Leggere vuol dire...

Leggere, come io l'intendo, vuol dire profondamente pensare. [...] La ragione ed il vero sono quei tali conquistatori, che, per vincere e conquistare durevolmente, nessun'altra arme debbono adoperare, che le semplici parole. Perciò le religioni diverse, e la cieca obbedienza, si sono sempre insegnate coll'armi; ma la sana filosofia e i moderati governi, coi libri.
(V. Alfieri, "Del principe e delle lettere", 1786)

giovedì 27 novembre 2025

M. RECALCATI - LA LUCE E L'ONDA. COSA SIGNIFICA INSEGNARE

 

Dopo L’ora di lezione, Recalcati con La luce e l’onda torna a occuparsi di scuola affrontando un tema oggi cruciale, che è il filo conduttore del suo nuovo saggio e ne costituisce peraltro il sottotitolo: Cosa significa insegnare?

In continuità con il suo precedente lavoro, Recalcati insiste ancora sul carisma del docente che con la sua passione deve saper accendere negli allievi il desiderio di conoscere. Il maestro illumina, con il suo sapere, e la sua parola prepara i giovani ad affrontare l’onda del Reale, ossia l’impatto con l’imprevedibilità e le multiformi manifestazioni dell’esistenza. L’autore distingue due momenti estremamente costruttivi nell’apprendimento: c’è prima una forma di necessaria imitazione delle indicazioni del maestro, poi, invece, diventa fondamentale la soggettivazione di quel sapere, ovvero la rielaborazione personale. In mezzo c’è uno spazio vuoto, una domanda che neanche l’esperienza del maestro potrà colmare, perché il maestro non può essere padrone dell’immenso scibile umano e non può avere tutte le risposte ai molteplici impatti con il Reale che costituiscono il percorso dell’esistenza di ciascuno. E proprio attraverso quel vuoto si fanno strada la domanda e la ricerca, e da lì inizia la costruzione di uno stile originale, il modo autonomo e singolare che il giovane sperimenterà per affrontare l’onda, la vita. E la metafora del nuoto diventa, a questo proposito, molto chiarificatrice: “per apprendere davvero l’arte del nuoto il bambino deve abbandonare la spiaggia per inoltrarsi tra le onde. Non ha nessuno davanti a sé e non ha più nessuno al suo fianco. Accade ogni volta che siamo di fronte a una prova. L’amicizia con l’onda deve essere una nostra invenzione. Il maestro può favorirla ma non garantirla” (p. 50). Recalcati poi precisa: “solo l’impatto con l’onda può costringere il bambino a fare proprio quello che ha ricevuto dall’Altro” (p. 50).

Anche il maestro è onda. O meglio, è luce e onda contemporaneamente: “Ogni maestro è luce e onda nello stesso tempo: allarga l’orizzonte del nostro mondo sospingendoci verso la necessaria soggettivazione del sapere. La figura del maestro è una figura della luce perché mostra l’esistenza di spazi impensati e invisibili e, al tempo stesso, chiarifica quello che all’allievo può apparire inestricabile e incomprensibile”.  Tuttavia  “il suo movimento assomiglia a quello dell’onda poiché incarna l’impatto dell’allievo con qualcosa che resiste, con una differenza che non può essere pareggiata, che è incomparabile e che proprio per questo ci costringe a trovare un nostro stile singolare.” In definitiva, “quello che è stato scolasticamente acquisito deve essere ripreso in modo singolare, riaperto, risoggettivato creativamente, reinventato”.

Appare molto interessante che oggi si ritorni a porre l’attenzione sul valore pedagogico, culturale e sociale dei maestri. Dopo anni di discredito sociale diffuso e generalizzato, forse riemerge il bisogno di punti di riferimento. Va fatta, però, una precisazione. Riabilitare la figura del maestro non significa difendere automaticamente anche la scuola come istituzione, che oggi presenta tutte le sue falle. È sotto gli occhi di tutti, la scuola si mostra come una macchina che arranca: povertà di risorse economiche, che continuano a essere stanziate in modo cospicuo e inspiegabile alle scuole private e sottratte a quelle pubbliche; precariato persistente; ingerenza dello Stato in materia di educazione; ipervalutazionismo affidato alla sommarietà di numeri, spesso attribuiti senza concrete riflessioni e suggerimenti in grado di modificare in meglio percorsi di apprendimento in molti casi inefficaci. Si registra una residua militarizzazione del contesto scolastico: tutto a scuola è “guidato”, dalle uscite didattiche, definite appunto “visite guidate”, alle discussioni, sempre “guidate”, in classe. Tutto è verticistico e gerarchicamente organizzato: la disposizione dei banchi è orientata verso il docente, gli alunni fra loro si danno le spalle e non riescono a guardarsi negli occhi; la scuola è diventata – o forse, meglio, è tornata ad essere – punitiva. Senza dubbio gli smartphone hanno gravi colpe (anche se c’è da chiedersi in che modo una “cosa” possa avere responsabilità), ma vietarli è un’esagerazione: è come togliere la patente a tutti, perché ci sono incidenti. Andrebbe inserita forse l’informatica nei piani di studio: conoscere per educare. Oggi la scuola orienta… ma ricorrendo all’intervento di esperti esterni: ammette così, ingenuamente, la propria incapacità e insufficienza a fornire indicazioni utili a vivere, il proprio distacco dalla vita. Ciò significa dire erroneamente che la letteratura, la filosofia, le scienze sono solo “chiacchiere” e che bisogna ricorrere a interventi di professionisti specializzati per assorbire ciò che la società richiede: la scuola non sa, non ce la fa, è anacronistica. Si illude di formare al lavoro, mostrandosi completamente inadeguata, invece, alla rapidità dei cambiamenti che le nuove tecnologie stanno apportando proprio al mondo del lavoro: quello per cui formiamo oggi, forse domani non esisterà più, almeno nei modi in cui noi l’abbiamo presentato. I docenti oggi sono costretti a competere con il “bombardamento disordinato delle informazioni” provenienti dai social: Bernard Stiegler, le definisce “psicotecniche che minano alle radici la possibilità di sviluppare un pensiero critico, esercitando delle forme di captazione dell’attenzione tali da distruggerne la natura” (p.118). L’eredità del socratismo a lungo custodita dalla didattica sembra evaporare in un attimo.

