, lo spettro della solitudine, e cerca ancoraggi.

Anche l’amore, però, come tutte le cose umane, soggiace alla forza del destino, direbbe Duque de Rivas: quelli di Maurizio e Nicola sono – per motivi diversi – amori difficili, di fatto irrealizzati.
… E anche le verità scoperte non garantiscono salvezze e  orizzonti di senso.
La verità si disegnò netta all’improvviso, nella sua strepitosa evidenza (…). La folgorazione rapida di Maurizio che scopre la verità nella sua nuda essenza, si accompagna con la fulminea presa di coscienza dell’assurdità della esistenza umana.
Tutto ha inizio con un errore, un errore giudiziario. Tutto finisce con un errore. E scoprire la verità non fa luce su niente, perché il destino si fa beffe dell’uomo e delle sue verità.
La storia della mia vita aveva avuto origine da un errore (…) da quel caso, da quell’assurdità. E sentii con terrore che le cose nate per errore sono tanto reali quanto le cose nate a ragione e per necessità. (…)
E se la storia scherzasse? (…)
E in quel momento mi resi conto di quanto io stesso e tutta la mia vita eravamo compresi in uno scherzo molto più vasto (…) assolutamente irrevocabile.
(M. Kundera, Lo scherzo)
Ludvik, il protagonista de Lo scherzo, la cui storia comincia con un errore, si pone un’inquietante domanda: E se la storia scherzasse?
Strana la vita! esclama Maurizio, che naufraga tra i giochi e gli errori del destino.
C’è, quindi, un filo rosso che collega Ludvik a Maurizio, Caringella a Kundera: lo scherzo del destino stende un velo sulla storia umana.
Maurizio Salinaro e Nicola Morgese vedono le loro vite giocare una partita con il fato. Ma è una sfida impari: la logica umana che accerta le verità, ricostruisce le cause e gli effetti, è perdente contro l’assurdo.
Il romanzo di Francesco Caringella, dunque, ci riguarda, riguarda il nostro rapporto con il mondo, con la vita, con la storia, con noi stessi.
Marziale diceva che un libro vale se ha il sapore dell’uomo.
Il colore del vetro vale perché ha il sapore dell'uomo.

domenica 3 luglio 2016

Il grande inquisitore. Il peso della libertà

Vasilij Perov, Ritratto di Dostoevskij
F. Dostoevskij, Il grande inquisitore
G. Colombo, Il peso della libertà

Allora daremo agli uomini una quieta, umile felicità, la felicità dei deboli ... accetteranno le nostre decisioni perché li avranno liberati dalla grave preoccupazione e dai terribili tormenti che oggi comporta la libera decisione individuale. (F. Dostoevskij, Il grande inquisitore)

Colombo trae da Dostoevskij l'eterno dilemma sull'essenza della libertà.
L'uomo è immaturo per gestirla?
Dio lo ha condannato a sopportare il peso della libertà?
E se è così, che razza di dono Dio ci ha fatto? 
Paradossalmente prima di Sartre, l'autore russo, apripista dell'esistenzialismo, lascia intendere che l'uomo è condannato a essere libero. Libertà significa scegliere, sempre, inevitabilmente, con responsabilità. E nessuno può sostituirsi ad un altro nell'esercizio dell'atto di scelta. Farebbe comodo demandare ad altri la gestione del nostro destino, affidarsi alle scelte di chi decida per noi. Ma questa è la visione immatura e mortificante dell'uomo, quella che ha fatto da base agli "stati etici" e che ha battezzato efferate dittature.
Libertà è, invece, democrazia, ce lo ha insegnato la Rivoluzione francese.
Libertà è esercizio della scelta e rispetto della scelta altrui, ce lo hanno detto Habermas e Vattimo, maestri delle "etiche in dialogo".
Libertà è rispetto dell'altro per il solo fatto che esista: i suoi giudizi, certo, possono anche confliggere con i miei obiettivi, ma pure è giusto che siano espressi.
Libertà è empatia, buon senso.
Libertà è essere uomini ... maturi... consapevoli artefici del proprio destino.
Libertà è amore e solo chi ama rispetta.
Il grande inquisitore non desiste dalla decisione di giustiziare Cristo, artefice, nella persona del Padre, dell'infelicità umana per via del dono della libertà, però Cristo lo spiazza con un bacio. L'amore rende liberi.
Dio attraverso l'amore lascia gli uomini liberi di scegliere, di scegliere anche il male, ma suggerisce la strada per vivere insieme (G. Colombo).
Senza essere come Dio, basterebbe il rispetto, non coinvolto fino all'amore, il riconoscimento della dignità dell'altro, per vivere bene insieme ai propri simili senza tormenti.
Non è sufficiente proclamare la democrazia per avere uno stato senza dolore.
Per essere liberi occorrono impegno e fatica (G. Colombo). La libertà è un'infinita conquista.

