Il saggio di Martha Nussbaum Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica è stato pubblicato in Italia nel 2011 (ed. il Mulino). Nell’arco di quattordici anni nulla è cambiato, anzi la situazione denunciata dalla filosofa americana è ulteriormente peggiorata, al punto che Non per profitto oggi appare come un libro profetico: l’economia di mercato ha contaminato totalmente il mondo dell’istruzione al punto che le discipline umanistiche ritenute orpelli inutili al successo economico, vengono sistematicamente marginalizzate e erose: le ore loro destinate sono state nel tempo ridotte rispetto alle discipline STEM, le sole ritenute in grado di fornire le competenze necessarie a diventare competitivi nel mondo del lavoro.
In generale oggi “si tende a considerare le materie umanistiche
alla stregua di conoscenze tecniche da valutare sulla base di test a risposta
multipla, mentre le competenze critiche e inventive che ne costituiscono il
nucleo sono messe da parte” (p. 146).
A questo proposito l’autrice
riporta un discorso di B. Obama sull’istruzione pubblicato nel 2009 sul Wall
Street Journal, in cui il presidente americano tesseva l’elogio dei Paesi dell’Estremo
Oriente per il coraggio di saper investire tempo nell’insegnamento di “cose che
servono alla carriera”, diversamente da noi occidentali che ci perdiamo in “cose
che non servono” (p.150). Appare chiaro che da questo punto di vista fortemente
condizionato dalle esigenze del mercato, l’istruzione scolastica deve essere
orientata al solo scopo di trovare un buon lavoro e affinare quelle competenze
maggiormente richieste da una società sempre più marcatamente neoliberista. L’idea,
invece, che la scuola possa insegnare ad essere cittadini attivi, responsabili,
coscienziosi, ad essere cioè persone serie e sensibili, empatiche e non
competitive, altruiste e non cinicamente volte al successo ad ogni costo,
consapevoli della fragilità umana e non disposte a mostrarsi per forza
performanti, ebbene quest’idea non sfiora mai nessuno. E quando M. Nussbaum denunciò
questo stato di cose molti intellettuali definirono la sua analisi “sempre lo stesso piagnisteo, anche piuttosto
stucchevole” ( cfr. C. Giunta, recensione
a M. Nussbaum), frutto cioè del conservatorismo di chi non sa adattarsi ai cambiamenti
della storia e all’inarrestabilità del progresso come dimostrerebbero le frasi
di Tagore, spesso citato dalla saggista che ha attinto a testi scritti dall’intellettuale
indiano nel 1917: la lamentela della Nussbaum sarebbe dunque poco originale,
datata e anacronistica. Si sottovaluta invece la portata universale delle
osservazioni di Tagore. La loro validità, infatti, è ampiamente testimoniata
dal fatto che forse la compressione delle democrazie nel nostro tempo ha una
delle sue radici proprio nella diffusa ignoranza delle nuove generazioni che
accettano passivamente e apaticamente ciò che accade intorno a loro, disabituate
completamente al pensiero divergente, all’esercizio del dubbio e della discussione,
alla visione critica delle cose e dello status quo, all’immaginazione di
alternative. Nessuno pensa – o forse, peggio, molti fanno finta di non accorgersene
per non sembrare Cassandre- che la svolta antidemocratica, illiberale, razzista,
aporofobica di molti paesi occidentali pure eredi dell’Illuminismo, abbia come
spiegazione proprio un radicato individualismo che ha calpestato le migliori
conquiste in termini di libertà, fraternità e uguaglianza, parole che oggi sono
state visibilmente manipolate. La licenza di dire tutto sentendosi legittimati
anche a offendere in nome di una presunta libertà di opinione spinta fino all’arbitrio
e da molti rivendicata, non è, infatti, libertà. Fraternità è diventato
sinonimo di consorteria: fratelli si chiamano in Italia oggi i componenti di partiti
politici che però assumono spesso posizioni xenofobe e discriminatorie; fratelli
si definiscono persino i membri delle associazioni islamiste radicali, i “fratelli
musulmani”. La fraternità, insomma, ha perso anche quella sfumatura di senso
che il Cristianesimo aveva contribuito a darle, facendola combaciare con la
reciprocità e la scambievolezza. Uguaglianza è poi un termine aborrito: nella
società del privilegio, chi ha vuole avere sempre di più e la condivisione è percepita
come una deminutio; per la cultura del “merito” essere detti uguali pare
un’offesa, anche se non si comprende che spesso il cosiddetto “merito” è il
frutto di opportunità garantite dalla propria collocazione di classe, che altri
(per storia personale, familiare, provenienza socio-culturale) non hanno avuto.
Vogliamo che la democrazia sopravviva?
E allora – osserva M. Nussbaum – cominciamo dall’educazione: didattica socratica
e promozione del dialogo, studio dei classici per ristabilire il senso dell’humanitas,
rispetto dell’altro… perché la democrazia è questo, esattamente questo.
Si potrà obiettare che la cultura
umanistica non è garanzia di finezza d’animo: le SS andavano in giro con la Repubblica
di Platone sotto il braccio. È vero. Ma forse nessuno gliel’aveva spiegata bene,
nessuno aveva dimostrato loro che ci sarà stato un motivo se Platone al potere voleva
i filosofi.
Leggere poesie, esaminare un
quadro, misurarsi con la complessità di un testo filosofico non è solo un utile
esercizio intellettuale, vuol dire immergersi in un mondo in cui entrano in gioco
non solo i ragionamenti, ma anche le emozioni che vanno riconosciute, nominate
e allenate. D. Goleman nel suo Intelligenza emotiva, fa notare che dalle
emozioni si generano i sentimenti e i sentimenti producono azioni. Dall’empatia
nasce la solidarietà e la solidarietà non è solo un buon sentimento: è un
insieme di specifiche azioni che hanno conseguenze socialmente e politicamente
costruttive. È per questo che i padri costituenti l’hanno saggiamente inserita tra
i valori fondanti della Costituzione italiana.
Oggi le democrazie sono in crisi,
ma forse è l’idea stessa di umanità che si sta indebolendo. E questo lento suicidio collettivo ha una spiegazione: Tagore
lo chiama il disseccarsi dell’anima.

