domenica 29 settembre 2019

ACATI



    Un viaggio, amori che s’intrecciano, tentazioni vissute e allontanate, la nostalgia di casa e degli affetti, il ritorno: una storia antica.
    L’Odissea era il racconto di un eroe sofferente, ma  invincibile e forte. Che cosa accadrebbe se cambiasse il punto di vista, se l’Odissea diventasse il viaggio non di Ulisse, ma di Laura, non di un eroe, ma di una donna qualsiasi; decisa, ma fragile; volitiva, ma umana? L’Odissea si trasformerebbe in Acati, anagramma di Itaca,  e Alfonso d’Errico diventerebbe il tessitore di un nuovo canto d’amore e d’avventura.

    Acati si snoda lungo un percorso che inizia con un’improvvisa partenza verso New York e che si conclude con il ritorno ad Acati, non solo un luogo, ma una dimensione esistenziale.
    Acati è la storia di ordinarie crisi coniugali, di sfide tra sessi, di scontri ideologici, ma è anche  la narrazione di una generazione stanca del viaggio senza meta, consapevole del fatto che il naufragio non può essere affrontato solo da passivo spettatore, perché, per chi lo vive, è una tragedia.
    Acati è un romanzo che suggerisce l’idea del ritorno non come immobile ripetizione di schemi antichi e anacronistici, ma come capacità di recuperare l’essenziale, ciò che conta davvero.
    Il progetto di d’Errico è duplice: da un lato c’è il deliberato intento di rivisitare l’Odissea invertendone la prospettiva e conservandone alcuni aspetti, dall’altro c’è il desiderio di dar voce alla propria idea di mondo, quella con cui ogni scrittore cerca di contribuire a costruire il mosaico della storia.
    La strategia di inversione del poema omerico si sviluppa attraverso precisi rimandi: Laura è certamente Ulisse e anche lei ha la sua Circe al maschile in George Sketton; Andrea è Penelope e come lei è assediato da seducenti Proci al femminile (Brigida, Lucia); Telemaco si trasforma in Marta e anche la Telemachia di questa intraprendente fanciulla si conclude con un prezioso incontro e con affetti rinsaldati.
    E, come Omero, anche d’Errico ritrova nell’epica del ritorno il messaggio fondamentale da trasmettere ai suoi lettori.
    Nel corso del Novecento, alla luce dei suoi esistenzialismi e nichilismi sfumati da tendenze postmoderniste, Ulisse è stato variamente riletto come eroe del naufragio o del vagabondaggio senza approdo, un uomo perso in labirintici mari senza rotte, simbolo della condizione esistenziale contemporanea.
    Scriveva Saba in Ulisse,  identificandosi nell’eroe omerico e dando voce al senso di smarrimento nel labirinto dell’esistenza, ma pure al fascino del viaggio verso ignoti orizzonti, tutti da scoprire: Oggi il mio regno/ è quella terra di nessuno. Il porto/ accende ad altri i suoi lumi; me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito,/ e della vita il doloroso amore.
    Al rifiuto delle certezze e alla vitalistica spinta verso il caos dell’esistenza, d’Errico oppone, invece, il mito antico e rinnovato del ritorno: senza nulla togliere al valore delle esperienze che arricchiscono e all’energia delle sfide necessarie a sfaldare impalcature millenarie (maschilismo, sessismo, subordinazione della donna ancora imprigionata in ruoli subalterni, in società solo apparentemente evolute, ma di fatto ancorate a tradizioni androcratiche), Acati individua nel nostos la sola via verso l’autenticità.
    Non si tratta certo di un ritorno all’antico che azzera le conquiste sociali e culturali, ma, piuttosto, di un ritorno all’essenziale, nel segno del più autentico Ulisse omerico, che tornando a Itaca recupera quello che per lui conta davvero, esattamente come Laura. Certo, ribadire che il nostos consiste nel riappropriarsi degli affetti, della vita familiare, delle piccole cose di ordinaria semplicità, sembra quasi un voler ingabbiare l’uomo entro orizzonti riduttivi: che ne è della polis, della vita attiva, dell’impegno e delle lotte verso quelle tanto agognate magnifiche sorti e progressive?
    Questione di punti di vista.
    Negli anni dell’Illuminismo e delle inimmaginabili conquiste culturali, del filantropismo e del cosmopolitismo, dell’uguaglianza e della solidarietà, Voltaire, nel Candido dava un messaggio apparentemente controcorrente: un uomo è degno di questo nome solo se impara a “coltivare il proprio giardino”. Un invito all’egoismo? Ovviamente no. Significa che l’uomo deve imparare dai contadini il tempo della paziente attesa, deve saper dissodare l’animo, liberarlo dalle sterpaglie cerebrali e ideologiche che rendono la sua vita un cumulo di ipocrisie, menzogne e falsità condite di perbenismo, per nutrire, invece, quello spazio nel quale solo con una quotidiana, paziente cura potrà far nascere frutti buoni, che saranno, a loro volta, nutrimento per chi vorrà assaporarne il gusto.
    Semplicità, dedizione, attesa, capacità di comprendere verso che cosa vale la pena orientare i propri sforzi nel viaggio dell’esistenza sono gli ingredienti dell’ars vivendi che  d’Errico recupera da Omero e da Voltaire.
    Se, infatti, il soggetto della trama è un’Odissea riletta e adattata ai tempi, lo stile umoristico e a tratti paradossale nelle trovate volutamente da fiction (figli ritrovati dopo decenni, gravidanze inattese e magicamente scomparse, personaggi che ritornano dal passato e indisturbati se ne tornano da dove sono venuti, figli maturi e intraprendenti che diventano consulenti o addirittura guide morali per genitori spesso inadeguati al ruolo che rivestono) richiama alla mente lo stile di Voltaire, esperto nell’inversione dei grandi modelli letterari e filosofici del suo tempo.
   Riscoprendo maestri antichi, Alfonso d’Errico costruisce un romanzo in cui il perfetto equilibrio tra ironia e serietà dà corpo a una “certa idea di mondo”, per usare un’espressione cara ad Alessandro Baricco, che induce ogni lettore a riflettere sulle gerarchie dei valori in base ai quali ha impostato la propria vita.
    Carriera, successo, fama, visibilità: senza escludere il valore delle sperimentazioni utili ad una proficua autoaffermazione, d’Errico sente di ridimensionarne la portata e  sembra rilanciare il monito plotiniano: Fai come lo scultore di una statua che deve diventare bella: toglie questo, raschia quello, rende liscio un certo posto, ne pulisce un altro, fino a fare apparire il bel volto nella statua. Allo stesso modo anche tu togli tutto ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è obliquo, purificando tutto ciò che è tenebroso per renderlo brillante, e non cessare di scolpire la tua propria statua finché non brilli in te la chiarezza divina della virtù (Plotino, Enneadi VI, 7, 10, 27 sgg.).
    Acati insegna questo: a scoprire che cosa togliere per imparare ad aggiungere.
                                                  Teresa D’Errico

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