UNO STUDIO. L'incontro, la distanza, la speranza

L’ESPERIENZA DELL’INCONTRO NELLA NARRATIVA CONTEMPORANEA.

L’incontro, la distanza, la speranza.
FRED UHLMAN, L’amico ritrovato, 1971
E’ la storia dell’amicizia tra l’ebreo Hans e il tedesco Konradin. I genitori di Hans mandano il figlio a studiare in America, Konradin resta in Germania, in un’Europa costretta a scegliere tra Stalin e Hitler. Konradin sceglie Hitler. La vicenda è ambientata nella Germania nazista del 1933, a ridosso dell’emanazione delle leggi razziali. Paradossalmente, nonostante l’antisemitismo culminato nell’Olocausto, Hans, l’ebreo, sopravvive; l’America, terra della libertà lo salva. Alla fine della guerra Hans riceve dalla Germania una richiesta di fondi per la costruzione di un monumento funebre alla memoria dei giovani caduti in guerra. Tra i nomi legge quello di Konradin, giustiziato perché implicato nel complotto per uccidere Hitler.
L’amico ritrovato è il racconto di un incontro possibile al di là delle divergenze ideologiche e razziali. Konradin pur morto è da Hans ritrovato nella sua conversione antinazista: il ritrovamento è il recupero di un’affinità che sfida le barriere del tempo mortale. Anche se la vicenda si conclude con la scoperta della morte Konradin, ciò che interessa è la sopravvivenza di un legame di amicizia corroborato dalla conversione politica di Konradin in senso antihitleriano. L’amicizia resta nonostante la morte, anzi, la morte rivela l’annullamento delle distanze politico-ideologiche tra Konradin e Hans.

PAOLO GIORDANO, La solitudine dei numeri primi, 2008
   
Al centro del romanzo campeggia la vicenda di Alice e Mattia, soli e perduti, vicini, ma non abbastanza per sfiorarsi davvero. Alice, anoressica, legata ad un uomo, Fabio, che non ama; Mattia schiacciato da un rimorso insanabile, quello di aver lasciato sola in un parco la sorellina Michela, mai più ritrovata.
Ragazzi di buona famiglia, hanno tutto, tranne la felicità, non comunicano e non traducono in atto il loro inconfessato amore. Il loro incontro è impossibile, evanescente. Il romanzo si chiude all’insegna della solitudine e dell’incomunicabilità nell’era del sommo benessere, sotto un cielo azzurro monotono e sullo sfondo di un fruscio debole e sonnolento.
Monotonia, debolezza, sonnolenza traducono la gravità di una solitudine che è vuoto, mancanza di certezze, di mete, di tensioni ideali, frutto del nichilismo postmodernista: la libertà dai valori ingabbianti della tradizione e dalle ideologie forti si è tradotta in spaesamento, vertigine, solitudine.
Insomma, diceva Milan Kundera, è l’insostenibile leggerezza dell’essere a schiacciare il singolo e a diluirlo nel non senso di un’esistenza svuotata.
Sembra di rileggere Montale, quando in Forse un mattino andando in un’aria di vetro, inverosimilmente tersa, percepisce il nulla alle sue spalle e il vuoto dietro di sé: barcollando con un terrore da ubriaco, consapevole di non avere più rassicuranti puntelli, il poeta prosegue con il suo amaro segreto, la sofferente solitudine di uno spirito eletto, di un numero primo, una sofferenza indicibile e incomprensibile ai più, immersi, invece, in una indifferente normalità.