Insomma, la scuola ha enormi problemi, ma resta - e Recalcati lo sottolinea chiaramente - un presidio di umanità e democrazia: custodisce la “pluralità delle lingue” (p. 146), educa all’ascolto, un valore indiscutibile, perché “la parola senza l’ascolto dell’Altro è condannata ad essere vuota” (p. 146), insegna il rispetto per la differenza e forma alla convivenza pacifica.

Una speranza? Certo. La svolta probabilmente verrà proprio da quelle che vengono liquidate come “chiacchiere”, “fronzoli”, le solite materie inutili: la filosofia, il latino, l’arte. Queste discipline, considerate da molti come quelle che “non servono” in un mercato che esige competenze immediatamente spendibili, potrebbero essere la chiave per il cambiamento.

Saranno loro a restituire ai giovani la forza di pensare criticamente e di emanciparsi. Potranno sgravarli dal peso di famiglie che li infantilizzano per colmare i propri deficit educativi, li affrancheranno da genitori che pretendono di spianare la strada verso la felicità, ma al contempo caricano di aspettative, demonizzando ogni errore o insuccesso momentaneo come un disonorevole fallimento.

La scuola è un presidio di libertà, da tutte le trappole che ingabbiano la crescita. L’antidoto è la cultura.

E quel pasoliniano “tu splendi”, nella libertà che la “luce” dei maestri saprà insegnare, forse si realizzerà.

M. RECALCATI, La luce e l’onda. Cosa significa insegnare, Einaudi, Torino, 2025

Cfr.:https://www.glistatigenerali.com/cultura/letteratura/m-recalcati-la-luce-e-londa-cosa-significa-insegnare/


lunedì 24 novembre 2025

M. NUSSBAUM - NON PER PROFITTO

 

Il saggio di Martha Nussbaum Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica è stato pubblicato in Italia nel 2011 (ed. il Mulino). Nell’arco di quattordici anni nulla è cambiato, anzi la situazione denunciata dalla filosofa americana è ulteriormente peggiorata, al punto che Non per profitto oggi appare come un libro profetico: l’economia di mercato ha contaminato totalmente il mondo dell’istruzione al punto che le discipline umanistiche ritenute orpelli inutili al successo economico, vengono sistematicamente marginalizzate e erose: le ore loro destinate sono state nel tempo ridotte rispetto alle discipline STEM, le sole ritenute in grado di fornire le competenze necessarie a diventare competitivi nel mondo del lavoro.

In generale oggi  “si tende a considerare le materie umanistiche alla stregua di conoscenze tecniche da valutare sulla base di test a risposta multipla, mentre le competenze critiche e inventive che ne costituiscono il nucleo sono messe da parte” (p. 146).

A questo proposito l’autrice riporta un discorso di B. Obama sull’istruzione pubblicato nel 2009 sul Wall Street Journal, in cui il presidente americano tesseva l’elogio dei Paesi dell’Estremo Oriente per il coraggio di saper investire tempo nell’insegnamento di “cose che servono alla carriera”, diversamente da noi occidentali che ci perdiamo in “cose che non servono” (p.150). Appare chiaro che da questo punto di vista fortemente condizionato dalle esigenze del mercato, l’istruzione scolastica deve essere orientata al solo scopo di trovare un buon lavoro e affinare quelle competenze maggiormente richieste da una società sempre più marcatamente neoliberista. L’idea, invece, che la scuola possa insegnare ad essere cittadini attivi, responsabili, coscienziosi, ad essere cioè persone serie e sensibili, empatiche e non competitive, altruiste e non cinicamente volte al successo ad ogni costo, consapevoli della fragilità umana e non disposte a mostrarsi per forza performanti, ebbene quest’idea non sfiora mai nessuno. E quando M. Nussbaum denunciò questo stato di cose molti intellettuali definirono la sua analisi  “sempre lo stesso piagnisteo, anche piuttosto stucchevole” ( cfr. C. Giunta, recensione a M. Nussbaum), frutto cioè del conservatorismo di chi non sa adattarsi ai cambiamenti della storia e all’inarrestabilità del progresso come dimostrerebbero le frasi di Tagore, spesso citato dalla saggista che ha attinto a testi scritti dall’intellettuale indiano nel 1917: la lamentela della Nussbaum sarebbe dunque poco originale, datata e anacronistica. Si sottovaluta invece la portata universale delle osservazioni di Tagore. La loro validità, infatti, è ampiamente testimoniata dal fatto che forse la compressione delle democrazie nel nostro tempo ha una delle sue radici proprio nella diffusa ignoranza delle nuove generazioni che accettano passivamente e apaticamente ciò che accade intorno a loro, disabituate completamente al pensiero divergente, all’esercizio del dubbio e della discussione, alla visione critica delle cose e dello status quo, all’immaginazione di alternative. Nessuno pensa – o forse, peggio, molti fanno finta di non accorgersene per non sembrare Cassandre- che la svolta antidemocratica, illiberale, razzista, aporofobica di molti paesi occidentali pure eredi dell’Illuminismo, abbia come spiegazione proprio un radicato individualismo che ha calpestato le migliori conquiste in termini di libertà, fraternità e uguaglianza, parole che oggi sono state visibilmente manipolate. La licenza di dire tutto sentendosi legittimati anche a offendere in nome di una presunta libertà di opinione spinta fino all’arbitrio e da molti rivendicata, non è, infatti, libertà. Fraternità è diventato sinonimo di consorteria: fratelli si chiamano in Italia oggi i componenti di partiti politici che però assumono spesso posizioni xenofobe e discriminatorie; fratelli si definiscono persino i membri delle associazioni islamiste radicali, i “fratelli musulmani”. La fraternità, insomma, ha perso anche quella sfumatura di senso che il Cristianesimo aveva contribuito a darle, facendola combaciare con la reciprocità e la scambievolezza. Uguaglianza è poi un termine aborrito: nella società del privilegio, chi ha vuole avere sempre di più e la condivisione è percepita come una deminutio; per la cultura del “merito” essere detti uguali pare un’offesa, anche se non si comprende che spesso il cosiddetto “merito” è il frutto di opportunità garantite dalla propria collocazione di classe, che altri (per storia personale, familiare, provenienza socio-culturale) non hanno avuto.

