mercoledì 16 gennaio 2019

IL TRAMONTO DELLA REALTÀ


Sbagliava Platone a condannare le immagini: lui riteneva che producessero effetti illusori e ingannevoli. La rivoluzione digitale ha, invece, dimostrato il contrario: nel mondo digitale tende a scomparire ogni differenza tra l’originale e la sua copia, la realtà diventa più reale della realtà, più vera del vero,  cioè “iperreale” e la sua forza comunicativa si intensifica. Ne parla Vanni Codeluppi nel saggio Il  tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite.

Che cosa accade se la vita reale si trasforma in un reality? Certo, ci sono senza dubbio conseguenze se il reality show consente il facile successo di persone comuni e l’interazione con gli spettatori a casa, sempre più coinvolti nei programmi televisivi; ma, in fondo, questo è semplicemente marketing neotelevisivo che ha tolto alla “paleotelevisione” la sua antica funzione pedagogica, per usare espressioni care a Umberto Eco, lo ricorda giustamente V. Codeluppi.
Piuttosto, c’è da chiedersi, che cosa succede se la vita quotidiana diventa un reality show, se la politica diventa spettacolo, con una trama, personaggi e spazi d’azione, suspance, colpi di scena, e, infine, se persino la scuola si esibisce in performance da postare sui social e sui siti web, sui media digitali? E, soprattutto che cosa accade se questa dimensione costruita per la visibilità diventa più reale, anzi, forse l’unica a cui la società dà credito?
Spettacolizzare, per esempio, l’arresto di un terrorista per costruire una narrazione delle forze politiche al governo, agire con abiti di scena – divise delle forze armate - che trasformano agli occhi di moltitudini spaventate da una crisi che non passa più, un uomo politico in un supereroe macchiettisticamente dannunziano, fa sì che lo storytelling lasci sedimentare un preciso messaggio nell’opinione pubblica. E questo messaggio è tanto più penetrante non solo se i canali di comunicazione sono molteplici (radio, televisione, stampa, media digitali, social network), ma soprattutto se chi recita la parte e il copione finisce col crederci,  fino a considerare vero quello che ha narrato, immedesimandosi perfettamente nel ruolo e facendo così coincidere il personaggio con la persona.
Si tratta di un processo abbastanza fuorviante, piuttosto pericoloso perché contamina vari ambiti della vita sociale.
Si pensi a ciò che avviene a scuola, il posto in cui mandiamo i nostri figli perché diventino persone complete, colte, capaci di affrontare la vita e le sue sfide.
E invece anche a scuola quello che conta non  è ciò che si fa, ma la sua narrabilità. Siamo assistendo, in vari campi, ad un lento, graduale, programmatico svuotamento di senso, alla costruzione di una realtà deformata dalla trama narrativa che viene costruita esattamente come nel mondo politico: chi governa cerca consenso, la scuola vuole ottenere iscrizioni. Il punto fondamentale è che non è più possibile fare a meno della trama narrativa. I dirigenti scolastici adoperano i media come cassa di risonanza per la propria propaganda, esattamente come facevano Alessandro Magno e Augusto per celebrare le proprie res gestae o, in tempi più recenti, i grandi Dittatori per costruire l’ideologia del potere: amplificare la portata dei fatti attraverso la loro narrabilità. Però, va ricordato, quelli citati non furono fulgidi esempi di democrazia.
A scuola si opera perché tutto possa diventare esperienza visibile, pubblicabile, “postabile”. I dirigenti scolastici travolti dal vortice della competizione fra istituti ormai strutturati come aziende in concorrenza, non puntano più sulla qualità delle conoscenze e delle proposte culturali, ma solo alla narrabilità delle iniziative: un’attività conta per la narrazione che se ne può dare e che possa tradursi in un quantum di iscrizioni, è merce di scambio. Perciò non sono affatto importanti i libri che i docenti fanno leggere ai ragazzi, vale solo il fatto che si possa dire, raccontare, che è in atto un reading in classe, perché l’elemento anglofono fa più effetto; oppure l’idea conta solo nel momento in cui si decide di riabilitare quella materia “inutile” come il latino per trovare un titolo stravagante all’idea, non troppo appetibile in sé, di far leggere un libro in classe agli studenti: e allora dare un nome straordinario, in latino,  - per esempio, verba … manent - alle ordinarie ore di lettura, trasforma una cosa antica e sensata, ma dai più giovani evitata - come appunto è la lettura - in un post, in un video che amplifichi l’evento e trasformi l’ordinario in straordinario, la classe in eccellenza, il docente in intellettuale carismatico e la scuola nell’Empireo della novità, ergo, nella scuola “da scegliere”!
Licei che organizzano corsi di addestramento per bagnini e velisti, angoli relax con tavolini da bar, scale decorate con titoli variopinti di opere classiche e scientifiche sembrano dire molto di più, spettacolarizzano, aggiungono l’effetto speciale ad una scuola che se si limita a fare ciò per cui è nata (istruire, insegnare, formare) non attrae “utenti”. Il punto è che chi costruisce la narrazione crede alla finzione che ha inventato e l’immagine cattura, seduce, attrae più della sostanza: si chiama “imagocrazia” (definizione che fa capo a Guerino Bovalino). Insomma, come scrive Marc Augé  nel saggio La guerra dei sogni, non è più la finzione che imita la realtà, ma la realtà che riproduce la finzione. Si costruisce così una mitografia: quello che conta è il nome … nomina nuda tenemus.

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