I titoli di coda di una vita insieme (Einaudi, 2024) è un libro sulla fine di un amore.
Si
tratta di un tema universale, che ha attraversato la letteratura, la musica, è
un tema epico: anche i grandi eroi hanno sperimentato il dolore della fine di
un amore. Quello tra Calipso e Ulisse fu un amore travolgente, fatto
di promesse straordinarie (felicità indistruttibile, immortalità, eterna
giovinezza), eppure è finito in un abbandono come tanti, anche se i
protagonisti erano un eroe eccellente e una ninfa, una dea: si sono lasciati
come due persone ordinarie.
È
andata così anche tra Enea e Didone: giorni felici, promesse, passione.
Eppure un litigio ordinario li ha divisi: lei che piange, si sente sedotta e
abbandonata lo chiama perfidus (“traditore” della parola data)
e lui che la lascia, stufo dei suoi lamenti: desine meque tuis
incendere teque querellis (“smetti di inasprire te e me con i tuoi
lamenti”).
Insomma,
Fosco e Alice, i protagonisti del romanzo di Diego De Silva sono gli ultimi di
una lunga serie di amanti che mettono fine al loro amore: una storia antica e
sempre attuale.
Ci
si innamora, si vive, ci si lascia. E ci si lascia evidentemente perché
qualcosa si è interrotto
Ma
forse il punto è: COME ci si lascia?
De
Silva conduce la narrazione secondo due prospettive, una maschile (Fosco) e una
femminile (Alice). L’amore non è una storia, ma due: Alice è
un’oncologa, ed è interessata ai protocolli specifici cui le separazioni – come
le terapie mediche – devono attenersi. E i copioni consueti delle separazioni
prevedono discussioni, litigi, scontri con gli avvocati, giornate in tribunale,
atti giudiziari. Fosco invece è uno scrittore: delle liti, degli atti
giudiziari a lui non interessa nulla.
Perciò
quel senso d’impoverimento che ti assale quando ti trovi davanti alle
macerie che hai prodotto – così Fosco commenta la fine del suo
matrimonio con Alice – genera reazioni diverse nei due coniugi, che per la
prima volta sperimentano la povertà del lessico giudiziario rispetto alla
complessità del mondo sentimentale e delle relazioni umane.
I
titoli di coda di una vita insieme è
perciò anche un libro sulle parole. Fosco chiede al suo avvocato di
accettare tutte le condizioni di Alice e di scrivere perciò un atto
stringatissimo perché una cosa in particolare di questa separazione davvero non
tollera: le parole che parlano di noi, le parole nostre, quelle
che ci raccontano, non possono entrare in un atto giudiziario. Tutte quelle di
cui hai bisogno, amore te le ho scritte. Una vita insieme può essere
riassunta nel burocratese, nell’antilingua, la definirebbe Italo
Calvino, di una memoria depositata in tribunale che un giudice annoiato dalla
routine di contese coniugali sempre uguali, forse leggerà distrattamente, perso
tra brocardi e frasi stereotipate.
Diego
De Silva, avvocato che ha scelto di diventare narratore, con questo romanzo in
particolare, dimostra che le parole sono la vita. Alice lo sa bene, le
parole che ricordiamo quelle che ci hanno fatto male soprattutto, sono la
nostra letteratura individuale. Isolano i momenti in cui abbiamo perso qualcosa
per sempre. Forse, a ben guardare, la degenerazione del linguaggio è
il riflesso di una involuzione storica, epocale, sovraindividuale: quando Fosco
ritorna nella sua casa dell’infanzia che ritrova trasformata in un B&B,
nota che dove un tempo c’erano un cassettone sovrastato da un grande
specchi liberty, un letto matrimoniale e due comodini con gli sportelli e i
ripiani di marmo, ora ci sono mobili dell’Ikea dai nomi bellissimi
e impronunciabili. Stiamo assistendo alla fuga della bellezza dal nostro
mondo, dal nostro linguaggio, dalle nostre vite e relazioni. Viviamo in un
mondo brutto (guerre, orrori, competizioni): anche la lingua ne risente.