Vogliamo che la democrazia sopravviva? E allora – osserva M. Nussbaum – cominciamo dall’educazione: didattica socratica e promozione del dialogo, studio dei classici per ristabilire il senso dell’humanitas, rispetto dell’altro… perché la democrazia è questo, esattamente questo.

Si potrà obiettare che la cultura umanistica non è garanzia di finezza d’animo: le SS andavano in giro con la Repubblica di Platone sotto il braccio. È vero. Ma forse nessuno gliel’aveva spiegata bene, nessuno aveva dimostrato loro che ci sarà stato un motivo se Platone al potere voleva i filosofi.

Leggere poesie, esaminare un quadro, misurarsi con la complessità di un testo filosofico non è solo un utile esercizio intellettuale, vuol dire immergersi in un mondo in cui entrano in gioco non solo i ragionamenti, ma anche le emozioni che vanno riconosciute, nominate e allenate. D. Goleman nel suo Intelligenza emotiva, fa notare che dalle emozioni si generano i sentimenti e i sentimenti producono azioni. Dall’empatia nasce la solidarietà e la solidarietà non è solo un buon sentimento: è un insieme di specifiche azioni che hanno conseguenze socialmente e politicamente costruttive. È per questo che i padri costituenti l’hanno saggiamente inserita tra i valori fondanti della Costituzione italiana.

Oggi le democrazie sono in crisi, ma forse è l’idea stessa di umanità che si sta indebolendo. E questo  lento suicidio collettivo ha una spiegazione: Tagore lo chiama il disseccarsi dell’anima.

giovedì 20 novembre 2025

D. BUZZATI - UN AMORE

 

Un amore potrebbe apparentemente sembrare un romanzo dalla trama scontata: un cinquantenne si innamora di una prostituta. 

L’amore si scontra con la cinica indifferenza di una fanciulla venale: Buzzati sembra raccontarci una storia trita. Lui stesso fa riferimento a precisi modelli ispiratori, paragona il suo Antonio Dorigo a Unrath dell’Angelo azzurro  e a Muffat protagonista maschile del romanzo zoliano Nanà. È abbastanza riconoscibile una certa impronta sveviana: Dorigo è un cinquantenne, scenografo, di buona famiglia, schifosamente borghese, con la testa piena di pregiudizi borghesi e orgoglioso della sua rispettabilità borghese  (p.255). Così lo definisce Piera, una prostituta cui Dorigo si rivolge per avere notizie di Laide, visto che si sta sforzando di non frequentala più, per guarire da un mal d’amore che lo sta prostrando. Le remore borghesi di Dorigo ricordano molto gli alibi e gli autoinganni di Emilio Brentani, perdutamente innamorato di Angiolina che invece è interessata solo al denaro. La delusione di Dorigo che ammette con amarezza il fallimento della relazione con Laide – “No. L’amore non  è bastato. I soldi, il rispetto, la devozione, le premure, non sono bastati”  (p. 230) – è espressa da Buzzati in modo emotivamente più appassionato e meno costruito dal punto di vista ideologico, ma può senza dubbio essere paragonata alla triste presa di coscienza di E. Brentani che dichiara, senza più infingimenti, a se stesso che “la figlia del popolo teneva dalla parte dei ricchi”.

Insomma l’idea che è alla base del romanzo appare abbastanza sfruttata. Eppure c’è qualcosa che spinge il lettore ad andare fino in fondo. Tra quelle pagine si annida una verità che va al di là della squallida storia di un frequentatore di bordelli che alla fine resta ingabbiato in un amore impossibile. È l’immagine del “gorgo” : Buzzati se ne serve quando paragona il suo personaggio a un “uomo sulla zattera nel mezzo dell’immenso fiume” trascinato in una “ ignota fossa”, un “gorgo” da cui Dorigo “si era lasciato agganciare” e ormai “la discesa si convertiva in precipizio” (p.223).

