domenica 4 dicembre 2016

L'ARTE DELLA VITA



Bauman pone in epigrafe al suo saggio, L’arte della vita, una frase di Seneca, tratta dal “De vita beata”: tutti vogliono vivere felici, ma hanno l’occhio confuso quando devono discernere ciò che rende felice la vita. Seneca sapeva che  rendere felice l’esistenza umana è un’impresa difficile. E oggi non sembra che le cose siano molto cambiate: questo è il senso  del libro di Bauman. Il denaro non dà la felicità; quello che compriamo nei negozi non dà la felicità; la libertà è sempre un atto di responsabilità, una costrizione a operare una scelta e scegliere significa sempre rinunciare a qualcosa: questo non dà la felicità; l’amore e il desiderio si concentrano sempre su qualcosa che ancora non è, i loro oggetti sono tutti nel futuro … inaccessibile ai sensi e non indagabile da parte della ragione.

Va notato, inoltre, che una parte consistente della nostra vita – e, dunque, della nostra ricerca della felicità - si svolge nel mondo del lavoro, di cui Bauman fornisce un’analisi amara. L’idea di dare ordine alla vita, di organizzarla, vuol dire considerare il caos un male da sconfiggere. Quindi, ogni forma di management orientato al controllo del disordine è sempre stato considerato un paradigma vincente. Tuttavia la storia dell’economia sembra dimostrare che il managerialismo è un modello verticistico che favorisce solo chi è al potere e schiaccia i dipendenti, trasformando le fabbriche in giganteschi ingranaggi nei quali gli operai sono ridotti a mere estensioni dei nastri trasportatori. Oggi, in verità, il mondo delle imprese tende verso organizzazioni che danno più spazio agli aspetti vitali dell’esperienza, valorizzando l’immediatezza, la soggettività, lo spirito ludico. Ne derivano apparenti crescite in termini di libertà, creatività, forme di autogestione e di autoaffermazione nei processi di lavoro, che renderebbero i dipendenti più autonomi e più soddisfatti nel vedere umanizzata la loro attività. Va, però, considerato il fatto che nell’era dei telefoni cellulari e dei computer portatili tale condizione di libertà è solo, come si è detto, apparente: non ci sono più attenuanti per la propria irreperibilità. Essere costantemente agli ordini dei propri capi, familiari, amici, non è più solo una possibilità, ma un dovere, anzi, una spinta interiore. Si arriva a un paradosso: ora che i dipendenti sono più autonomi e si autogestiscono, molte aree del loro sé, della loro dimensione privata e personale, si aprono allo sfruttamento. La nuova organizzazione più democratica del lavoro, nei fatti è, invece, pronta a divorare tempo, energie, emozioni dei dipendenti, ai quali si arriva a chiedere -  o, meglio, essi stessi sentono quasi l’obbligo di dare – un’appassionata dedizione, sollecitata da uno stato di allarme e di emergenza artificialmente montato per accrescere la performatività di coloro che fanno parte del sistema-azienda.
Il dipendente ha la percezione che la strategia delle nuove organizzazioni d’impresa sia il “codice dell’amore”: non contano più i contratti scritti, ma le continue dimostrazioni di dedizione assoluta, di abnegazione, utili a meritarsi la simpatia del capo, come accade in un rapporto in cui ci si adopera per ottenere l’affetto del partner. Essere amati è qualcosa che non sarà mai confermato a sufficienza. E la condizione per essere amati è l’offerta costante di prove sempre nuove della propria capacità di riuscire, di essere sempre un passo avanti, competitivi, rispetto ai concorrenti anche solo potenziali. E questa è una vita emozionante? No. È una vita logorante. Sembra davvero una presa in giro il bel parlare di sinergie e spirito collaborativo. Il codice dell’amore è esclusivista: non si può collaborare con i/le potenziali amanti del proprio partner! Il mondo del lavoro oggi è questo: instabilità, sospetto reciproco, ansia.
Può l’essere umano raggiungere la felicità in queste condizioni?
Secondo Bauman, l’incertezza è parte strutturale dell’esistenza umana, che non concede nulla senza dura fatica. E ognuno di noi è disposto allo sforzo incessante pur di costruire la propria felicità. Ma se la dimensione del lavoro è diventata pervasiva, tanto da annullare desideri, è ancora possibile immaginare la felicità? Rendere l’uomo un essere condannato a esistere per la mera sopravvivenza  e ridurlo al solo "dum spiro, spero" può davvero bastare? Siamo disposti ad accontentarci del “finché c’è vita c’è speranza”?
No, l’uomo è fatto per credere che da un malchiuso portone  - direbbe Montale - si possa vedere il giallo dei limoni, si possano sentire le trombe d’oro della solarità.

mercoledì 28 settembre 2016

UNO STUDIO. Preservare la sostanza umana.



Ciò che accomuna le società distopiche (e, quindi, per uno strano gioco di parole, anche dispotiche) è la sacralizzazione della scienza applicata, da un lato, e la demonizzazione della cultura umanistica, dall’altro.
La società di Fahrenheit 451, per esempio, è completamente meccanizzata, nelle case le comunicazioni sono annullate e sostituite da maxischermi che monopolizzano l’attenzione degli inquilini.

