Un viaggio, amori che s’intrecciano,
tentazioni vissute e allontanate, la nostalgia di casa e degli affetti, il
ritorno: una storia antica.
L’Odissea
era il racconto di un eroe sofferente, ma
invincibile e forte. Che cosa accadrebbe se cambiasse il punto di vista,
se l’Odissea diventasse il viaggio
non di Ulisse, ma di Laura, non di un eroe, ma di una donna qualsiasi; decisa,
ma fragile; volitiva, ma umana? L’Odissea
si trasformerebbe in Acati, anagramma
di Itaca, e Alfonso d’Errico diventerebbe
il tessitore di un nuovo canto d’amore e d’avventura.
Acati si snoda lungo un percorso che inizia
con un’improvvisa partenza verso New York e che si conclude con il ritorno ad
Acati, non solo un luogo, ma una dimensione esistenziale.
Acati è la storia di ordinarie crisi
coniugali, di sfide tra sessi, di scontri ideologici, ma è anche la narrazione di una generazione stanca del
viaggio senza meta, consapevole del fatto che il naufragio non può essere affrontato
solo da passivo spettatore, perché, per chi lo vive, è una tragedia.
Acati è un romanzo che suggerisce l’idea del
ritorno non come immobile ripetizione di schemi antichi e anacronistici, ma
come capacità di recuperare l’essenziale, ciò che conta davvero.
Il progetto di d’Errico è duplice: da un
lato c’è il deliberato intento di rivisitare l’Odissea invertendone la prospettiva e conservandone alcuni aspetti,
dall’altro c’è il desiderio di dar voce alla propria idea di mondo, quella con
cui ogni scrittore cerca di contribuire a costruire il mosaico della storia.
La strategia di inversione del poema
omerico si sviluppa attraverso precisi rimandi: Laura è certamente Ulisse e
anche lei ha la sua Circe al maschile in George Sketton; Andrea è Penelope e
come lei è assediato da seducenti Proci al femminile (Brigida, Lucia); Telemaco
si trasforma in Marta e anche la Telemachia di questa intraprendente fanciulla
si conclude con un prezioso incontro e con affetti rinsaldati.
E, come Omero, anche d’Errico ritrova
nell’epica del ritorno il messaggio fondamentale da trasmettere ai suoi
lettori.
Nel corso del Novecento, alla luce dei suoi
esistenzialismi e nichilismi sfumati da tendenze postmoderniste, Ulisse è stato
variamente riletto come eroe del naufragio o del vagabondaggio senza approdo,
un uomo perso in labirintici mari senza rotte, simbolo della condizione
esistenziale contemporanea.
Scriveva Saba in Ulisse, identificandosi
nell’eroe omerico e dando voce al senso di smarrimento nel labirinto
dell’esistenza, ma pure al fascino del viaggio verso ignoti orizzonti, tutti da
scoprire: … Oggi il
mio regno/ è quella terra di nessuno. Il porto/ accende ad altri i suoi lumi;
me al largo/ sospinge ancora il non domato spirito,/ e della vita il doloroso
amore.
Al rifiuto delle certezze e alla
vitalistica spinta verso il caos dell’esistenza, d’Errico oppone, invece, il
mito antico e rinnovato del ritorno: senza nulla togliere al valore delle
esperienze che arricchiscono e all’energia delle sfide necessarie a sfaldare
impalcature millenarie (maschilismo, sessismo, subordinazione della donna
ancora imprigionata in ruoli subalterni, in società solo apparentemente
evolute, ma di fatto ancorate a tradizioni androcratiche), Acati individua nel nostos
la sola via verso l’autenticità.
Non si tratta certo di un ritorno
all’antico che azzera le conquiste sociali e culturali, ma, piuttosto, di un
ritorno all’essenziale, nel segno del più autentico Ulisse omerico, che
tornando a Itaca recupera quello che per lui conta davvero, esattamente come
Laura. Certo, ribadire che il nostos
consiste nel riappropriarsi degli affetti, della vita familiare, delle piccole
cose di ordinaria semplicità, sembra quasi un voler ingabbiare l’uomo entro
orizzonti riduttivi: che ne è della polis,
della vita attiva, dell’impegno e delle lotte verso quelle tanto agognate magnifiche sorti e progressive?
Questione di punti di vista.
Negli anni dell’Illuminismo e delle
inimmaginabili conquiste culturali, del filantropismo e del cosmopolitismo,
dell’uguaglianza e della solidarietà, Voltaire, nel Candido dava un messaggio apparentemente controcorrente: un uomo è
degno di questo nome solo se impara a “coltivare il proprio giardino”. Un
invito all’egoismo? Ovviamente no. Significa che l’uomo deve imparare dai contadini
il tempo della paziente attesa, deve saper dissodare l’animo, liberarlo dalle
sterpaglie cerebrali e ideologiche che rendono la sua vita un cumulo di
ipocrisie, menzogne e falsità condite di perbenismo, per nutrire, invece,
quello spazio nel quale solo con una quotidiana, paziente cura potrà far
nascere frutti buoni, che saranno, a loro volta, nutrimento per chi vorrà
assaporarne il gusto.
Semplicità, dedizione, attesa, capacità di
comprendere verso che cosa vale la pena orientare i propri sforzi nel viaggio
dell’esistenza sono gli ingredienti dell’ars
vivendi che d’Errico recupera da Omero e da Voltaire.
Se, infatti, il soggetto della trama è un’Odissea riletta e adattata ai tempi, lo
stile umoristico e a tratti paradossale nelle trovate volutamente da fiction (figli ritrovati dopo decenni,
gravidanze inattese e magicamente scomparse, personaggi che ritornano dal
passato e indisturbati se ne tornano da dove sono venuti, figli maturi e
intraprendenti che diventano consulenti o addirittura guide morali per genitori
spesso inadeguati al ruolo che rivestono) richiama alla mente lo stile di
Voltaire, esperto nell’inversione dei grandi modelli letterari e filosofici del
suo tempo.
Riscoprendo maestri antichi, Alfonso
d’Errico costruisce un romanzo in cui il perfetto equilibrio tra ironia e
serietà dà corpo a una “certa idea di mondo”, per usare un’espressione cara ad
Alessandro Baricco, che induce ogni lettore a riflettere sulle gerarchie dei
valori in base ai quali ha impostato la propria vita.
Carriera, successo, fama, visibilità: senza
escludere il valore delle sperimentazioni utili ad una proficua
autoaffermazione, d’Errico sente di ridimensionarne la portata e sembra rilanciare il monito plotiniano: Fai come lo
scultore di una statua che deve diventare bella: toglie questo, raschia quello,
rende liscio un certo posto, ne pulisce un altro, fino a fare apparire il bel
volto nella statua. Allo stesso modo anche tu togli tutto ciò che è superfluo,
raddrizza ciò che è obliquo, purificando tutto ciò che è tenebroso per renderlo
brillante, e non cessare di scolpire la tua propria statua finché non brilli in
te la chiarezza divina della virtù (Plotino,
Enneadi VI, 7, 10, 27 sgg.).
Teresa
D’Errico
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