Una sola vocale in più trasforma Dorigo in Drogo, il tenente Givanni Drogo, protagonista del “Deserto dei Tartari”: tra i due personaggi c’è una perfetta continuità. Entrambi sono immersi nel deserto del mondo, in una terra desolata. L’aridità esistenziale ha come correlativo oggettivo in Un amore, una Milano immersa nel sonno, una “città che dorme”, in cui anche le macchine stanche giacciono inerti in sterminate file lungo i marciapiedi” (p.264). Quella sensazione di “stanchezza vuoto solitudine” (p. 266) di Dorigo sono lo specchio di una condizione storica. Un amore viene pubblicato nel 1963:  la guerra, il boom economico, l’euforia del benessere hanno trasformato l’Italia e desertificato la storia. Non c’è più spazio per slanci ideali: la mutazione antropologica lamentata da Pasolini, l’omologazione prodotta dal capitalismo, la massiccia industrializzazione, la perdita generale di valori di riferimento trovano una traduzione icastica nella Milano descritta da Buzzati: grigia, “con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia […] oppure semplicemente caligine uscita dai camini, dagli sfiatatoi delle caldaie a nafta, dalle ciminiere delle raffinerie Coloradi, dei camion ruggenti, dalle fogne, dai cumuli di detriti immondi rovesciati sulle aree fabbricabili della periferia, dalla trachea dei milioni e milioni - erano tanti?- assembrati fra cemento asfalto e rabbia intorno a lui” (p.20). Una nuvola di smog, direbbe I. Calvino, avvolge e soffoca tutto.

Influenze letterarie e sguardo disincantato sulla realtà avvicinano Un amore ai grandi libri della grande tradizione letteraria. Per scrivere un classico serve togliere l’attuale dal presente: e il male di vivere di Dorigo, infatti, travalica i dati specifici della fenomenologia della malattia d’amore. La storia d’amore è il camouflage per dire altro, come hanno fatto gli intellettuali di ogni tempo.

 Sembra infatti incidere su Buzzati una memoria più profonda: Dorigo ha qualcosa di donchisciottesco. Crede fermamente nella forza del sentimento amoroso, è persino ingenuamente convinto che l’amore potrà riscattare Laide dalla sua grama vita, sprecata tra case di appuntamenti e night clubs. Tuttavia quando comprende che è finita, e si rende conto che “Antonio è tornato ad essere Antonio” (p.269), quando cioè recupera quella lucidità che la passione aveva offuscato, ebbene allora “ ricomincia a vedere il mondo come prima” (p. 269). Quella “torre inesorabile nera” (p.270) ricomincia a proiettare la sua ombra su di lui: “l’amore gli aveva fatto completamente dimenticare che esisteva la morte”. E così noi immaginiamo Dorigo spegnersi lentamente nell’attesa della morte. Il lettore riconosce nelle vicissitudini di Dorigo le tappe della vicenda di Don Chisciotte: l’hidalgo della Mancia alla fine delle sue disastrose avventure torna ad essere se stesso, rinsavisce, guarisce dalla pazzia, ma muore. Laide, come Dulcinea, dà senso all’esistenza: se il sogno finisce, finisce anche la vita.

Però a differenza di Cervantes, Buzzati sembra dare una svolta inaspettata al suo romanzo. L’ombra incombente e incancellabile della morte, non riesce a sopprimere del tutto la forza della vita. Il desiderio di Laide di “avere una bambina” (p.262) è spiazzante: la ragazza venale, spietata e cinica, indifferente ai sentimenti, spregiudicata, inaspettatamente scopre che esiste un’alternativa alla realtà, al grigiore  di una vita intrappolante, in cui spesso anche il cinismo è la logica reazione alla sconfitta.

La città dorme, le strade sono deserte, Dorigo con il suo disincanto sa che “domani ricomincerà la cattiveria e la vergogna”, eppure ammira in Laide la capacità di aver saputo cogliere  “la grande ora della vita”. Grazie a questa sua istintiva comprensione del senso nascosto delle cose, “lei per un attimo sta al di sopra di tutti”(p.270). Esiste la vita. “E non c’è più l’inferno” (p.265).

D.Buzzati, Un amore, Arnoldo Mondadori, Milano, Oscar narrativa 1989.

cfr.:https://www.glistatigenerali.com/cultura/letteratura/d-buzzati-un-amore/

domenica 5 ottobre 2025

MATTEO NUCCI - PLATONE. UNA STORIA D'AMORE

 

SONO COMUNI LE COSE DEGLI AMICI

“Espressione perfetta: amore platonico. Ma è una beffa che vale solo per chi non sappia niente di lui”: sono le parole con cui M. Nucci in Platone. Una storia d'amore si riferisce al grande protagonista del suo libro e della filosofia di ogni tempo, “lui”, Platone, il filosofo “dalle spalle larghe”, come lo battezzò il suo maestro di ginnastica – profeticamente, in considerazione del calibro della sua influenza sul pensiero occidentale - quando ancora per tutti era il giovane Aristocle.

M. Nucci rivela il carattere mendace costruito da secoli di monopolio culturale cristiano, della definizione “amore platonico”: il Platone che lo scrittore romano ci restituisce è, invece, un uomo che ama in modo umano, che vive anche amori sbagliati, come  quello per il giovane Alkis, seducente e infedele; un uomo che costruì una relazione fatta di affinità intellettuali, oltre che di appassionato trasporto, con il siracusano Dione, ispiratore pel progetto politico che per ben tre volte Platone tentò di realizzare a Siracusa. È a Dione che Platone, nella veste meno conosciuta di poeta, dedica i versi accorati del “rimpianto per tutto quel che poteva essere e invece non fu mai”, “l’ultima poesia” che si chiude con una dedica dettata da una passione ardente: “Tu che hai reso folle d’amore il mio animo. Dione.”