Anche in 1984 Orwell immagina una realtà controllata attraverso schermi giganti che proiettano l’immagine del Grande Fratello, con i suoi capelli e baffi neri, irraggiante forza e una misteriosa serenità, quella falsa quiete che solo le astute menzogne sanno infondere e che fanno credere agli sprovveduti che davvero la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è la forza.
In 1984 una perversa neolingua abbatte il pensiero critico, riduce il campo semantico delle parole e il numero stesso dei termini da utilizzare, perviene, insomma, a una lingua standard, di fatto incapace di  tradurre, per esempio, principi come “tutti gli uomini sono stati creati uguali … forniti di diritti inalienabili: fra questi, la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità … Quando una qualsiasi Forma di Governo opera per la distruzione di questi fini, è Diritto del Popolo mutarla o abolirla, istituendo un nuovo governo”. In una società scientificamente organizzata e altamente burocratizzata, il Grande Fratello arriva a controllare il pensiero e se qualcuno conserva la memoria della lingua tradizionale, capace di esprimere nobili, e per questo eversivi, principi, viene tacciato di psicocrimine.
Nella realtà orwelliana la scienza viene applicata al servizio di un potere tirannico che opera per l’autoconservazione e per lo sconfinato ampliamento del proprio dominio.
Estremamente scientificizzata è, inoltre, la realtà del Mondo Nuovo costruita dalla fantasia di Huxley: coppie gemellari suddivise per livelli di prestazione sociale, vengono geneticamente selezionate e collettivamente allevate, senza legami familiari o vincoli affettivi. Non ci sono coppie stabili, famiglie amorevoli. L’eros è un gioco cui si viene addestrati fin da bambini e la felicità è frutto di una combinazione chimica, il soma, ingeribile per via orale.
Huxley racconta che un giovane Selvaggio, però, casualmente trova una raccolta completa delle opere di Shakespeare, impara a leggere, a pensare, affina i suoi sentimenti e oppone alla dimensione assurda della società del progresso, la passione e l’umanità contenute nei libri e dichiara senza paura io preferirei essere infelice piuttosto che avere questa specie di falsa, menzognera felicità che avete qui. A un mondo anaffettivo, in cui la scienza controlla i sentimenti, i pensieri, i comportamenti, a fronte di una totale assenza di malattie, di un comfort senza paragoni, di una totale stabilità sociale ed economica, il Selvaggio contrappone una sua idea di vita ed esistenza: io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato. Si tratta della rivendicazione del diritto di essere uomo, nel bene e nel male, tra gli abissi del dolore e il volo dei sogni.
Una scienza asservita contraddice il suo statuto epistemologico e riduce il senso dell’umanità. Una scienza strumentalmente orientata al dominio delle coscienze viene meno alla sua stessa natura.
Orwell ipotizza una sorta di resistenza della sostanza umana: Winston pensò al teleschermo e al suo orecchio in perenne ascolto. Potevano spiarti giorno e notte, ma se restavi in te, potevi ancora metterli nel sacco … I fatti certamente non si potevano tenere nascosti. Li si poteva ricostruire per mezzo degli interrogatori, li si poteva estorcere con la tortura. Se però l’obiettivo non era la sopravvivenza, ma la conservazione della propria sostanza umana, che importanza aveva tutto ciò? Non potevano cambiare i sentimenti. Anzi, neppure voi potevate cambiarli, neanche volendo. Potevano portare allo scoperto, fino all’ultimo dettaglio, tutto ciò che avevate detto, fatto o pensato, ma ciò che giaceva in fondo al cuore e che seguiva percorsi sconosciuti anche a voi stessi, restava inespugnabile. (Orwell, 1984)
Quello che Bradbury, Orwell e Huxley delinenano è il ritratto di una società prometeica, improntata al dominio del “fare”, narcisisticamente volta al principio di prestazione, all’ostentazione della propria eccellenza, alla soddisfazione della propria ansia di controllo su ogni aspetto dell’esistenza umana. A ben guardare, in fondo, il quadro coincide con quello della nostra società, in cui la vita può essere artificialmente governata da macchine; la morte è una condizione che si può rinviare rispetto ai limiti imposti dalla natura, attraverso una scienza medica che cerca l’elisir dell’eterna giovinezza, oppure è anticipata grazie a eutanasie sempre più sofisticate. L’homo faber ha costruito un’idea di scienza che sta azzerando ogni traccia di umanità nel mondo. Però, sembra ammonire la letteratura, cercare surrogati esistenziali attraverso la scienza non paga, non è sempre bene ciò che fa stare bene.
La ricerca scientifica ci ha consentito di essere social, un tempo, invece, eravamo socievoli; prima era un complimento essere belli, ora bisogna essere "curati"; in passato si parlava, adesso si chatta; e se prima ci si incontrava, oggi ci si "interfaccia".
D'altra parte, però, è vero che la scienza ha prodotto benessere e non si tratta, certo, di fare masochisticamente l’apologia del dolore in nome di un’etica del sacrificio. No. Qui è in discussione la sostanza umana dell’esistenza.
Non è un caso che nei tre romanzi in esame l’antidoto alla cancellazione dell’umanità venga dalla letteratura: nella società del rogo dei libri immaginata da Ray Bradbury, la sostanza umana viene preservata da uomini che hanno imparato a memoria testi classici, opere del passato e che sono vagabondi all’esterno e biblioteche all’interno, uomini che scelgono di riappropriarsi del tempo, che rivendicano, contro l’efficientismo e l’ipercinesi della società del progresso, il diritto di usare il proprio tempo: c’era il tempo intorno, il tempo di sedersi … sotto le piante, di guardare il mondo. E ad un tratto le voci cominciarono, ed erano voci che parlavano … Il loro suono saliva e scendeva tranquillamente, mentre le voci si rigiravano il mondo sotto gli occhi e lo guardavano; le voci conoscevano la terra, gli alberi, la città… Le voci discorrevano su tutto, non c’era una sola cosa di cui non sapessero parlare. (Fahrenheit 451)
Nella società del silenzio imposto,la parola riprende corpo e vigore. Nella società governata dal sapere scientifico improvvisamente si avverte in modo urgente il bisogno di anima. È la sostanza umana che chiede spazio.
In un’epoca in cui il sapere scientifico sta invadendo la scuola e persino la fantasia dei bambini, travolti da giochi virtuali che sostituiscono la loro vicinanza reale, c’è da interrogarsi sulla bontà dell’assolutismo scientifico-tecnologico.
Manfred Spitzer, nel suo saggio Demenza digitale, osserva che quando la tecnologia diventa invasiva, necessariamente si modificano i processi emotivi e psicosociali e sono condizionate persino  le posizioni etico-morali, le prospettive esistenziali dei soggetti.
E le conseguenze sull’apprendimento sono gravi. Il modo in cui si impara qualcosa determina il modo in cui il contenuto verrà memorizzato nel cervello. Pertanto chi osserva il mondo solo spostando e cliccando un mouse, come suggeriscono alcuni sostenitori della pedagogia digitale, saprà pensarlo “meno bene”. (Spitzer, Demenza digitale).
Insomma, la scienza ci può dire che esiste la scissione dell’atomo. Cosa farcene, dobbiamo deciderlo noi: usarla per curare le malattie oppure sganciare una bomba per uccidere persone?
Spesso la politica dimentica che esiste un’enorme differenza tra agire e fare: si celebra il valore dei governi del “fare”, si spinge la scuola a educare i giovani al “saper fare”; si giudicano le amministrazioni dai “fatti”.
Eppure, a ben guardare, la forza prometeica del “fare” è l’espressione più icastica del positivismo borghese, la cui incessante ansia di produrre si è tradotta, poi, nell’igienificazione del mondo propagandata da Marinetti già all’inizio del secolo scorso: in fondo le guerre sono il prodotto della scienza umana applicata alle esigenze della politica. Sono il frutto di una politica del “fare”.
Invece non funziona così. Fare significa eseguire un input. Quando Paul Tibbets ha sganciato la bomba atomica dall’Enola Gay, ha fatto quel che doveva fare: premere un pulsante, come gli era stato ordinato.
Avrebbe potuto non farlo, ma non ha avuto le chiavi culturali per dire “no”, per agire responsabilmente, per commettere un atto di “disubbidienza civile”, direbbe Thoreau.
Agire significa, quindi, conoscere le conseguenze dei propri comportamenti, operare, cioè, anche scelte morali che si dissociano da ciò che il sistema politico/sociale detta. Agire significa, in breve, saper dire “no” a ciò che viene imposto, iniziare una rivoluzione contro le ali maligne – per usare un’immagine cara a Quasimodo - di una scienza non più libera, ma asservita a poteri autoreferenziali e completamente dissociati rispetto alla condizione e alle esigenze delle persone che compongono la vita reale.
Albert Camus comincia il suo saggio L’uomo in rivolta con queste parole: che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no.
Bisogna avere il coraggio di opporsi alla tirannia del sapere scientifico/tecnologico e restituire spazio alla bellezza di ideali per cui valga la pena vivere e che solo il sapere umanistico può costruire, liberando la scienza stessa dai condizionamenti che la schiacciano e restituendola alla sua più propria specificità.
I veri grandi riformatori non si servono della scienza per controllare la società.
Tutti i grandi riformatori cercano di costruire nella storia quello che Shakespeare, Cervantes, Moliére, Tolstoi hanno saputo creare: un mondo sempre pronto ad appagare la fame di libertà e di dignità che sta in cuore ad ogni uomo. La bellezza senza dubbio non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei… Mantenendo la bellezza, prepariamo quel giorno di rinascita in cui la civiltà metterà al centro delle sue riflessioni … quella virtù viva che fonda la comune dignità del mondo e dell’uomo. (A. Camus, L’uomo in rivolta)