IVAN COTRONEO, Un bacio, 2010 
E’ un romanzo veloce come uno sparo, un racconto intenso come un sogno d’impossibile felicità.
E’ la storia del controverso amore di Lorenzo per Antonio, due adolescenti.
E’ un amore omosessuale e unilaterale, quello di Lorenzo, schiacciato dall’omofobia, accarezzato da un solo bacio, ucciso dal fulmineo sparo esploso in classe da Antonio. Ammazzare Lorenzo significa per Antonio mettere a tacere i pregiudizi sociali, annientare le paventate latenze omoerotiche che non gli hanno fatto rifiutare il bacio di Lorenzo, significa annullare in sé ogni sospetto di diversità, in una società che ci vuole tutti uguali.
Il primo capitolo ha la focalizzazione fissa su Lorenzo, sulla sua storia di figlio adottivo, sul graduale crescendo del suo innamoramento. Il terzo capitolo esprime il punto di vista di Antonio e descrive la sua paura di un amore omosessuale.
Al centro si situa la storia dell’amore inconfessato di Elena Valente, la professoressa di Lorenzo e Antonio, per Valeria, sua ex alunna. Elena è la sola ad avere un occhio di riguardo per Lorenzo, lo consola, lo comprende, lo protegge dagli scherzi volgari dei suoi coetanei. Si immedesima in lui, sa cosa significa non poter amare chi si ama a causa dei pregiudizi.
All’improvviso Elena parte per Milano, decisa a restituire un po’ di felicità a Valeria, in piena crisi coniugale con Pietro, e a confessarle il suo amore. Ma, giunta a Milano, la prima cosa che avverte è l’indifferenza della gente: nessuno sembrò accorgersi di lei quando scese dal treno.
L’indifferenza e l’incomunicabilità trasformano l’incontro tra Elena e Valeria in una visita convenzionale: Elena mentre era di nuovo in treno pensò alle parole che non le aveva detto, e che era certa che non si sarebbero dette più.
L’incontro, la visita, l’attesa del caffè, il saluto: queste tappe convenzionali hanno trasformato l’occasione attesa da una vita, in silenzio, in domande sospese nell’aria, in sogni e desideri delusi, frustrati per sempre.
L’autore paragona Elena alla Eveline di Joyce: l’impotenza ad agire, la debolezza della volontà, la mancata corrispondenza tra attesa e realtà, l’inettitudine, l’azione mai agita, il desiderio mai tradotto in atto sono le cifre dell’uomo contemporaneo.
Nella professoressa Valente non c’è nulla della prorompenza epica della più nota Elena mitologica, né alcun vigore nell’azione nonostante l’energia che il suo cognome evoca.
L’incontro interumano è impossibile: una di fronte all’altra Elena e Valeria rimasero in silenzio, e c’era quella domanda, sospesa nell’aria. Elena torna a casa e - scrive l’autore - non aveva voglia di vedere nessuno.
E’ il trionfo del solipsismo. Un bacio è il racconto degli incontri impossibili, tragici e fulminei come uno sparo, incompiuti, sospesi, temuti (nel caso di Antonio) o auspicati (da Lorenzo e da Elena), ma mai realizzati nella loro efficacia.