Fosco
– come De Silva e probabilmente suo alter ego – è uno scrittore. Quindi I
titoli di coda di una vita insieme forse è anche un libro sulla
letteratura, argomento sul quale sono disseminate osservazioni interessanti nel
romanzo.
- Alice
nota a proposito del marito che, in quanto scrittore, è un sabotatore
di convinzioni, che poi è il lavoro della letteratura: Fosco/Diego è
un maestro del sospetto, un disvelatore di quello che si cela dietro le
apparenze?
- La
contraddizione è il lievito madre della scrittura.
- Scrivere
è fare un uso sincero delle parole: Fosco parte dall’esempio
di Àgotha Kristòf, che a dispetto della realtà assurda e allucinata che
descrive nei suoi romanzi, tuttavia ha uno stile limpido, chiarissimo,
asciutto. Lei, ungherese, usa un francese essenziale, compresso;
il francese che le serve per fare la spesa. E nella sua povertà di
linguaggio c’è una sincerità addirittura violenta. Fosco ammette di
avere un’insofferenza per le frasi sciatte, ma forse ciò che
detesta di più è l’antilingua, quella che non dice, che impedisce
la comunicazione, e dunque le relazioni. Aveva ragione Nanni
Moretti: chi scrive male, pensa male e vive male.
C’è
inoltre nel romanzo di De Silva un’analisi dettagliata dell’estraneità che
spesso nel matrimonio genera solitudine e che deriva dall’incapacità di inventarsi.
Fosco
avverte profondamente l’amarezza che gli rimane per essere piombati
nella peggiore estraneità: quella fra due persone che non si spiegano come
abbiano fatto a vivere per tanti anni con qualcuno con cui non hanno più niente
da dirsi.
E
aggiunge, ricordando i giorni della sua relazione con Alice: la pratica
dello stillicidio da cui ogni volta rinasceva l’amore si era sciolta nella
quotidianità della convivenza. Trascinare una lite e non guardarci in faccia
per ore finché un dei due non si stancava e bastava una carezza per ritrovarci
era una manutenzione sentimentale a cui avevamo smesso di ricorrere. Forse a
questo servono i matrimoni. A disimparare. A non inventarsi più
niente.
Finita
la fase del rapimento passionale, il matrimonio appare come il luogo in cui
l’invenzione viene meno, prevale l’incapacità di trovare ancora qualcosa per
cui valga la pena lottare (invenio significa “trovare qualcosa
dentro”). La relazione coniugale può diventare solitudine. Lo notava anche
Roland Barthes: il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine.
E riportando una frase di Nietzsche, Barthes scriveva a proposito del rapporto
tra due persone che si sono amate: eravamo amici e ci siamo diventati
estranei. Noi siamo come due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua
strada; possiamo benissimo incrociarci, forse potrà anche darsi che ci si veda,
ma senza riconoscerci: i diversi mari e i soli ci hanno mutati.
Non
riconoscersi, non saper trovare nell’altro qualcosa di familiare, non riuscire
ad avere l’intimità necessaria: è quello che Magritte rappresenta nel suo noto
quadro Gli amanti.
Dobbiamo
dunque rassegnarci alla fine del sogno, al crollo
dell’utopia del non lasciarsi mai? Oppure c’è un modo per
tornare capaci di inventare, di trovare dentro l’altro qualcosa che ci
appartiene e che siamo in grado di riconoscere come affine a noi?
Spesso
si dice che in un matrimonio occorre tolleranza. Ma Fosco non
sarebbe d’accordo: durante un’intervista, infatti, spiega che a lui la parola
tolleranza proprio non piace e che persino nella Costituzione non esiste: la
Costituzione non tollera, riconosce.
Forse
la chiave sta tutta qui: riconoscere l’altro, lasciare che sia. Meno Ego e più
Noi. Inventarsi e riconoscersi.
A
dire il vero, che cosa sia l’amore è un problema enorme, è una questione
ampiamente dibattuta e forse non ha trovato ancore risposta, anche se quelli
che parlano d’amore sono convinti di sapere tutto sull’amore, come De Silva
scrive nell’incipit di Sono felice, dove ho sbagliato?