Si tratta di difendere la sostanza umana.

sabato 3 settembre 2016

La formica argentina




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ITALO CALVINO                               


La formica argentina


La formica argentina è un racconto che fa parte della raccolta Gli amori difficili e, insieme a La nuvola di smog ne compone la seconda sezione, intitolata La vita difficile.   
In questa parte della raccolta Calvino allarga lo sguardo dalle vite individuali all’esistenza umana nel suo complesso resa, appunto, “difficile” dal male di 
vivere. Senza ricorrere a correlativi oggettivi di struggente dolore – come fa Montale con le sue note e icastiche immagini: il rivo strozzato che gorgoglia, l'incartocciarsi della foglia riarsa, il cavallo stramazzato – Calvino riproduce una situazione concreta che si trasforma in un’ossessione e paralizza la vita nella sua quotidianità: un’invasione di formiche contro cui non esiste rimedio. A nulla valgono, infatti, insetticidi e trappole. C’è chi specula su questa sciagura e forse trae vantaggi dal perdurare del problema, arrivando persino ad alimentarlo. C’è chi reagisce facendo finta che le formiche non esistano e chi, invece, diventa aggressivo e violento.
Reazioni umane di fronte al pericolo: corruzione, indifferenza, reattività.
La formica argentina non è semplicemente una specie di formica dannosa e invasiva; è, piuttosto, nelle intenzioni di Calvino, la forma che assume l’inquietudine, quando si affaccia su una vertigine senza fondo; è l’assenza di rimedi, l’evanescenza delle soluzioni, non tanto nell’impatto con le contingenze e con i fastidi del “campare”, quanto, piuttosto, di fronte all’esistenza umana nella totalità dei suoi aspetti, un’esistenza che diventa come un macigno insopportabile se non si possiede la forza di imparare l’arte della convivenza con il dolore.
Viviamo in un’epoca in cui la formica argentina si è macroscopicamente ingigantita e ha generato uno stato di incertezza e di angoscia che Bauman ha definito “paura liquida” (1). 
Zygmunt Bauman
Oggi la formica argentina è un immane Titanic, per usare una metafora cara a Jacques Attali (2): tutti intuiamo che c’è un iceberg ad attenderci, nascosto da qualche parte tra le brume del futuro nebuloso, e che ci andremo a sbattere contro per poi sprofondare al suono della musica ….
Mille sono oggi le nostre formiche argentine, i nostri iceberg: la minaccia finanziaria, quella nucleare, quella ecologica, quella sociale, quella terroristica. La molteplicità dei poli di insicurezza generale determina uno stato incessante di paura: la paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma non si mostra mai chiaramente."Paura" è il nome che diamo alla nostra incertezza, alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare (3).
Eppure dobbiamo sopravvivere.
Calvino suggerisce di guardare più dall’alto: vivere in un meschino e gracile orizzonte ci costringe a batterci contro problemi gracili e meschini. La terra è in effetti un piccolo punto del cosmo. Già Seneca ricordava che è solo un granello quello su cui navigate, in cui combattete, in cui ordinate i vostri regni (4). Corre l’obbligo, allora, di cambiare prospettiva e prendere le distanze dalle miserie quotidiane. E se la formica argentina  simboleggia il proliferare di guai sempre nuovi con cui l’uomo deve fare i conti ogni giorno, il mare calmo, con il suo continuo fluttuare di colori, con le sue distanze d’acqua, con le sue correnti che spingono lontano, sempre più lontano, verso infiniti orizzonti, sono la metafora usata da Calvino per evocare le nuove prospettive che ognuno è chiamato ad adottare: guardare più dall’alto, prendere le distanze da questa fragile condizione … in fondo quell’esercito di formiche siamo noi.
Del resto, per sopravvivere, abbiamo il dovere della speranza, scrive Bauman, che però, rispetto a Calvino assume una posizione più combattiva. Ancora Seneca – modello insostituibile per ogni linea di pensiero – diceva vita militare est (5): non si possono sognare fughe in mondi iperuranici di oziosa contemplazione; come soldati dobbiamo combattere per affrontare le prove dell’esistenza. Bauman indica nel compito di denuncia degli intellettuali l’inizio di un processo di sradicamento dell’angoscia collettiva: solo mettendo a nudo la complessa rete di nessi causali tra dolori individuali e le condizioni prodotte collettivamente si potrà dare spazio alla speranza. E il compito degli intellettuali è arduo, consiste prima di tutto nel far comprendere a fondo ciò che Seneca già nel I secolo d.C. aveva capito: perdite, duri colpi, fatiche, paure mi hanno quasi subissato:sono cose che capitano ... Tutto ciò che provoca i nostri gemiti, tutto quello che temiamo, sono tributi da pagare alla vita: non chiedere di esserne esente (6). Tuttavia la consapevolezza dell’ineliminabilità dolore è solo un primo passo; occorre con urgenza un nuovo patto degli intellettuali con l’umanità: far conoscere, denunciare, proporre. Che il dolore esiste è una cosa certa. Tuttavia la smisurata crescita delle cause di sofferenza rispetto al passato, è un dato allarmante. Non saranno, forse, costruite ad hoc, le nostre paure? Bauman sostiene che  i prodotti per combattere la paura hanno bisogno di consumatori paurosi e impauriti (7). Sembra chiaro che tante paure arrivano nella nostra vita già con i loro rimedi, un pacchetto in offerta contro pericoli debellabili … al giusto prezzo! Pericoli e paure verrebbero, perciò, alimentati dalla melassa avvelenata, poco avvelenata, anzi così scarsamente avvelenata che finisce con l’ingrassare le formiche argentine. Del resto, scrive Calvino nel suo racconto, il giorno che non ci fossero più formiche i funzionari dell’Ente dove andrebbero? Calvino fa ben capire che gli uomini dell’ENTE PER LA LOTTA CONTRO LA FORMICA ARGENTINA hanno bisogno della formica argentina! Insomma, se non ci fossero le guerre, come si potrebbero vendere le armi che l’industria bellica copiosamente fabbrica? Se non ci fossero le malattie, come vivrebbero coloro che producono i farmaci?
E' bene, allora, fare in modo che il male di vivere non sia acuito dalla passività di un’ignoranza collettiva verso le responsabilità di chi alimenta i pericoli del mondo e specula sulle paure umane.
Solo così si potranno trovare gli antidoti per le formiche argentine che stanno invadendo le nostre vite.