NICCOLO’ AMMANITI, Io e te, 2010 
E’ la storia di Lorenzo, un percorso di formazione, di costruzione dell’identità di un adolescente problematico. Al centro del racconto si staglia la vicenda di un disadattamento al mondo che Lorenzo, il protagonista, descrive con disgusto: è solo competizione, sopraffazione e violenza. Meglio la solitudine. Lorenzo inventa una bugia, dice alla madre di voler partire per la settimana bianca con la famiglia di un’amica. Invece si nasconde in cantina per stare solo con se stesso. Inaspettatamente lo raggiunge la sorellastra semisconosciuta, Olivia, drogata e bisognosa di affetto. Inizialmente infastidito dalla presenza di Olivia, Lorenzo matura, le si affeziona, la aiuta a superare i dolori delle crisi di astinenza, capisce che in un mondo violento e senza senso, ciò che conta è il viaggio, non la meta, come già Kavafis scriveva in Itaca. E nel viaggio di Lorenzo l’esperienza più forte è quella dell’incontro con Olivia, grazie alla quale il ragazzo scopre la ricchezza dell’affetto, lo spessore delle relazioni umane, e diventa uomo.
Tuttavia dopo l’incontro e la promessa di rinnovarlo, per i due fratelli non c’è la speranza di un futuro insieme. Ancora una volta l’incontro è fugace, impalpabile, evanescente, non duraturo. L’unico altro incontro di cui l’autore dà notizia è quello all’obitorio, dove Lorenzo riconosce, su un freddo tavolo, Olivia, coperta da un lenzuolo. L’incontro si è risolto in perdita, mancanza, morte, proprio come nel caso dei protagonisti del racconto di Cotroneo.

Con costruzione circolare si ritorna al punto di partenza. La morte chiudeva, infatti, anche l’incontro tra Hans e Konradin. Tuttavia si trattava di una morte – quella del tedesco Konradin – aperta all’esperienza di un’amicizia ritrovata. Con Uhlman la morte non nega la possibilità dell’incontro, ma segna l’inizio di una riscoperta amicizia che sfida le barriere della vita umana. Un’idea, la conversione di Konradin all’antinazismo, la lotta per la libertà hanno annullato la distanza tra il mondo del tedesco Konradin e quello dell’ebreo Hans. In un’Europa soffocata dalla guerra, annichilita dall’orrore, sopravvive, tuttavia un barlume di speranza, che consentirà la costruzione del futuro.
L’esperienza dell’incontro è il motore della trama, dà senso alla vita di Hans e Konradin, sfida i limiti del tempo, resta possibile anche dopo la morte.
Quando Uhlman scrive, negli anni ’70 del Novecento, fatti di contestazioni, rivoluzioni, lotte e rivendicazioni, il mondo è ancora orientato alla realizzazione di principi costruttivi, è alimentato da una tensione ideale rispetto a cui conformare comportamenti e aspettative e che dà sostanza alle relazioni interumane: la comunicazione di messaggi dà corpo agli incontri che animano una società in cui l’aggregazione è la forza da cui parte la possibilità del cambiamento.
Lo spessore profondo e l’intensità dell’incontro tra due mondi antitetici nella Germania nazista – quello tedesco di Konradin e quello ebreo di Hans – significano che il cambiamento è possibile, che non si è giunti ancora alla fine della storia e che sperare in un’alternativa all’orrore è possibile, nonostante tutto.
La forza dell’incontro tra Konradin e Hans è una risposta costruttiva, contestuale ad un momento storico – quello nato dal ’68 - che chiede e cerca un società migliore.