Il libro di M. Nucci del romanzo ha la veste esteriore, le strategie narrative, la seduzione della voce narrante: lo Straniero, l’alter ego dell’autore, attraversa il tempo e la storia, è sì contemporaneo di Platone, compagno di viaggio nella vita del filosofo, ma è pure vicino alla nostra sensibilità. In ogni punto del romanzo lo Straniero è pronto a dichiarare l’inafferrabilità di Platone: “ho passato una vita con quest’idea. Una vita a rincorrere l’uomo, fin dal primo incontro. Talmente intricato, Platone con la sua scrittura di artista filosofico, che è impossibile agguantarlo”. Il filosofo ateniese rimane sempre "contraddittorio", al punto che persino chi lo ama e gli dedica la vita per studiarlo, si sente comunque e sempre “straniero”, capisce di non poter abitare fino in fondo i suoi passi, i suoi testi. Eppure l’impenetrabilità, l’oscurità, la difficoltà sono di stimolo all’amore: χαλεπά τά καλά, sono difficili le cose belle, lo ha scritto Platone in molti suoi testi, lo ripete, a se stesso e ai lettori, lo Straniero.

Un romanzo, quello di M. Nucci, che non lascia mai spazio all’arbitrio o alla fantasia: tutto è testimoniato con cura filologica dai riferimenti alle opere platoniche, dai Dialoghi ai versi composti dal filosofo e raccolti nell’Antologia Palatina. Di romanzesco c’è la sfida della ricerca (quête), il tentativo di cogliere “lo sviluppo dell’anima e dello spirito” di Platone, nonostante la sua “multiformità”, che lo rende refrattario a ogni possibile tentativo di interpretazione univoca e definitiva. Di romanzesco c’è ancora l’avventura di chi, come lo Straniero, è stato pronto a tutto per amore: “ero pazzo di quell’uomo che faceva sognare, pieno di una fiducia in se stesso che gli permetteva di lanciarsi verso il futuro come se niente fosse, come se non esistessero ostacoli. Amavo lui e il suo sogno oltreumano e trovai invece un uomo che allora era un ragazzino: Aristocle. Un uomo che da allora ho rincorso di continuo. Ma non per catturarlo. Non per comprenderlo, come se fosse poi possibile. Solo per continuare ad amarlo”. Tuttavia l’abilità mostrata da Nucci nella costruzione dell’intreccio narrativo e nella sensibilità che traspare dalle considerazioni dello Straniero, si affianca al rigore della ricostruzione storica di un'Atene devastata dalla guerra contro Sparta, di una città caduta nel baratro della demagogia e della miopia politica dei Trenta Tiranni che condannano a morte il Maestro, Socrate, uccidendo così, in un simbolico parricidio, la forza della coscienza critica e decretando la fine di una civiltà, quella della polis, della parresia, della libertà: un passato che non sembra poi così lontano e che proietta le sue ombre sul nostro cupo presente.

Una storia d’amore, è il sottotitolo del libro di Nucci: l’amore non è solo l'ammirazione radicale dell'autore per il filosofo, ma è soprattutto la dedizione di Platone per quell’idea di Bellezza a cui il filosofo si impegnò a far somigliare il mondo, affrontando con il coraggio della scrittura, la sua catabasi nelle viscere infernali di un’Atene prostrata. Platone, discendente del sapiente Solone, da cui eredita l’ideale dell’εὐνομία, il buon governo fondato sulla giustizia; Platone, amico del pitagorico Archita che gli lascia come ideale testamento la massima incisa sull’architrave della scuola tarantina e poi confluita nel Fedro: κοινὰ γὰρ τὰ τῶν φίλων, “sono comuni le cose degli amici”, è l’uomo che ci lascia un insegnamento immortale. Dalle pagine di M. Nucci si apprende chiaramente quale fu la spinta morale che animò Platone e che dovrebbe essere di monito anche oggi: l’amore appassionato per ciò che si fa e per un’idea di mondo - giusto, bello, umano - che non si può soltanto vagheggiare, ma bisogna sforzarsi di realizzare, rischiando anche di fallire. In Platone - e Nucci lo sottolinea in modo sentito e chiaro - è sempre forte e radicata la convinzione che il sapere è una ricchezza troppo preziosa perché sia coltivata in solitudine contemplativa, è piuttosto un bene che va condiviso (“sono comuni le cose degli amici”, appunto) perché solo “una comunità organizzata con cura” può costituire “una grande scuola per la formazione di uomini capaci nella politica cittadina”.

E oggi ne abbiamo bisogno più che mai.

                                                                                                                        Teresa D'Errico

Matteo Nucci, Platone. Una storia d'amoreFeltrinelli, 2025


 Cfr.: https://www.glistatigenerali.com/cultura/letteratura/m-nucci-platone-una-storia-damore/

lunedì 23 giugno 2025

G. TODISCO - CAFARNAO. Quel po' di luce e rame/che mi è dato di scrivere.

Quel po' di luce e rame
che mi è dato di scrivere
(G. Todisco)

 

“La poesia vuole andare verso l’Altro, ha bisogno dell’Altro, ha bisogno di un interlocutore. Lo cerca, gli si rivolge” diceva Cioran (1), poeta e intellettuale di cui si sente l’impronta in Cafarnao.