1-      Zygmunt Bauman, Paura liquida, 2006
2-      Jacques Attali, Le “Titanic”, le mondial e nous, in “Le Monde”, 3 luglio 1998
3-      Z. Bauman, op. cit.
4-      Seneca, Naturales quaestiones, Preafatio 12.
5-      Seneca, Epistulae ad Lucilium, 96, 5
6-      Seneca, Epistulae ad Lucilium, 96, 1; 96, 2
7-      Z. Bauman, op.cit



mercoledì 31 agosto 2016

La strada

CORMAC Mc CARTHY
Cormac McCarthyLa strada

Il mondo devastato non lascia spazio alla speranza. In uno scenario di apocalittica distruzione un padre e un figlio camminano. Solitudine e precarietà sono le cifre di esistenze che brancolano in uno smarrimento senza fine: la terra avvolta nel suo lugubre velo continuava ad arrancare intorno al sole, ignota e smarrita come qualsiasi altro pianeta sconosciuto nella remota oscurità circostante.
Sopravvivere in un mondo assurdo, uscendo incolumi dalla violenza che lo uccide, è l’obiettivo dei due protagonisti. Non si sa quale guerra abbia ridotto in frantumi ogni vincolo sociale, trasformando  gli uomini in predoni; l’autore non spiega quale catena di cause abbia determinato una simile oscurità, una tale assenza di orizzonti. Mc Carthy attribuisce, però, al bambino una forte lucidità di analisi: guardò il cielo. Un unico fiocco grigio che planava leggero. Lo prese in mano e lo guardò disfarsi come se fosse l’unica ostia della cristianità.
“Terra desolata”, termine di eliottiana memoria, viene usato dallo scrittore per sottolineare il colore livido di una dimensione spettrale, in cui si aggirano uomini senza fede, nomadi in una realtà febbricitante, fatta di tenebre e nulla e in cui l’attesa si dissolve in un angosciante mai, con la certezza che mai è l’assenza di qualsiasi tempo.
Eppure un simile scenario non lascia il posto a uno scontato nichilismo. Nel padre si fa strada un sentimento sempre più forte, non un semplice istinto protettivo, neanche solo un forte vincolo d’amore. Protezione e amore non sempre bastano a rendere uomini i figli.  Guardò il bambino addormentato. Ce la farai? Quando sarà il momento? Ce la farai? … Lui teneva il bambino stretto a sé … ma ammesso che fosse un buon padre sapeva che … il bambino era l’unica cosa che lo separava dalla morte.
Tra il buio del presente e l’ignoto dopo la morte c’è uno spazio che si chiama vita e il bambino la rappresenta. Non è sufficiente proteggerlo dal presente e l’amore, certo, non gli farà da scudo eterno contro la durezza dell’esistenza. In nome del figlio, allora, il padre aggiunge un nuovo cardine alla sua strada verso il futuro: la responsabilità, un lavoro tenace e costante orientato a rendere il figlio capace di camminare da solo, in modo autonomo, ma forte dell’esperienza di chi gli è stato sempre al fianco, è inciampato e si è rialzato insieme a lui.
La strada, quindi, al di là delle apparenze non è un romanzo nichilista e non è neppure un libro che celebra la chiusura nella torre d’avorio degli affetti, in risposta alla totale assenza di senso della storia.
Il legame tra padre e figlio è la metafora di un nuovo orizzonte di significato che nonostante tutto è possibile dare all’esistenza umana.
Abbracciò il bambino ... Poi si rimisero in marcia e tenendosi per mano raggiunsero ... il punto più alto della strada... Freddo e silenzio. ...  Un freddo assassino. L'uomo teneva stretto a sé il bambino tremante e contava ogni suo fragile respiro nell'oscurità... Terra desolata... Continuava ad andare avanti...
Dobbiamo continuare a cercare ... Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere.
Io non te lo permetterò...
... Si sedette piegato in due con le braccia incrociate sul petto e tossì tutto quel che poteva tossire...
Si accamparono lì e quando l'uomo si stese a terra capì che non si sarebbe più rialzato e che quello era il posto dove sarebbe morto....
Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare... Fa' tutto come facevamo insieme.
Voglio restare con te.
Non puoi. Devi portare il fuoco.
E dove sta? Io non lo so dove sta.
Sì che lo sai. E' dentro di te. Da sempre. Io lo vedo. Hai tutto il mio cuore. Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni.
Massimo Recalcati nel suo saggio Il complesso di Telemaco, considera La strada un testo dal forte valore pedagogico. La storia dimostra che è tramontata l’era di Edipo, quella che tradizionalmente faceva dei padri l’autorità indiscussa e vedeva nella sudditanza dei figli la motivazione principale alla contestazione, venuta, in effetti, con le rivoluzioni del ’68. Si è conclusa, poi, anche l’epoca dei Narcisi, i genitori postsessantottini, in carriera, travolti dal successo, amici dei loro figli, assenti, ma nello stesso tempo concentrati a proiettare su questi ultimi la loro personale ansia di eccellere, destinati, così, a sopraffare le loro creature, opprimendole, generando in loro frustrazioni, senso di inadeguatezza e, pertanto, ottenendo, il più delle volte, risultati contrari a quelli sperati. Ebbene, falliti questi due contrapposti modelli educativi, Recalcati individua proprio nel padre delineato da Mc Carthy la nuova proposta. Un genitore non è colui che schiaccia con la sua perfezione, non è neppure l’amico che confonde i ruoli e, quindi, non dà sicurezza. Un genitore non ha certezze né risposte sicure. Lascia che il figlio le trovi da sé, nel fondo del suo cuore. Lo incoraggia, lo aiuta a conoscersi. Commette errori, inciampa. Alle domande del figlio, il padre di Mc Carthy risponde quasi sempre non lo so, eppure lo porta in salvo, lo tiene stretto a sé e lo lascia andare, quando arriva il momento in cui il figlio dovrà procedere da solo, perché lo ha deciso la natura, perché a un certo punto si smette di essere figli e si diventa uomini. Il padre descritto da Mc Carthy non nasconde la paura, ma mostra lo sforzo di superarla. Insegna al figlio che non bisogna arrendersi, anche quando il corpo cede e l’animo è stanco. Nonostante il dolore, la malattia, la disperazione, sprona il figlio a cercare la fiamma viva della sua essenza, quella fiamma che illumina la strada.
Compito di un genitore è consentire ad ogni figlio di scoprire quale sarà la sua fiamma, dove porterà la sua strada.








