IL SUR
… l’odore del gelsomino e della madreselva,
il silenzio dell’uccello addormentato,
l’arco dell’androne, l’umidità
– queste cose, forse, sono la poesia.
J. L. Borges, Il Sur da Fervore di Buenos Aires, in “Poesie 1923 – 1976”.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
E. Montale, Non chiederci la parola da Ossi di seppia, 1925.
Smetto di essere poeta originale, che costa mancanza
di libertà: un sistema stilistico è troppo esclusivo.
Adotto schemi letterari collaudati, per essere più libero. Naturalmente per ragioni pratiche.
P. P. Pasolini, Comunicato all’Ansa (Scelta stilistica), da Trasumanar e organizzar, 1971.
In
principio fu il μύθος: la parola come espressione
del fantastico e perciò opposta al λόγος che implica, invece, l’argomentazione
razionale.
Il
termine μύθος ha la stessa etimologia di “mistero”
e “mistico”, parole che derivano dal verbo μυέω, che significa “chiudo la
bocca”. Μυέω indica l’atto di restare in silenzio, atteggiamento tipico degli
iniziati agli antichi culti misterici. Se la poesia originariamente è μύθος,
legata al mistero, alla sfera mistico-religiosa, il poeta è sacerdos,
vate, portatore, cioè, di una verità ineffabile che solo lui conosce, che non
può essere comunicata con gli ordinari mezzi espressivi e che perciò va affidata
a formule oracolari, non necessariamente comprensibili, anzi, spesso
volutamente ambigue, adatte cioè all’imperscrutabilità divina di cui il
poeta-profeta è voce, in preda alla sua θεῖα μανία. In questa accezione la
parola è poetica per il suo suono, per l’aura di mistero di cui è circonfusa,
per la seduzione orfica che esercita.
Poi
il μύθος è diventato ἔπος: la parola ha assunto significati dalla risonanza
collettiva. È uscita dal mistero, è diventata λόγος (επ di ἔπος è un tema verbale di λέγω,
il verbo che significa “dire” e da cui
deriva λόγος, che in greco indica sia la parola sia la ragione). La parola deve
dunque “dire”, non nascondersi in versi sibillini.
Infine nel secolo della democrazia e della rivoluzione culturale d’età periclea, la parola ha preso possesso della dimensione pubblica, è scesa in piazza, è entrata nell’ἀγορά, vocabolo che deriva, sì, da ἀγείρω, “raccolgo, raduno” per indicare l’area fisica delle assemblee, ma pure, e forse più appropriatamente, da ἀγορεύω, “parlare in pubblico”: la piazza è il luogo del confronto e della comunicazione aperta, il luogo dei molti (πολ-, prefisso che si riferisce alla pluralità, è la radice di πόλις, la dimensione dei molti): la parola non indica più il mistero cui hanno accesso i pochi, non è più indicativa di una verità esclusiva e escludente. Diventa “parabola” che unisce, il ponte di chi fa dono di ciò che sa e sente e dice, per raggiungere l’altro versante, quello di chi ascolta e a sua volta dirà: comunicare (da cum + munus, “dono”) è mettere in comune, aprirsi.
La
poesia è dono, anche se questa apertura all’altro non rinuncia mai a
quell’alone di indefinitezza che consente a chi legge di essere comunque
co-autore nel processo di costruzione di sensi possibili.
I
versi come ombre, suoni belli e seducenti, quelli che si originano negli abissi
insondabili, le profondità misteriose in cui, peraltro, Orfeo ha perso tutto, i versi del vuoto,
del caos, dell’onirico, la poesia “pura” come la tradizione
avanguardistico-ermetica l’ha battezzata, è quella nata dagli irrazionalismi
che poi si sono tradotti in incendiari messianismi, come diceva Gobetti,
insomma, nei peggiori -ISMI della Storia.
La
poesia non è enigmistica criptica che fa del difficile e dell’incomprensibile
la turris eburnea per chi non ha niente da dire a nessuno. Non è il
palpito fugace dell’istante. Non è evanescenza. Orazio la chiamava monumentum:
da maneo, perché resta; da memini, perché se è poesia vera non si
dimentica.
La
poesia è la dimensione della parola responsabile che ha il coraggio di dire
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, con chiarezza, con la sintassi tradizionale,
con la consapevolezza che l’originalità a tutti i costi è una gabbia e che la
novità è la cosa più vecchia che ci sia, come dice Benigni in un suo noto film.
La poesia non ha paura di
essere semplice, chiara, diretta: “amai trite parole che non uno / osava. /
M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo”, notava
Saba, spiegando che la poesia deve essere onesta e capace di tradurre quella
verità che giace al fondo e che ogni essere umano sente nel cuore. E la
parola onesta sa dire l’angoscia della retta via smarrita, la fatica di
muoversi nella selva selvaggia del mondo, i rapimenti dei sensi e
dell’anima, l’inadeguatezza di fronte all’ineffabile, lo spleen di una
realtà che mortifica ogni aspirazione. La parola onesta dice tutto questo anche quando si
professa impotente. Lo dimostra, con un umorismo quasi sfidante, con una
chiarezza semplice, Patrizia Cavalli:
Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.
(P. Cavalli, Qualcuno
mi ha detto da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)
La poesia non si nasconde
mai dietro i bizantinismi che con il profluvio verbale occultano il nulla e rivelano
il loro assoluto inanismo. Si obietterà che spesso, però, il nulla è il
messaggio. Il punto è che per dirlo non servono scelte criptiche, è sufficiente
la limpidezza lapidaria di versi montaliani come “il nulla alle mie spalle, il
vuoto dietro di me”.
Tradizionali? Forse. Certamente sinceri.
Il poeta ha sempre un compito. Non può chiudersi in un’egoarchia solipsistica, deve “fare” (poesia deriva da ποιέω, “fare”), non certo nel senso letterale del termine. Deve dare forma a questo mondo informe: non risolvere, ma destare il desiderio di un altrove possibile, di un altrimenti. Può suggerire alternative, valori diversi da quelli correnti, come fece Saffo (fr. 16 Voigt) che al militarismo imperante oppose coraggiosamente la forza dell’eros, del desiderio:
Ο]ἰ μὲν ἰππήων
στρότον, οἰ δὲ πέσδων, |
Alcuni di cavalieri un esercito, altri
di fanti, |
Teresa D'Errico
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