Giuseppe Todisco all'Altro si rivolge con tono allocutivo: si tratta di un “tu” chiamato in causa (“resta un poco con me, sotto le querce di Mamre”, Ricorda quel giorno a Ebron) eppure sempre sfuggente (Te ne vai col sole oltre la casa). Lascia soltanto buio, solitudine (“oltre il Giordano, sulla via del mare, non si è più fatta luce”, Cafarnao),  nel pesante vuoto di un’esistenza senza orizzonti di senso: (“è tutta mia questa moltitudine di giorni da colmare”, Sentire un peso).  In  Intanto il cielo più fitto ritira, l’Altro è chi non comprende l’ansia di verità che tormenta l’io lirico (“forse ti sfugge”). Caduta “l’elica del sogno”, cancellati desideri e speranze, quello che resta è un “cielo venuto male” (La volta che sconfissi nostro padre), un'immensa solitudine.

Se l’Altro è Dio, è un Dio che conosce destini imperscrutabili e dolorosi (“tu vieni a catastrofe” in Cafarnao); è un Dio che abbandona; secondo Todisco, è assenza, lontananza estrema, in un mondo in cui “il diavolo ci ha presi al cuore” (La volta che sconfissi nostro padre). È un Dio impotente rispetto all'ineludibile male in cui siamo immersi ("passi anche per noi questo calice", in Il sole Franco la mattina presto).

Forse Dio - come dice Cioran citato in epigrafe della silloge Cafarnao - è Nessuno, se in lui si cercano le risposte definitive e le verità ultime. È l’insufficienza che non riesce a dare corpo alla speranza e lascia il mondo nell'ombra: “il maltempo agglutina nell’orto/grugnisce il tuono” (Passato via tutto il trambusto). Il poeta è condannato alla scissione interiore (“vita mia divisa”, in Passato via tutto il trambusto) tra la tensione verso un Dio che vorrebbe accogliente (“potessi…chiudermi a covo tra le tue/braccia”, in Sarebbe stato bene agli occhi), capace di dare senso all’esistenza, una luce che rischiari l’andare, e d’altra parte la delusione, la certezza del fatto che “il morire lo impari/da piccolo” (Speravo vivere fosse) e che il dolore è la categoria dell’esistenza, di ogni esistenza: “l’ombra/compie il suo destino” (Speravo vivere fosse). E forse la sola speranza è quella “di finire” (Tra i fossi e le immondizie).

Cafarnao invita a ripensare Dio, a ipotizzare una sua κένωσις (kénosis), un abbassamento che è nello stesso tempo un avvicinamento all’essere umano: “così girato, santifica la tela” del mondo. È un Dio diverso, quello immaginato da G. Todisco , un Dio che “si è fatto malva” e che non disdegna di aggirarsi Tra i fossi e le immondizie. Il sacro è nelle cose umili o anche degradate, spesso sdegnate dai Soloni della Teologia. Come Saba, anche Todisco ritrova “l’infinito nell’umiltà” e sente la sacralità “dove più turpe è la via”. Anche un nugolo di mosche può diventare “barlume”, se suggerisce la fine di un dolore o se evoca la morte come liberazione dalla sofferenza.

I versi di G. Todisco danno voce a un profondo pessimismo, al contrasto tra l'instabilità di un'esistenza con scarsi punti di riferimento e d'altra parte il bisogno urgente di una connessione. Ma il pessimismo non sfocia mai in nichilismo o passività.

“Si può compiere il miracolo” (La volta che sconfissi nostro padre): nella poesia di Todisco c’è spazio per il prodigio – Montale avrebbe parlato di un varco – anche “se in cielo azzima la notte”. Il desiderio di un’alternativa possibile non è del tutto azzerato. Da Dante (Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io) Todisco mutua l'uso lirico dell’ottativo vorrei in Vorrei mi parlassi del fiore, per esprimere il bisogno profondo che vive in ogni essere umano: il desiderio di bellezza, pur nella consapevolezza della sua caducità e fragilità (il “fiore reciso”); l'aspirazione a volare alto - l’elevazione di cui parlava Baudelaire - e a seguire ideali capaci di sottrarci alla mediocrità diffusa (“rondini e nuvoli”); la forza di credere nella parola che unisce (“vorrei mi parlassi”), la speranza - forse utopica oggi che le guerre ci incalzano - che “un solo cielo” possa “volerci tutti” (Dire all’acqua acqua); la voglia di scavare come fa la formica (Dire all’acqua acqua), di andare a fondo, alla ricerca di verità nascoste nelle pieghe del quotidiano dove forse si annida l’essenza delle cose e del nostro stare al mondo.

Nonostante i “graffi” di cui è fatta la vita, gli oltraggi alla bellezza (“la mano a sfascio sulle rose” in Vieni – tra l’occipite e il sonno -), è possibile resistere alla tentazione del nulla, è possibile recuperare la solidità degli ulivi e “sentire che risale” quella forza capace di risvegliare ideali indeboliti da un presente oscuro, e che invece, come “una stella, la prima luce sul selciato”, un “lampo”, risorgono per dare forma persino allo “scisto”, alla materia inerte di anonime masse passive, per troppo tempo abituate a subire un’esistenza senza slanci e senza sogni: sarà possibile allora un’umanità nuova, pronta a rialzarsi come la Talita del Vangelo di Marco e a brillare come fanno le lucciole nel buio della storia (Rendi al cielo ciò che del cielo già sarebbe).