martedì 9 agosto 2016

Un guizzo di brace e altri racconti

ALFONSO D'ERRICO

Un guizzo di brace e altri racconti

Critica. Direi quasi scettica. Anzi piuttosto indispettita: un altro esperimento narrativo di mio padre, la scanzonata occupazione di chi crede che “raccontare” sia, in fondo, un passatempo, una “cosa” alla portata di tutti … del resto gli italiani credono di essere un popolo di scrittori, ognuno ha un romanzo nel cassetto…
Pronta con la mia matita rossa e blu, decisa più che mai a dimostrare che narrare è ben altra cosa rispetto al saper scrivere, mi accingo a leggere i racconti di Alfonso d’Errico, magistrato in pensione, nonché mio padre, con lo stesso atteggiamento con cui in genere trascorro i miei weekend invernali, tra pacchi di compiti di Italiano di alunni bravi, ma che credono di essere artisti; colti, ma che ritengono di poter aspirare al Nobel e che, quando assegni il compito “ scrivi un racconto su…”, già si vedono inseriti tra le pagine di manuali scolastici e antologie! Perciò, sentendomi un po’ correttrice di bozze e un po’ maestrina, sono andata alla ricerca degli errori. E invece …
La prima frase su cui si imbatte il mio spirito ipercritico ha un significato dolce, malinconico, vero: ...diceva mia madre parlando in genovese. Il suo pessimo dialetto voleva testimoniarci la scia intensa di un pezzo della sua vita. Nelle trenette al pesto che ogni tanto ci preparava, voleva condensare giorni, gioie, ricordi.( Uno dei mille)
Io la ricordo proprio così, mia nonna. Non è questo, però, che mi colpisce; piuttosto, attrae la mia attenzione il modo in cui la frase termina: … condensare giorni, gioie, ricordi. Renderli densi, fitti, vivi, sottrarli all’indistinto della memoria, all’anonimato delle vaghe impressioni, per rivivere, tra grumi di emozioni, un passato che -  oggettivamente - non c’è più, ma che – soggettivamente - non se ne andrà mai dal cuore. Capisco allora che è questo il desiderio di mio padre, condensare giorni, gioie, ricordi. Trovo sulla sua scrivania, aperto - credo - non a caso, un libro di poesie di Ezra Pound. La matita trattiene le pagine per conservare il segno, il punto in cui la lettura si è interrotta. Trovo una leggerissima linea tracciata da lui per sottolineare poche parole: il tempo ha visto e non tornerà indietro;/ e che diritto abbiamo, noi che conosciamo l’ultimo intento,/ di affliggere il domani con un testamento!
Inoltrandomi nella lettura ho capito il nesso tra i racconti di questa raccolta e i versi di Pound. Per mio padre narrare è stato un po’ come vivere: non testamenti e volontà da far eseguire, non saggi consigli che - l’esperienza lo dimostra - raramente vengono ascoltati; non insegnamenti che, in virtù della sua autorità genitoriale avrebbe potuto - legittimamente - impartire, ma racconti di vita vera, con pazienza e intelligenza intessuti di parole calibrate e ironiche, di vicende apparentemente biografiche, ma dal sapore universale, in cui un insegnamento sicuramente lo trovi, ma nel frattempo ti sei goduto il racconto!
E mentre leggi ti sorprendi, senti che lui ti strizza l’occhio, sa quando ti deve far sorridere e quando ti deve far riflettere. Questo dialogo silenzioso con il lettore somiglia a quello che costruivamo io, lui e mia sorella, di sera, prima di addormentarci: non ci raccontava fiabe, ma “storie” che avevano il tratto dell’umanità, dell’esperienza, delle gioie, degli errori, dei dolori e delle vittorie. Non so quanto fossero vere, ma ci hanno aiutato a vivere. Non testamenti, ma testimonianze. Non monumenti, ma “storie”, che dei monumenti hanno la capacità di imprimersi nella memoria e di rimanerci e che della storia conservano il significato etimologico. Sono frutto, infatti, dell’indagine acuta e della ricerca attenta sui comportamenti e sui sentimenti umani, su quel fondo comune che riduce le distanze tra le persone.
Continuo la mia lettura e mi soffermo su un piacevolissimo racconto dal vago retrogusto oraziano e dal tono tra l’ironico e il bonario; mi incuriosisce un’altra frase: … se fino a quel momento non avevo visto l’ora di liberarmi di quel tizio, ora quasi mi dispiaceva distaccarmene. Avvertivo un inspiegabile senso di vuoto che mi stava attendendo al varco non appena mi fossi separato da quell’ignoto amico di gioventù sbucato all’improvviso da un passato che avevo buttato alle mie spalle.( Al parcheggio)
Di Orazio rivedo l’atteggiamento infastidito di chi si sente importunato e ha altro di più urgente da fare. Nella satira detta “del seccatore” (Sermones, I,9), Orazio descrive il fastidio, la noia, che lui stesso prova durante l’incontro inaspettato e seccante con un tale che lo trattiene in chiacchiere vuote. Il poeta latino suscita il sorriso complice del lettore perché sa che tutti potremmo riconoscerci ora nel suo sentimento di tedio ora nello sfinimento provocato dalla tattica messa in atto dal seccatore. Siamo uomini e sbagliamo sia nell’ascolto distratto sia nell’invadenza. Ma Orazio è indulgente e con la sua ironia bonaria sa assolvere chi, vivendo, incorre in inevitabili errori. Ebbene, Al parcheggio conserva della satira oraziana lo smarrimento di un incontro in un momento poco opportuno, il desiderio di liberarsi quanto prima dell’ignoto e sedicente amico. Risulta, però, senza dubbio originale quell’inspiegabile senso di vuoto che persino la fine di un incontro fortuito potrebbe generare; è del tutto personale il graduale affezionarsi alle ombre che riemergono non chiamate, inaspettate, da un passato che si crede ormai buttato alle spalle e che, invece, non solo vive, ma addirittura se ce lo dimentichiamo, prepotentemente si rifà vivo. Esattamente questo accade al protagonista di Ricerca di parole incrociate: un biglietto riemerso casualmente dalle pagine ingiallite di un vecchio libro di scuola apre il varco a un incontro, restituisce spazio a un passato che non è poi così lontano, così inesorabilmente perso. Vive nei ricordi, nei sentimenti, nelle regioni del “cuore” che non è a compartimenti stagni. Del resto sarebbe una condanna chiudere le porte ai ricordi e vivere solo di attimi, in un presente convulso di esperienze che se non si sedimentano non ci formano. Non è facile vivere dentro i muri di un presente che rinnega il passato e ha difficoltà ad aprirsi al futuro (Ricerca di parole incrociate)
… Già, nella poesia di Ezra Pound c’è un verso che precede quelli sottolineati da mio padre: … basta che una volta siamo stati insieme. E ce lo ricorderemo per sempre. Questo mi pare il messaggio di un libro che non vuole dare insegnamenti, ma che lascia il segno.
Nella vita “basta una volta”. I ricordi ne conserveranno la traccia.


martedì 26 luglio 2016

Acciaio

SILVIA AVALLONE

Acciaio

Quella tra Anna e Francesca è un’amicizia profonda, confusa con l’amore e fatta di gelosie. È un rapporto che non esclude il gioco erotico ed esibizionistico con l’altro sesso, in un disorientamento che può abitare nella psiche degli adolescenti, ancora in formazione.