Man mano che ci si inoltra nel Novecento e ci si spinge nel primo decennio del XXI secolo, si assiste al passaggio dall’esperienza dell’incontro all’incontro come esperienza della fine.
Nota Luperini nel saggio L’incontro e il caso, che l’incontro si smaterializza, diventa impossibile, evanescente, rinviato, procrastinato e mai realizzato: è il caso di Alice e Mattia, che, nel romanzo di P. Giordano, si cercano sin dall’adolescenza, si desiderano, ma le loro vite non riescono a intrecciarsi. C’è una dicotomia evidente: da un lato l’incontro è sentito, desiderato, dall’altro non si concretizza in nessun modo.
Alice e Mattia naufragano nel vuoto terrificante di un mondo frantumato, privo di un quadro di riferimento condiviso e nel quale le cifre esistenziali sono solo mancanze: assenza della famiglia, traumi infantili e esperienze di abbandono, benessere materiale che non compensa il vuoto interiore, l’anoressia di Alice, l’incapacità di costruire un rapporto e di comunicare sentimenti.
Alice e Mattia sono privi di spinte propulsive, epigoni degli inetti del Novecento, si caratterizzano per un’aspirazione all’amore perennemente indefinita, inconcludenti e depotenziati, disorientati e incapaci di conformare la propria vita a un progetto, a un disegno: l’altro non è polo di un dialogo, ma solo segno indecifrabile di un’alterità e le distanze sono irriducibili. Ciò che resta è l’ipertrofia di un’interiorità solitaria che ingabbia parole e sentimenti.
E la stessa impotenza ad agire, nel racconto di Cotroneo, caratterizza Elena Valente, paralizzata nelle sue emozioni e incapace di aprirsi a Valeria.
L’era postmoderna, con la fine delle grandi narrazioni, con il crollo definitivo di tutti i parametri di riferimento, con l’abbandono di ogni rassicurante “Itaca”, ha trasformato gli incontri in “appuntamenti al buio”, vaghe fluttuazioni di ombre che non si decifrano né hanno le chiavi di decodificazione della realtà, che è il regno del caos, dell’assenza, della mancanza.
E l’incomunicabilità, l’evanescenza degli incontri ne sono l’immediata registrazione.
Gli inetti del Novecento avevano come estremo baluardo la Letteratura, ridotta, certo, a mero osservatorio, incapace di comunicare messaggi e ridimensionata a mera funzione diagnostica; ora i protagonisti della narrativa contemporanea non hanno niente: figli di buona famiglia, possiedono tutto, forse sono stati privati dei desideri; l’ipercapitalismo ha azzerato ogni tensione, ha gettato nel silenzio ogni emozione, ha reificato le relazioni, ha mercificato i rapporti umani, ha ridotto il potere delle parole, ha impedito ogni comunicazione.
All’impalpabilità degli incontri si affianca pure una loro inquietante tragicità.
La morte di Olivia in Ammaniti annulla ogni conquista, segna l’impossibilità di costruire una relazione affettiva in un mondo in cui l’infelicità è indicibile - bellezza e efficienza sono gli standard vincenti - e si può solo annegarla nella droga, vestibolo della morte.
Lo sparo che uccide Lorenzo in Un bacio annienta ogni possibilità di chiarimento, comunicazione, spiegazione.
La storia sembra dirigersi inevitabilmente verso la negazione dell’altro, verso l’annullamento di possibilità e occasioni di costruire l’esistenza in relazione all’altro.
La categoria esistenziale è senza dubbio la solitudine, quella solitudine che germoglia disastri, scrive Baricco in Emmaus, romanzo in cui descrive la gioventù bruciata del XXI secolo, fatta di gesti vuoti, illusorie vicinanze e immensi deserti relazionali, suicidi, droga, omicidi, sesso slegato dai sentimenti, vite perse in ragnatele di sentieri. Quelli tratteggiati da Baricco sono giovani che come rettili di palude ristagnano e scambiano l’orrore e l’infelicità per il doveroso corso delle cose, eredi per tradizione di una totale incapacità verso la tragedia, al punto da sparare – come fa Antonio verso Lorenzo in Un bacio – senza pensare. Antonio non pensa che quella che sta sopprimendo è una vita umana e non solo la causa del suo disagio sociale, in una società omofoba e terrorizzata dal diverso come sintesi di ogni alterità che sfugge al controllo di un ordine precostituito.
La vera dimensione tragica dell’oggi sta proprio nell’incapacità verso la tragedia: l’uomo non ha più la statura dell’eroe, non reagisce al dolore, non ne fa la tappa di un percorso di crescita, dimentico dei manzoniani moniti relativi alla provida sventura. L’uomo contemporaneo, assuefatto ad ogni orrore, lontano da ogni immagine di felicità possibile, se non quella di istantanee emozioni, ristagna in una realtà senza prospettive, non è più forte come Ulisse, vittorioso e forte dopo ogni incontro, con le Sirene, con Polifemo, con Circe. All’uomo contemporaneo è negata la possibilità dell’incontro come esperienza costruttiva che, se pure avviene, si risolve in perdita: Lorenzo in Io e te conosce Olivia, riconosce in lei la sorella da amare, la aiuta nella malattia e poi la perde. La morte di lei gli sottrae l’occasione di una relazione affettiva.
La tradizione ha costruito il prototipo dell’uomo forte, dell’homo faber sui ipsius, fiducioso nella forza dell’umana ragione, modello di uomo compiuto. I protagonisti dei romanzi di Giordano, Ammaniti e Cotroneo sono, invece, incompiuti, non solo perché adolescenti: si tratta di giovani chiusi in un solipsismo quasi patologico – nel caso di Alice e Mattia - oppure orgoglioso – nel caso, invece, di Lorenzo in Io e te- , tale da portare i giovani a rifiutare ogni confronto con la società; la dimensione della solitudine di Lorenzo in Cotroneo, invece, è aggravata dalla sua condizione di orfano – cui comunque trova rimedio con l’adozione - e dal fatto di essere inappagato sessualmente e affettivamente da un amore che i pregiudizi sociali gli negano.
In entrambi i casi è la società che schiaccia gli individui, o per indifferenza o per eccessiva competitività o per omofobia.
La tradizione, ancora, ha costruito il modello dell’uomo forte, proiettato verso la realizzazione di mete di cui la storia ha reso atto, l’uomo che, nella convinzione che sapere è potere, asserviva la scienza al dominio del mondo. Il presente, invece, ci restituisce soggetti depotenziati, chiusi in una straziante incomunicabilità, incapaci di costruire il proprio destino o impossibilitati a farlo da una società che li esclude.
Il Lorenzo di Ammaniti si sente mosca e si traveste da vespa per vivere nel mondo: la società è competizione violenta, se non si è aggressivi, non si è vincenti. Tutto tende verso etiche performative, basate sullo scontro più che sul confronto costruttivo, anche nelle normali conversazioni ordinarie.
La dimensione della morte che aleggia nei romanzi contemporanei è l’allegoria del nuovo tempo: dietro alle morti fisiche di singoli personaggi, si legge la morte di ogni possibilità comunicativa, la morte delle relazioni umane, la preclusione dell’incontro, la certezza della fine.
Nel trionfante relativismo, in cui ogni verità è possibile, nel magma dell’indistinto, nel buio c’è soltanto solitudine.
Da un lato, la libertà per cui l’uomo ha sempre lottato ha fatto sì che cadesse la gabbia delle autorità della tradizione e che si aprissero nuovi orizzonti, non fissi, ma continuamente dilatabili in una molteplicità di prospettive mobili.
D’altra parte la libertà è, però, anche rinuncia, è quel gorgo buio sotto il raggio pallido di una luna lontana, scrive Alfonso D’Errico, in L’incontro, la storia di un incontro impossibile tra due ex sessantottini imborghesiti. 