I miracoli che Cafarnao evoca non sono opera di un Dio trascendente né l’effetto di un abbandono mistico a verità oracolari. Sono piuttosto i prodigi che l’umanità può compiere se resta fedele al suo mandato: homo homini deus est, si suum officium sciat, scriveva Cecilio Stazio. Il prodigio sarà allora nel portare a compimento la nostra natura umana, nel saper restare umani fino in fondo e senza limiti – mai - per abbracciare con amore “tutto l’azzurro clamore del cielo”.

Con uno stile che è "luce e rame" (Quel po' di luce e rame), fatto di chiare parole che scavano nella realtà dura del presente, G. Todisco "si addentra nella macchia" (Esci dalla parola) delle nostre esistenze, delle nostre coscienze, alla scoperta di quel "refe azzurro che ci tiene" (Da qui in alto).

                                                                                                                                     Teresa D'Errico

Giuseppe Todisco, Cafarnao, AnimaMundi, 2024

Per una breve selezione di testi della raccolta Cafarnao cfr.  https://www.leparoleelecose.it/cafarnao/

                                                                                                                  



[1] E. Cioran, discorso di ringraziamento in occasione del premio Büchner, 1960 in  https://www.succedeoggi.it/2020/04/le-lotte-di-celan/

lunedì 12 maggio 2025

L'ESPERIENZA DEI GRUPPI DI LETTURA

 

È cominciato tutto per caso. Una cara amica mi ha parlato di alcuni gruppi organizzati dalla Biblioteca di Foggia. Ho cominciato a frequentarli per curiosità, pensando che in fondo per il mio lavoro sarebbe stato utile: insegno Lettere e certamente approfondire temi letterari non avrebbe potuto che farmi crescere culturalmente.

Poi la curiosità è diventata interesse non solo per le letture condivise con i membri dei gruppi, ma in particolare per le discussioni e le riflessioni che i libri e le poesie hanno la capacità di stimolare.

Ora attendo con desiderio crescente ogni nuovo appuntamento, che si conferma immancabilmente come un momento di riappropriazione di me stessa. Un momento irrinunciabile.

Ciò che mi attrae di tutte le riunioni è senza dubbio il piacere di ascoltare varie interpretazioni di libri classici e contemporanei, per scoprire che il mio punto di vista è solo una piccolissima parte del mare magnum delle innumerevoli possibilità di lettura e sfumature di senso che ogni libro porta con sé. Ma c'è di più.

La conversazione letteraria è solo il punto di partenza. Ad ogni incontro il testo diventa molto altro, si trasforma in occasione per restituire valore alla dimensione interiore, alla preziosa “lentezza” della riflessione, allo scambio di idee. È in gioco continuamente l’arricchimento reciproco, non solo dal punto di vista culturale, ma soprattutto sotto il profilo umano: incontrarsi per parlare di ciò che la letteratura ci dice, significa restituire alla parola la sua funzione fondamentale – oggi troppo facilmente calpestata - cioè quella di costruire possibilità di intesa, convergenza, confronto, piacere nel dire e nell’ascoltare.

Gli incontri letterari promossi dalla Magna Capitana sono, dal mio punto di vista, spazi vitali che dobbiamo impegnarci a tutelare dal quotidiano vortice di una vita sempre più soffocata a causa di impegni a cui bisogna avere il coraggio di opporre una piccola ma valida resistenza, in nome di scelte che corrispondano alle nostre autentiche passioni.

Riunirsi nei gruppi di lettura vuol dire, dunque, trascorrere momenti di vita significativa, di cui conservo tracce, appunti e considerazioni: un piccolo archivio personale.

Forse chiamarli “gruppi di lettura” è restrittivo: si tratta di veri e propri circoli attivi di creatività ermeneutica in cui l’esperienza del testo letterario avviene in modo svincolato dalle incrostazioni della critica ufficiale e accademica, che pure talvolta può costituire un iniziale riferimento.

Le letture nei gruppi della Biblioteca di Foggia hanno la forza della libertà.

 

martedì 1 aprile 2025

ANTONELLA LATTANZI - CAPIRE IL CUORE ALTRUI. Emma, Flaubert e altre ossessioni

 

«La donna è un animale volgare di cui l’uomo ha fatto troppo bello un ideale!»; «le donne hanno sempre bisogno di una causa, di un obiettivo»; «tutto ciò che è veramente alto ed elevato sfugge alle donne»; «c’è vento nella testa delle donne come nel ventre di un contrabbasso».

Frasi del genere sono sufficienti per dimostrare anche ai lettori meno esperti la misoginia di Flaubert ben nota invece critici. Ne parla ampiamente Alessandro Piperno in Aria di famiglia (Mondadori, 2024; per le citazioni precedenti cfr. p.35-36), un romanzo in cui il protagonista - un disilluso docente universitario - viene sottoposto al severo giudizio di una commissione che lo condanna per sessismo, senza voler dare alcun peso al fatto che a scrivere quelle frasi offensive sia stato Flaubert: il docente infatti si è limitato solo a citarle durante una lezione. Una sua ex allieva, pronta a tutto pur di far carriera nel mondo universitario, le ha però abilmente strumentalizzate.

