giovedì 24 gennaio 2019

SOLO PAROLE, AMICA. Poesia inedita di Antonio Caione


Solo parole, Amica.
Solo parole ho io per te.
Giovanni Boldini, Mademoiselle  Lanthelme, 1907
Niente sguardi, niente strette di mano.
Niente saluti, niente abbracci
di ritrovata nel tempo
anima allora incrociata,
sfiorata e perduta
nel gioco di vita tessuta 
da divinità ignota.
Solo orecchie, Amica.
Solo orecchie ho io per te.
Per ascoltare, leggendo,
parole che dici scrivendo di te.
Non ho fiori per i tuoi capelli,
non ho vino per le tue labbra.
Forse musica ho io per te?
Solo parole, solo silenzi,
parole non dette,
ho io per te, Amica mia.
Antonio Caione

Ut pictura poësis, sosteneva Orazio. Eppure, scrivere della mancanza, rappresentare ciò che non c’è e non c’è stato, rendere tangibile il desiderio, dare forma a una realtà immateriale, significa forzare i mezzi linguistici, trasformare l’affermazione in negazione. Plotino parlava di teologia negativa: è più facile dire ciò che Dio non è, piuttosto che definire l’ineffabile. Questo principio, però, non dovrebbe valere anche per i sentimenti. Loro non ci eccedono, ci abitano; d’altra parte non sappiamo più definirli. O forse è lo spirito dei tempi che ci ha resi disarmati rispetto ai nostri sentimenti. Nell’era del videor ergo sum, guardarsi dentro è difficile.
Solo parole, Amica è un testo fondato interamente sul senso della perdita e della dimensione residuale: la possibilità di ascolto che pure Antonio Caione pare inizialmente lasciare aperta (solo parole, ho io per te … solo orecchie ho io per te), si converte presto in occasione mancata, in incontro negato. Restano parole non dette; la quadruplice anafora del niente (vv. 3-4) sottrae le attese di un contatto fisico ad ogni ipotesi di concretezza; e la duplicazione del non (vv. 14-15) ne è un’ulteriore conferma: prevale, nella selezione linguistica operata dal poeta, la dimensione negativa, la più appropriata per spiegare il senso della privazione. Anche la domanda introdotta dal dubitativo forse (v. 16), che pure sembrerebbe aprire un varco alla speranza, si trasforma in rapida, amara frustrazione: le parole, l’ascolto, la musica diventano sostanze evanescenti e lasciano il posto a ciò che propriamente rimane, solo silenzi (v. 17).
Eppure la donna proprio in virtù dell’assenza si accampa come protagonista dei versi; con la sua fisicità non posseduta dal soggetto lirico, diventa il pensiero dominante. Di lei immaginiamo i capelli (v.14) e le labbra (v.15) in una vaghezza petrarchesca che evoca e suggerisce: un’anima incrociata, sfiorata e perduta ha inciso con forza impalpabile, ma incancellabile, la propria esistenza e la propria permanenza nella memoria di chi scrive. La donna che fornisce all’autore il pretesto per parlare d’altro, non è descritta nei suoi tratti plastici, ma è proprio la sua evanescenza che dà corpo e forma agli stati interiori del poeta.
È impossibile non riconoscere nel testo di Antonio Caione, la risonanza poetica della bellezza fuggitiva che Baudelaire attribuisce alla protagonista del noto componimento A una passante
Il poeta dei Fiori del male traduce – come ha sottolineato W. Benjamin – l’esperienza dello choc a causa della modernità: la società di massa, l’anonimato, l’omologazione, la strada assordante rendono epifanici, sconvolgenti, irrealizzabili gli incontri, lasciano contratto come uno stravagante chi per un attimo ha ceduto alla speranza di una condivisione. Il caos toglie, sottrae, divide, separa: un lampo… e poi la notte, scrive Baudelaire. È la modernità, la velocità del progresso sintetizzata nella rue assourdissante, che nega la relazione e atomizza le possibilità di contatto. L’incontro non è vissuto, si dà come mancato, irrealizzato, vuoto. 
La modernità disorienta, attesta l’incapacità di controllo sull’esistenza che si fa anarchica e sfugge rispetto ad ogni progettualità. Perciò l’incontro si smaterializza, lascia gli effetti di un’incontrollabile e sentita vis attractiva, ma non si attua. Il contatto mancato non è, però, un dato biografico e individuale: è la metafora di un’epoca. Questo è il non detto di A. Caione. Nel gioco di vita tessuta /da divinità ignota si situano la chiave di lettura e l’origine del rimpianto. L’arcano mistero della vita, una partita che l’uomo gioca a dadi con il destino, è uno scacco: circostanze, casualità, imprevisti, imponderabili incroci di ombre che si sfiorano e non comunicano, non possono essere decriptati. Siamo sopraffatti dall’esistente che come una valanga travolge corpi, emozioni, sentimenti, non abbiamo il tempo e l’attenzione necessari a riconoscere ciò che si agita nell’animo. Ci lasciamo sfuggire le emozioni, non sappiamo forse neanche più nominarle, scriviamo emoticon invece di poesie. È la modernità, appunto: percepire e non accorgersene.
Quello che resta da fare ai poeti, tuttavia, è  dare voce ai silenzi, ritrovare nel tempo attimi di una felicità mancata e chiamarli con il loro nome: desiderio.
In fondo è dalla mancanza che nasce l’eros.
I versi sono polvere chiusa
di un mio tormento d’amore
(A. Merini, da La Terra Santa, 1984)

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