D’Errico sceglie un titolo emblematico alla sua raccolta di racconti brevi, Improbabili incontri, titolo che marca il carattere evanescente delle relazioni umane nella società contemporanea. Nel racconto sopra citato i due protagonisti, Francesco e Cristina in mezzo a una folla in festa, che li sballottolava nel suo chiassoso abbraccio… si cercavano con lo sguardo, inseguiti dai ricordi… Non riuscirono, però, a scambiarsi neppure un cenno di saluto
Rinunciare in nome della libertà alle rassicuranti certezze della tradizione fa piombare l’uomo nel dramma dello spaesamento, in cui tutto è ombra, fragile e precaria. Luperini parla di una situazione d’impotenza gnoseologica, D’Errico descrive persone e relazioni che mettono in comunicazione mere identità fisiche separate dall’anima, volti come immagini confuse, come fotografie non messe a fuoco: conoscersi è impossibile e se la realtà è caos – dopo il crepuscolo degli idoli – non c’è verità che la spieghi né risposta che illumini. La quotidianità, poi, si carica di un’amarezza ancora più profonda: alla morte degli incontri reali si sostituisce la virtualità della vita risolta in illusorie e finte relazioni che accentuano il pathos della distanza.
Eppure, l’istinto a stare vicini di cui parla Baricco in Emmaus, è lento a morire. 
In una chiesa semivuota dopo la messa, con le spalle all’altare, il giovane io narrante di Emmaus si avvicina ad Andre, la ragazza che ha mosso l’intera storia: mi fermai e le feci un saluto. Lei si spostò un po’ nel banco, lasciandomi lo spazio. Mi sedetti accanto a lei.
Nel caos di una società vuota, in cui nulla ha più senso ed è vano cercare risposte, ciò che resta è una chiesa, un uomo, una donna, Dio e l’uomo, la speranza d’incontrare Dio, la speranza di ridurre le distanze tra gli uomini.
Ciò che resta è la nostalgia della speranza, il bisogno di credere.
Immaginare l’uomo adulto e capace di gestire la vertigine e lo spaesamento conseguenti al crollo delle ideologie è stato un passo troppo lungo. L’uomo è un bambino, cerca incontri, ha bisogno di fedi.