«Dunque a questo serviva la commissione a giudicare ex  cathedra ciò che Flaubert pensava della vita, delle donne, del sesso, della bellezza? Certo, non era una bella persona. Era un disadattato, un nichilista, un risentito, un uomo del suo tempo: ma era anche un genio, autore di un paio di romanzi immortali, di una manciata di racconti meravigliosi e di un epistolario che per certi versi era bello come la Cappella Sistina. Cosa avrei dovuto fare? Cosa avrebbero fatto loro al mio posto come avrebbero scelto le lettere da leggere e quelle da omettere? Secondo quale logica? Le loro convinzioni politiche? Un astratto senso dell’opportunità?» (p.42).

In questo suo sfogo personale, monologante, il professor Sacerdoti esprime tutto il suo disgusto per l’oscurantismo del mondo accademico.

E proprio a partire dall’accertata misoginia di Flaubert, Antonella Lattanzi scrive Capire il cuore altrui. Emma, Flaubert e altre ossessioni, un libro originalissimo nella sua struttura: l’autrice fonde la scrittura soggettiva e privata con quella argomentativa, creando un genere sospeso tra autobiografia e saggistica.



Al centro del testo di A. Lattanzi c’è la genialità dello scrittore francese che, paradossalmente, pur odiando le donne, dà vita a una creatura femminile, Emma Bovary, che vive «la tensione parossistica verso il desiderio assoluto» (p.25) e che coraggiosamente, questo desiderio, lo attraversa, lo vive, lo nutre con le sue letture. Flaubert deride ironicamente, con sguardo di disprezzo, i romanzi a cui la sua eroina si appassiona, eppure, sottolinea A. Lattanzi, proprio quelle storie di amori e di avventure sono il rifugio e la forza di una ragazza di provincia che vuole un altrove, una chance di felicità, una via di fuga dalla realtà.

Nella lettura come tensione verso la libertà, A. Lattanzi trova un trait d’union con la sua eroina letteraria: «leggo e sono libera di essere felice, di essere chi sono». (p.66). La tesi dell’autrice è che nella lettura non ci sono solo storie, più o meno avvincenti, affascinanti o tragiche, c’è piuttosto la vita che si dispiega in tutte le sue molteplici sfaccettature, e ogni lettore potrà riconoscersi in quel preciso tranche de vie che sente affine alla propria esistenza: «io amo i libri anche per questo. Perché ti rivelano sempre qualcosa di te che non sapevi, o che non avevi le parole per esprimere. Perché leggi e dici: “ecco chi sono io e non lo sapevo”» (p.82).

Attraverso il dichiarato amore per la lettura e per Emma Bovary, la scrittrice dimostra la forza prorompente del desiderio, la rivoluzione del desiderio, a cui Flaubert ha saputo dare voce al di là delle sue stesse convinzioni: la «corsa pazza» di Emma e Lèon in una carrozza a Rouen «racconta, senza mai farlo vedere, il sesso convulso e animalesco che si consuma lì dentro» (p.155).  Flaubert «non cita mai esplicitamente qualcosa di scabroso ma grazie al ritmo, grazie alle parole, grazie all’uso sapiente della reticenza, racconta qualcosa di fortemente scabroso» (p.155) e di eversivo: il desiderio di una donna, il desiderio consumato. Sappiamo tutti quale sia stato il destino di pagine così ardite: il passo fu espunto già nella fase della pubblicazione del romanzo a puntate. Non fu sufficiente: Madame Bovary fu poi messo sotto processo.

La grandezza di Flaubert secondo A. Lattanzi sta tutta nell’aver costruito un personaggio femminile completamente proteso verso la libertà: Emma sceglie di morire con l’arsenico per non scendere a compromessi umilianti, commenta l’autrice. Lasciata sola da tutti e sommersa dai debiti, quando il notaio le propone un accordo disonorevole - cioè di fornirle il denaro, di cui lei ha urgente bisogno, in cambio del suo corpo e dei suoi favori sessuali - Emma mostra tutta la sua dignità: «Vi approfittate spudoratamente della mia disperazione, signore! Sono da compiangere, ma non da vendere. E uscì» (p.156).

Capire il cuore altrui dimostra che Emma Bovary è più che una donna, è l’essere umano come essere desiderante, stretto in un’asfittica contingenza. «Il genere umano non può sopportare troppa realtà», scrive Eliot. Il quesito che A. Lattanzi pone al lettore, e che è sotteso all’intero saggio, è chiaro: «cosa succede quando ci accorgiamo che la vita non comincerà mai, o che abbiamo perso il momento in cui abbiamo vissuto davvero?» (p.82). E nella spasmodica ricerca della felicità, tra errori, speranze e delusioni, in Madame Bovary c’è tutta l’umanità.

La vicenda di Emma Bovary è in fondo la finestra da cui noi guardiamo dentro noi stessi per arrivare a capire che spesso, pur non volendo, siamo noi, con le nostre scelte, i peggiori nemici di noi stessi, per quella insidiosa convinzione – errata, ma persistente - «che gli altri vivano sempre esistenze migliori. O meglio, che gli altri siano migliori di noi. O meglio, che gli altri sappiano come si vive, semplicemente perché sono gli altri» (p.134).

E così, noi, proprio noi, lasciamo - come ha scritto Flaubert della sua Emma - che «la noia, ragno silenzioso», costruisca la sua tela nell’ombra, in ogni angolo del nostro cuore.

Al di là dei giudizi dei critici su Madame Bovary, A. Lattanzi in Capire il cuore altrui dimostra che solo comprendendo a fondo l’altro – nella letteratura come nella vita - è possibile stare al mondo.

Emma, l’adultera, l’amante, l’infedele, la suicida.

Emma, una donna.

Umana, solo umana.