Nella Piombino di Avallone, gli operai oltre a lavorare, sniffano coca, corrono all’impazzata con moto rombanti, sognano macchine sportive e lo sballo in discoteca.

Anna e Francesca sono oppresse, l’una da un padre irresponsabile, convinto che "lavorare stanca", l’altra da un genitore violento e possessivo.

Sognano la fuga: la “Toremar” … e via.

Tre sono gli elementi simbolici che strutturano Acciaio:

- la fabbrica

- il mare

- i casermoni di via Stalingrado.

La fabbrica, la Lucchetti, è vita e morte insieme: sostiene economicamente Piombino, dà lavoro agli operai. Eppure è morte, non solo perché funestata da gravi incidenti sul lavoro, ma anche perché è proprio “la fabbrica della morte” dove migliaia di piccoli uomini in tuta fondevano ferro e carbonio, acciaio e ghisa per fare le rotaie, i bastimenti, le armi d’Europa e degli Stati Uniti: le acciaierie di Piombino sostengono le guerre del mondo.

Il mare con il suo orizzonte lontano e dilatabile è la speranza, il futuro, la prospettiva verso la libertà.E infatti le giovani protagoniste si imbarcano verso l’Elba, scelgono il mare, l’avventura, la sfida alle poche e amare certezze della terraferma. Scelgono il viaggio verso la libertà.

I casermoni di via Stalingrado sono la stagnante quotidianità, l’ingabbiante dimensione familiare, l’immobilismo di una vita sempre uguale, in cui l’alternativa fatta di sesso, droga e sballo è l’unica possibile, ma non è quella degna di essere chiamata meta.Scrive l'autrice: l’afa ristagnava dentro i casermoni, s’insediava in ogni appartamento e lo trasformava in palude.
Contrariamente al nome evocativo di una dimensione sovietico-rivoluzionaria, i casermoni di via Stalingrado sono sinonimo di inerzia spirituale.

La mancanza di mete ideali e di spinte propulsive per raggiungerle, caratterizza questa umanità fragile. A questo proposito, Sandra, madre di Anna, afflitta dall’irresponsabile marito Arturo, che si è fatto licenziare ed è trafficante d’arte, riflette sul presente, notando una profonda differenza con lo spessore ideale delle generazioni passate. Le venne in mente suo padre: un uomo medagliato dal Presidente della Repubblica, un eroe della Resistenza, uno che aveva lavorato per tutta una vita, che ci aveva perso una gamba nella fabbrica dove suo marito era stato licenziato.

Il passato si è retto su forti valori: sacrificio, dedizione al lavoro, senso di responsabilità, capacità e forza di lottare in nome di un ideale, desiderio di partecipazione alla Storia. L’umanità di Acciaio, invece, è periferica rispetto alla Storia, che non sembra toccarla: in un bar si assiste per televisione al crollo delle Torri Gemelle, mentre continuano la vita di sempre, la chiacchiera, la noia.

Sandra fa poi un catalogo di azioni e di scelte. 

Ci sono cose che non decidi tu, che decide il Capitalismo mondiale, la Storia delle Nazioni, la Repubblica Italiana al posto tuoSi tratta di una riflessione che sottolinea la marginalità dell’individuo rispetto alle istituzioni e alla Storia, come se il soggetto non fosse parte di un tutto e non potesse opporsi al fluire degli eventi.

E poi ci sono le cose che decidi tu … fare il ladro o l’operaio … votare x o y, leggere “La Repubblica” o guardare un reality show. La sfera dell’autodeterminazione, il potere decisionale dell’individuo è relegato, in forma riduttiva e semplicistica, a due sole opzioni contrapposte che riguardano l’etica, la politica, la cultura; sono indicate soluzioni già date, positive/negative, catalogate nel duplice binario bene/male, senza sfumature, con conseguente restrizione del campo delle possibilità della scelta e con esclusione della ricerca che implica, invece, errori, esperienze, sfide, avventure, risultati, tappe.

Infine, dice Sandra, ci sono le cose che non decide nessuno; e sono quelle che riguardano l’inspiegabile sfera degli affetti e dei sentimenti, per cui si ama senza ragione, si giustifica senza correggere, si sopporta senza discutere, per non modificare niente.

Il romanzo descrive una società che non aspira a niente, si lascia vivere, sceglie una trasgressione in realtà conformistica (lo sballo), è immersa in una quotidianità che si ripete all’infinito.

… Non cambia mai un cazzo in questo posto, non cambia la gente, non cambia la fabbrica che frantuma le palle alla gente … 

E allora le alternative sono la morte oppure la fuga, la partenza, il viaggio, al quale manca, però, la meta, il sostegno ideale, la bussola che lo orienti, l’obiettivo verso un approdo, non quello geografico dell’Elba, dove si dirigono Anna e Francesca, ma quello ideale della vita. Resta saldo, però, il valore dell’amicizia: dopo le incomprensioni, Anna e Francesca recuperano il loro rapporto.

Ma resta anche un dubbio: la chiusura nel privato, nell’amicizia, negli affetti non significa forse, rinunciare all’azione, non avere proposte, abdicare a un ruolo attivo nella società, creare una barriera tra l’io e il mondo? Se un romanzo che pure affronta temi scottanti come gli incidenti sul lavoro e l’alienazione della società industriale, si chiude con il trionfo del privato e cita Pascoli, vate della poetica del nido e modello di asocialità, può ancora la letteratura rivendicare un ruolo o deve ammettere di essere un mero osservatorio? 