Io non ho paura

NICCOLO' AMMANITI
Io non ho paura

Dovevo andarmene via di corsa, ma la curiosità mi spingeva a dare un'occhiata. Se facevo attenzione, se rimanevo tra gli alberi, non mi vedevano.

Michele Amitrano, nove anni, veloce in bicicletta, agile nelle corse tra i campi assolati di un profondo Sud, dove la povertà ti costringe a sperare di scappare.
Michele Amitrano, generoso al punto da prendere, sempre e senza esitare, le parti dei deboli nei giochi un po' cattivi che spesso fanno i ragazzini, dividendosi tra bulli, vittime e passivi spettatori in attesa di vili prove di forza.
Michele Amitrano, figlio di un camionista malavitoso per disperazione, per dare ai figli un orizzonte nuovo, al Nord, lontano dalle sofferenze e dalla povertà di chi deve accettare compromessi e imprese crudeli, rischiose, tra ricatti e minacce.
Michele Amitrano, curioso e audace, scopre un terribile segreto: nella desolata campagna, in una fossa maleodorante è tenuto sotto sequestro un bambino della sua età, Filippo. In televisione la madre del ragazzino fa un appello accorato ai rapitori. Fin qui, una storia triste come tante. Il senso tragico della scoperta di Michele non è solo che esiste il male, ma che il male ha un volto familiare: nel rapimento è implicato suo padre. Da questo momento in poi il ragazzo è dilaniato tra slanci di generosità che lo portano a diventare l'angelo custode di Filippo e la paura del padre e per il padre: l'amicizia per Filippo è l'ostacolo verso un rapporto leale con il padre e l'affetto per il padre gli impedisce di fare tutto quello che vorrebbe per salvare Filippo. L'impensabile accade nell'excipit, in cui si fondono la generosità di Michele verso l'amico e un rinnovato rapporto con il padre che improvvisamente sveste i panni del rapitore per assumere quelli di genitore disperato, pentito, vittima dei suoi errori.
Quello di Ammaniti è uno sguardo sull'adolescenza che si allarga fino a diventare un'osservazione accorata sull'uomo, sui confini labili tra sentimenti contrapposti, sulla prossimità fra bene e male, sulle incertezze di chi sta crescendo e sul coraggio che ci vuole per essere degni del nome di uomo e per poter dire io non ho paura nel momento stesso in cui lei si impossessa di te e tu investi tutte le tue energie per dominarla e raggiungere la meta.