Carver
nel suo racconto Di cosa parliamo quando parliamo d’amore nota
che tutte le conversazioni sull’amore, tutto questo amore di cui
parliamo è solo rumore umano. Nessuno sa che cosa sia
l’amore e definirlo è quasi impossibile. Eppure in questo romanzo scritto per
parlare delle macerie di un amore, Fosco arriva a sentire profondamente che
cosa sia l’amore, anche quando finisce.
Se
le parole sono importanti per raccontare la fine di una relazione, non sono
invece i discorsi a dare sostanza all’amore. Anzi. La tradizione ci insegna che
spesso le parole e i bei discorsi nascondono le peggiori intenzioni: è quello
che Medea rinfaccia a Giasone nella tragedia euripidea: ora non venire
con quella maschera di rispetto rivolta a me e l’aria di uno abile nel parlare (v.586).
La parola spesso è una maschera, non è affatto espressione di sincerità: εὐσχήμων
(euschémon) è l’aggettivo che indica l’atteggiamento ipocrita di chi si finge
buono nell’aspetto (eu, avverbio che traduce il concetto di “buono”
+ schema, aspetto) attraverso un uso ambiguo e manipolatorio delle
parole.
Giuseppe
Pontiggia – intellettuale che De Silva stima e cita nel suo romanzo – scriveva
in Nati due volte: “Parliamoci chiaro”. Ho sempre temuto
questa frase, che non è mai un invito alla trasparenza, ma l’apertura delle
ostilità.
Per
amarsi non servono tante parole, ma forse una sola, come dice Elsa Morante
citata in esergo dall’autore: la frase d’amore, l’unica, è: “hai
mangiato?”.
Ci
sono episodi nel romanzo di De Silva, a questo proposito, molto indicativi.
Uno, in particolare, riguarda due personaggi minori del romanzo, Innocenzo e
Cristina, due amici che Fosco ritrova nel suo paese d’origine. Mentre sono
seduti in silenzio, Cristina offre a Innocenzo uno spicchio d’arancia: piccole
cose, gesti, sguardi più autentici di tante parole. Dice Fosco: ho
sempre pensato che fosse quello il modo di amarsi. Sono queste le cose
che fanno la punteggiatura della convivenza.
I
titoli di coda di una vita insieme è
anche un romanzo sul senso della perdita. A un certo punto Fosco ha
una conversazione con la sorella sulla vendita della loro casa estiva, vendita
di cui Fosco è pentito. E la sorella gli dice una frase che lo fa
riflettere: hai perso una casa, e allora? Tu ci campi di questo. Non si
scrive forse per raccontare quello che si è perso? Fosco avvia allora
una seria analisi interiore: uno scrittore non colleziona cimeli. Tiene
le cose che ha perduto in una stanza interiore dove nessuno può entrare.
Spesso
si associa la perdita a una condizione luttuosa, di definitiva
irrecuperabilità. Invece non è proprio così. C’è un verso di Montale,
che in Piccolo testamento (da La bufera e altro)
scrive:
una
storia non dura che nella cenere
e
persistenza è solo l’estinzione
Ciò
che siamo oggi deriva anche da quello che abbiamo perso.
Persistenza
è solo l’estinzione
Nulla
finisce mai davvero. Le cose esistono. Sono affetti. Rimorsi. Oppure
promesse, il più delle volte non mantenute, osserva Fosco.
Alcune
cose poi, sono simboli, ci dicono: ho avuto un posto nel cuore di
un altro. Perché una sola cosa vogliamo, arrivati alle sette di sera della
vita: sapere che qualcuno ci ha amati.
In
questo romanzo che è molto ancorato alla realtà c’è tuttavia un profondo tratto
simbolico che vale la pena sottolineare.
Dopo
due anni dalla separazione Alice, lontana per un convegno, chiede a Fosco di
andare a casa sua per controllare la chiave di arresto dell’acqua. Fosco vede
un libro di Alice, lasciato sul divano, e lo chiude dopo aver fatto un’orecchietta
per conservare il segno della pagina.
I
libri si chiudono, come le nostre storie, le nostre relazioni.
Ma
alla fine ciò che conta è conservare il segno tra le
pagine di una vita scritta insieme, perché lasciarsi non vuol dire perdersi,
cancellarsi, annullarsi.
Teresa D'Errico
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