sabato 23 luglio 2016

L'immoralista

ANDRÈ GIDE
L'immoralista

L’immoralista è Michel, un uomo, un  intellettuale, dimidiato interiormente,  tra anima e corpo, spirito e sensi. Michel racconta in prima persona ad alcuni amici l’infelice storia del suo matrimonio. Sposa Marceline senza amarla, si sforza di essere un buon marito, è spiazzato dalla gentilezza di lei, che lo cura con abnegazione e devozione quando si ammala di tubercolosi. La malattia, è, però, per Michel un risveglio: fino ad allora mi ero lasciato vivere, afferma il protagonista, quasi “aggredito” dalla vita e dal suo sapore. Il suo passato di filologo, trascorso fra carte e fatto di cerebralismi, gli appare ora come una morte, un’esistenza inautentica: sì, i miei sensi risvegliati, scoprivano una loro storia … Vivevano! … Mi affidai con voluttà a me stesso, alle cose, al tutto, che mi apparve divino.
Nelle scoperte di Michel, nella sua sensualità panica c’è l’eco di D’Annunzio e c’è l’amor fati di Nietzsche: ero guidato da una fatalità esaltante. È forte la presa di coscienza, dopo la guarigione: da quel momento fu lui che io volli scoprire: l’essere autentico, il “vecchio uomo” in noi, quello che il Vangelo aveva rifiutato. Michel rifiuta la morale cristiana quella che Nietzsche chiama la morale dei deboli, quella della sottomissione, della sofferenza, del senso di colpa.  La vita piatta e programmata del passato lascia ora il posto al caos e alle delizie di una nuova felicità, nonostante la certezza di abbandonare a un destino di infelicità e di morte Marceline.
Marceline perde un bambino, si ammala di tubercolosi e il marito, fingendo di voler ripercorrere con lei le tappe del loro viaggio di nozze in Tunisia, la porta dalla Svizzera a Tunisi, verso un sud assolato e verso un clima umido a causa del quale, ovviamente, Marceline si aggrava fino a morire tra fiotti di sangue.
Con Marceline se ne va quella parte di Michel che è sottomissione alle convenzioni ipocrite della società dei benpensanti, la maschera. Libero dalla schiavitù delle forme sociali Michel potrà dare sfogo alle sue fantasie sessuali, alle sue brame per i ragazzi tunisini, alle voglie dei suoi sensi affamati di vita e di piacere.
È illuminante il dialogo con l’amico Ménalque, il quale gli rivela una verità profonda: i più pensano di poter ottenere qualcosa di buono da se stessi solo con la costrizione; si accettano solo contraffatti. Ognuno desidera assomigliare il meno possibile a se stesso; ognuno si costruisce un modello poi lo imita; accetta addirittura un modello già scelto. Si dovrebbero cercare altre cose nell’uomo, io credo. Ma non si osa farlo. Non si osa voltare pagina. Io le chiamo leggi dell’imitazione, leggi della paura. Hanno paura di essere soli e così non si trovano mai. (…) Quello che sentiamo in noi di diverso, è la cosa più preziosa, quella che determina il valore di ciascuno, eppure si cerca di sopprimerla. Si ricorre all’imitazione, pretendendo così di amare la vita. Quella di Ménalque vuole essere un’esortazione a vivere in modo autentico, senza mentire a se stessi: bisogna scegliere, l’importante è sapere ciò che si vuole.
La morte di Marceline resta, però, lo spettro della scelta di Michel. Si fa strada un dubbio atroce che Gide non risolve: può il diritto dell’ego spingersi al punto da arrecare danno a chi si ama?
Nella mente di Michel, alla fine del romanzo riecheggiano le parole di Cristo a Pietro, che Michel ha letto casualmente tra le pagine della Bibbia, una notte, non riuscendo a dormire e non sapendo che fare; ne ricorda solo una parte: “Adesso tu ti cingi da solo e vai dove vuoi andare …”. Michel si chiede: dove vado? Dove voglio andare? Nel ricordo della frase biblica Michel ha omesso una parte. Le parole di Cristo che lui ha letto  quella notte insonne, chino al chiarore della luna continuavano così: “ … ma quando sarai vecchio, tenderai le mani … tenderai le mani …”. In segno di pietà, di perdono, di aiuto?
Arriva un momento, nella vita di ognuno, in cui la libertà tanto cercata prenderà il nome di solitudine; il dominio dell’ego e dei sensi cederà, e quella mani tese che non hanno raccolto nulla, attesteranno il bisogno di solidarietà, di attesa, aspetteranno di essere colmate, di essere prese da qualcuno.
Michel ha conosciuto l’aiuto, l’amore, ma non ha saputo darlo, ha concesso solo, nei momenti migliori, una tiepida gentilezza,  ha certamente inferto una terribile morte, non per odio verso la moglie, ma per troppo amore di sé, per cieco egoismo.
Gide non esprime giudizi, descrive un fatto, racconta una vita, dà voce a una ricerca interiore, a una conclusione che Ménalque sintetizza così: dei mille modi possibili di vita, ognuno di noi può conoscerne uno soltanto, certamente quello che sceglie; e non c’è spazio per rimpianti, seconde opzioni, passi indietro.
Scegliere totalmente se stessi significa, per Michel, abbattere l’esistenza dell’altro; fare della propria vita il terreno d’azione di una sfrenata libertà, dell’arbitrio assoluto, non ammette remore tardive o rimorsi irreparabili.

Resta, però, incancellabile, il timore degli spettri della coscienza: a volte temo che quello che io ho soppresso si vendichi. Aver rinunciato all’amore di una donna, all'affetto e al calore di una vita condivisa lascia un vuoto incolmabile, il baratro di una libertà senza frutto: sapersi liberare non è niente; il difficile è saper essere liberi.

venerdì 15 luglio 2016

Il colombre





DINO BUZZATI    
Il colombre


Il racconto più pregnante è quello che dà il titolo alla raccolta. Il protagonista è Stefano Roi, un uomo che passa la vita a scappare dal colombre, mostro marino e squalo terribile che in realtà, alla fine, si rivela un compassionevole compagno di viaggio. Incontra finalmente Stefano Roi e gli fa un insolito, inaspettato regalo.
Nel racconto, incentrato sull'archetipo narrativo del viaggio, come percorso di autocoscienza e formazione, Roi passa dalla fuga all'incontro. E nel riconoscimento del colombre semplicemente come "altro", e non come pericolo, consiste la modernità di questo testo.
Stefano Roi si apparenta ai numerosi eroi della tradizione che hanno affrontato il viaggio per mare. Ulisse dopo il naufragio è approdato a Itaca, riappropriandosi della propria identità di re, padre e marito. Il feroce capitano Achab ha sfidato i mari spinto dal demone della vendetta contro la Balena Bianca e ha trovato la morte. L'assurdo vagare per mare di Stefano Roi - che non ha nulla della sfida propulsiva e conoscitiva dell'Odissea né del vendicativo inseguimento di Achab - si conclude non con uno scontro, ma con un incontro fatto di comprensione e di reciproco riconoscimento.
L'incontro tra l'uomo e il mostro è di stringente attualità: in un'epoca dilaniata da disumani conflitti, solo nel superamento di ogni autoreferenzialità etica e culturale, solo nel dialogo si annidano le speranze di pace e di convivenza civile.
Molti si sono interrogati sul senso di questo racconto e sul significato del mostro che Stefano ha sempre cercato di evitare, temendolo, per poi, forse troppo tardi, scoprirne la bellezza.
Il colombre potrebbe essere il destino, sarà forse la felicità che noi non abbiamo il coraggio di abbracciare, che non sappiamo riconoscere, cui non riusciamo ad abbandonarci con fiducia e semplicità. Sarà. Forse.



