domenica 2 febbraio 2025

TRITE PAROLE

        IL SUR

… l’odore del gelsomino e della madreselva,

il silenzio dell’uccello addormentato,

l’arco dell’androne, l’umidità

– queste cose, forse, sono la poesia.

J. L. Borges, Il Sur da Fervore di Buenos Aires, in “Poesie 1923 – 1976”.


Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

E. Montale, Non chiederci la parola da Ossi di seppia, 1925.


Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza 

di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo.

Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. Naturalmente per ragioni pratiche.

P. P. PasoliniComunicato all’Ansa (Scelta stilistica), da Trasumanar e organizzar, 1971.





In principio fu il μύθος: la parola come espressione del fantastico e perciò opposta al λόγος che implica, invece, l’argomentazione razionale.

Il termine μύθος ha la stessa etimologia di “mistero” e “mistico”, parole che derivano dal verbo μυέω, che significa “chiudo la bocca”. Μυέω indica l’atto di restare in silenzio, atteggiamento tipico degli iniziati agli antichi culti misterici. Se la poesia originariamente è μύθος, legata al mistero, alla sfera mistico-religiosa, il poeta è sacerdos, vate, portatore, cioè, di una verità ineffabile che solo lui conosce, che non può essere comunicata con gli ordinari mezzi espressivi e che perciò va affidata a formule oracolari, non necessariamente comprensibili, anzi, spesso volutamente ambigue, adatte cioè all’imperscrutabilità divina di cui il poeta-profeta è voce, in preda alla sua θεῖα μανία. In questa accezione la parola è poetica per il suo suono, per l’aura di mistero di cui è circonfusa, per la seduzione orfica che esercita.

Poi il μύθος è diventato ἔπος: la parola ha assunto significati dalla risonanza collettiva. È uscita dal mistero, è diventata λόγος (επ di ἔπος è un tema verbale di λέγω, il verbo che significa “dire” e  da cui deriva λόγος, che in greco indica sia la parola sia la ragione). La parola deve dunque “dire”, non nascondersi in versi sibillini.

Infine nel secolo della democrazia e della rivoluzione culturale d’età periclea, la parola ha preso possesso della dimensione pubblica, è scesa in piazza, è entrata nell’ἀγορά, vocabolo che deriva, sì, da ἀγείρω, “raccolgo, raduno” per indicare l’area fisica delle assemblee, ma pure, e forse più appropriatamente, da ἀγορεύω, “parlare in pubblico”: la piazza  è il luogo del confronto e della comunicazione aperta, il luogo dei molti (πολ-, prefisso che si riferisce alla pluralità, è la radice di πόλις, la dimensione dei molti): la parola non indica più il mistero cui hanno accesso i pochi, non è più indicativa di una verità esclusiva e escludente. Diventa “parabola” che unisce, il ponte di chi fa dono di ciò che sa e sente e dice, per raggiungere l’altro versante, quello di chi ascolta e a sua volta dirà: comunicare (da cum + munus, “dono”) è mettere in comune, aprirsi.

La poesia è dono, anche se questa apertura all’altro non rinuncia mai a quell’alone di indefinitezza che consente a chi legge di essere comunque co-autore nel processo di costruzione di sensi possibili.

I versi come ombre, suoni belli e seducenti, quelli che si originano negli abissi insondabili, le profondità misteriose in cui, peraltro, Orfeo ha perso tutto, i versi del vuoto, del caos, dell’onirico, la poesia “pura” come la tradizione avanguardistico-ermetica l’ha battezzata, è quella nata dagli irrazionalismi che poi si sono tradotti in incendiari messianismi, come diceva Gobetti, insomma, nei peggiori -ISMI della Storia.

La poesia non è enigmistica criptica che fa del difficile e dell’incomprensibile la turris eburnea per chi non ha niente da dire a nessuno. Non è il palpito fugace dell’istante. Non è evanescenza. Orazio la chiamava monumentum: da maneo, perché resta; da memini, perché se è poesia vera non si dimentica.

La poesia è la dimensione della parola responsabile che ha il coraggio di dire ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, con chiarezza, con la sintassi tradizionale, con la consapevolezza che l’originalità a tutti i costi è una gabbia e che la novità è la cosa più vecchia che ci sia, come dice Benigni in un suo noto film.

La poesia non ha paura di essere semplice, chiara, diretta: “amai trite parole che non uno / osava. / M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo”, notava Saba, spiegando che la poesia deve essere onesta e capace di tradurre quella verità che giace al fondo e che ogni essere umano sente nel cuore. E la parola onesta sa dire l’angoscia della retta via smarrita, la fatica di muoversi nella selva selvaggia del mondo, i rapimenti dei sensi e dell’anima, l’inadeguatezza di fronte all’ineffabile, lo spleen di una realtà che mortifica ogni aspirazione. La parola onesta dice tutto questo anche quando si professa impotente. Lo dimostra, con un umorismo quasi sfidante, con una chiarezza semplice, Patrizia Cavalli:

Qualcuno mi ha detto

che certo le mie poesie

non cambieranno il mondo.

 

Io rispondo che certo sì

le mie poesie

non cambieranno il mondo.

(P. Cavalli, Qualcuno mi ha detto da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)

 

La poesia non si nasconde mai dietro i bizantinismi che con il profluvio verbale occultano il nulla e rivelano il loro assoluto inanismo. Si obietterà che spesso, però, il nulla è il messaggio. Il punto è che per dirlo non servono scelte criptiche, è sufficiente la limpidezza lapidaria di versi montaliani come “il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me”.

Tradizionali? Forse. Certamente sinceri.


Il poeta ha sempre un compito. Non può chiudersi in un’egoarchia solipsistica, deve “fare” (poesia deriva da ποιέω, “fare”), non certo nel senso letterale del termine. Deve dare forma a questo mondo informe: non risolvere, ma destare il desiderio di un altrove possibile, di un altrimenti. Può suggerire alternative, valori diversi da quelli correnti, come fece Saffo (fr. 16 Voigt) che al militarismo imperante oppose coraggiosamente la forza dell’eros, del desiderio:


Ο]ἰ μὲν ἰππήων στρότον, οἰ δὲ πέσδων,
οἰ δὲ νάων φαῖσ’ ἐπ[ὶ] γᾶν μέλαι[ν]αν
ἔ]μμεναι κάλλιστον, ἔγω δὲ κῆν’ ὄτ-
τω τις ἔραται…

Alcuni di cavalieri un esercito, altri di fanti,
altri di navi dicono che sulla nera terra
sia la cosa più bella, mentre io ciò che
uno ama…

 

 

 La poesia è parto. Genera vita.

                                                                                   Teresa D'Errico

 

 

 

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