sabato 2 luglio 2016

Un giorno questo dolore ti sarà utile

PETER CAMERON
Un giorno questo dolore ti sarà utile


Genitori divorziati, adolescenza fatta di incertezza e solitudine, identità imprecisa, sedute con la psicanalista. Solido è solo il rapporto con la nonna. Per scherzo James inventa un profilo inesistente per sedurre John, il gallerista gay che lavora con la madre. Sa di mentire, soffre quando John si accorge dell’inganno e si sente preso in giro. James viene licenziato dalla galleria della madre e si confida con la nonna, l’unica che abbia per lui attenzione e ascolto. Le parole della nonna lo sorprendono: spesso le persone si comportano in modo stupido quando c’è di mezzo l’amore. (186). La parola “amore” da lei pronunciata apre il varco nel cuore del giovane James: lui non le ha mai parlato dei suoi sentimenti, della sua omosessualità: non le avevo mai detto di essere gay o etero, non le avevo mai parlato di niente che avesse a che fare con questo genere di cose. Ancora, più esplicita che mai, la nonna lo libera dal fardello della sua esistenza: Non puoi passare tutta la vita a far contenti i tuoi genitori (188). La conversazione con l’anziana donna si rivela epifanica, manifesta al giovane la necessità di essere se stesso, qualunque sia il suo modo di essere; è un invito a cercarsi e a scoprirsi, libero da paure, inibizioni e pregiudizi. A volte le brutte esperienze aiutano (190), continua la donna, i brutti momenti sono un  dono, occasioni per mettersi in gioco, per sfidarsi e conoscersi: godersi i momenti felici è facile, è scontato. Dare un senso a quelli brutti è da eroi.

Alla fine del dialogo-epifania la nonna fa la cosa più naturale eppure più profonda che un vecchio possa fare a un giovane, lascia a James tutte le sue cose: la casa sarà venduta, ma quello che c’è dentro è tuo (…). Volevo (…) che sapessi quanto è importante per me che sia tu a decidere cosa fare delle mie cose.

Non si tratta solo di ereditarle, di custodirle come reliquie preziose, di saperle tenere. Sono solo oggetti, non hanno nessun significato. Tieni solo quello che ti serve. Questo è un testamento morale, è un invito ad essere artefice della propria vita e del proprio destino, è l’investitura ad essere adulto, ad uscire dall’infanzia. Crescere significa proprio questo: cercare fra le cose, scegliere quelle utili a vivere, imparare a selezionare, affinché alle domande che James si pone in excipit – Come faccio a sapere cosa vorrò nella vita? Come faccio a sapere cosa mi servirà? - possa esserci risposta.
Cercare un senso alla vita ed essere se stessi non è mai un atto di liquidazione del passato, delle esperienze svolte, dei dolori provati e delle gioie sentite: tutto si sedimenta, niente si oblia.
Lo stigma non è tanto quello sociale, non è la diversità, l'etichetta, che gli altri impongono: lo stigma peggiore è l’ignoranza di sé, la paura di conoscersi e il terrore di non accettarsi. Famiglia, società, religione sono le gabbie dell’identità. Però il silenzio, il rifiuto della comunicazione e il solipsismo sono forme  - peggiori – di autocensura. Persino gli errori salvano: tradire John e la sua fiducia, costruire un profilo falso su internet è un inganno, è una menzogna, ma è un’azione che libera James dalla sua paralisi emotiva. È l’inizio di un’apertura possibile, è un varco verso l’autocoscienza che passa anche attraverso il dolore e il pentimento. E che nasconde un infinito bisogno d’amore. Ovidio scriveva, e Cameron lo riporta all'inizio del suo romanzo: dolor hic tibi proderit olim.
Sta a noi saper ricostruire le fila della nostra vicenda umana in cui tutto ha un senso, anche se accade per caso, anche se procura dolore.