mercoledì 13 luglio 2016

Venti di grecale

l'immagine del profilo di Paolo LabombardaPAOLO LABOMBARDA
Venti di Grecale 

VENTI DI GRECALE, IL TRENO E GLI OLIVI
I venti di grecale spazzano via le nubi della storia, sono intensi e freddi come il dolore consolidato di chi ha perso molto per colpa di una guerra che ha rubato una parte della vita, ma pure rendono limpido il cielo per lasciare spazio alle corse della speranza. La speranza di sopravvivere alla guerra e di proteggere il piccolo Paolo, porta Bianca da Roma a Peschici, sulla “garganica: la famiglia dei suoceri, i Laberi, la accoglierà. La speranza di riappropriarsi della vita, di sé e degli affetti, riconduce, poi, a Roma Bianca, Paolo e Gino, reduce dal campo di prigionia degli inglesi e reso maturo dalle esperienze di sofferenza e di morte, quelle della guerra voluta dagli altri – Hitler e Mussolini – ma subita da tutti.
E il trenino che li trasporta corre sul filo della speranza, attraversa la vita e assapora la pace recuperata. La simbologia del treno, che, con struttura ad anello, ricorre nell’incipit e nell’excipit dell’opera, e quella degli olivi, tradizionalmente associati all’idea di pace, sintetizzano gli obiettivi profondi per cui Paolo Labombarda ha scritto di sé e della propria famiglia. Una generazione che ha vissuto il caos, i lutti e gli abbandoni causati da una guerra estrema, può imboccare solo due strade: la disperazione o la sfida al dolore.
Labombarda percorre quest’ultima: la pace conquistata (gli olivi) spiana la strada alle speranze (treno in corsa). Nonostante tutto – sembra voler dire lo scrittore – la vita è ancora possibile.
Dei tanti romanzi storici, dunque, quello di Paolo Labombarda ha un tratto distintivo: una fiducia progressista che non nasce da fedi o convinzioni metafisiche di manzoniana memoria, bensì da una forza umana, solo umana, quella degli affetti che minuziosamente e con dovizia di particolari, l’autore ricostruisce.
Il fatalismo pessimista di Verga fa naufragare la religione della famiglia in un desolato addio del giovane ‘Ntoni ad Aci Trezza; lo sguardo di De Roberto, disincantato verso i meccanismi del potere corrotto dal trasformismo e verso gli affetti corrosi dall’interesse venale, non lascia spazio ad alcun ottimismo; l’immobilismo di una storia senza orizzonti torna anche in Tomasi di Lampedusa nel noto se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi.
Non mancano pure in Venti di grecale amare riflessioni e disilluse interpretazioni della storia, come quelle di Zio Raffaele sulla “generosità” degli americani, che, secondo lui, incentivano la guerra civile in Italia per annientare i nemici storici, i fascisti, ma senza dar troppo spazio a quelli nuovi, i comunisti: anche le idee di Stalin, a loro, non piacciono, come non piacciono quelle di Hitler e Mussolini. Ecco perché la guerra è finita ma le armi, loro, non smettono di far male!
Invece, nella visione del mondo di Paolo Labombarda due forze si intersecano e agiscono di continuo: gli affetti e la speranza. Certo, c’è da chiedersi se questa netta chiusura nel privato, se questa fede solo in una salvezza intima, quella del nido, della famiglia, non nasconda, per converso, la sfiducia verso altre possibili fonti di salvezza (Dio, gli ideali e i valori). D’altra parte il secolo che E. Hobsbawm ha definito breve per la sua luttuosa intensità, per i suoi due deflagranti conflitti, lascia ben poco spazio a forti ideali e ad assolute certezze. Comunque – questo sembra suggerire Labombarda – la speranza di costruire un futuro migliore non può essere annullata, è un carattere strutturale dell’uomo e, secondo l’autore, si costruisce nel lento, paziente lavoro di recupero delle memorie, del passato, degli affetti. Si spiega così la dedica dello scrittore ai figli perché possano ritrovare radici del loro futuro. Non si tratta di un mero discorso di appartenenze e/o di ricerche identitarie, ma anzi di recupero dei vincoli affettivi, della forza delle relazioni interumane, della loro intensità antica, che, forse, ora sfugge ai giovani immersi nelle dinamiche veloci e spersonalizzanti dell’ipertecnologia.

Impropriamente si definisce romanzo Venti di grecale; è piuttosto una ricostruzione documentaria di fatti, tradizioni e spaccati di vita filtrati dagli occhi di Bianca a cui appartiene la voce narrante. E’ facile comprendere che la prospettiva di Bianca coincide con quella dell’autore e ogni aspetto della vita peschiciana è da lei analizzato, studiato, quasi sezionato (come la grafica in neretto evidenzia) con lo scrupolo di chi vive i fatti per farne tesoro e tramandarli, affinché ogni esperienza lasci una traccia.
Così la vita del borgo diventa espressione di autenticità e di spontaneità e tutto, gesti e parole, abitudini familiari e usanze collettive, ha un’efficacia diretta e incisiva e le relazioni tra persone si connotano per la loro intensità, sconosciuta, oggi, alle nuove generazioni per cui la solitudine è risolta nelle virtualità di incontri immaginari. Ne è un esempio il funerale di Ettore, zio paterno dell’autore, a cui partecipa tutto il paese. Persino il pastore Mariuccio Orsitti  si  accoda al corteo seguito dalle pecore e dai cani, dopo averli raccolti con un mesto Oa! Oa! O!. Nel cimitero la gente e il gregge restano intorno alla cappellina della sepoltura o vicino al cancello del cimitero fino alle ultime luci del giorno. Non è solo una tradizionale veglia funebre, è partecipazione corale, collettiva a un dolore familiare, segno che nel paese i singoli sono ancora parte di un organismo sociale. La modernità, dunque, pure rappresentata dal treno in corsa, non ha ancora cancellato la forza viva delle relazioni sincere e non ha annullato il carattere boccaccesco di alcune tradizioni come lo svuotamento dei canteri presso la rupe dello Scalandrone, dove il Castello si affaccia sulla scogliera a picco sul mare.

Anche a Peschici, apparentemente un Eden di pace, la bufera del secondo conflitto mondiale, miete le sue vittime e pure la famiglia Laberi ne è colpita: Gino e Peppinillo sono prigionieri degli inglesi. L’autore focalizza l’attenzione sul padre Gino, sul suo dolore nel vedere i compagni feriti in battaglia; il racconto si sofferma sulla sofferenza di Gino costretto a lasciare sulla sabbia gli amici ormai morti; infine, lo scrittore sottolinea la disperazione del padre soldato nel  dover dare ai commilitoni caduti l’estremo saluto col segno di croce.
Ma il dolore della guerra vissuta da Gino in modo diretto e che si riflette su Bianca costretta – anche se ben accolta – ad adattarsi ad un paese e ad una famiglia – quella dei suoceri Laberi – che lei conosce poco, diventa occasione di riflessione esistenziale.
La conclusione del testo di Paolo Labombarda solo gradualmente conquista l’equilibrio tra la percezione del non senso della storia e la speranza di guardare al futuro con forza nuova: la domanda che Bianca si pone (tutto quello che è accaduto in questi anni che senso ha ?) porta ad un’amara risposta: la guerra a noi ha rubato una parte di vita, di giovinezza. E dalla sfera individuale, familiare, Bianca passa ad una dimensione universale: l’insensatezza della guerra, sempre e per tutti. Sembra di rileggere Pavese, quando ne La casa in collina scrive: ogni guerra è una guerra civile.
E’ fuori discussione il devastante non senso della storia. Nonostante tutto, però, il treno corre. Tra olivi, olivi, e olivi.