le inconsistenze temporali
solo un pupazzo a pezzi
sotto i calcinacci germoglia ...
Al canto delle sirene manca l’acqua potabile è il titolo della nuova raccolta poetica di Raffaele Ciccarone, (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2023). In chiaro “stile Kitchen”, lo stridente accostamento tra la leggendaria bellezza delle sirene e la prosaica ordinarietà dell’acqua potabile, per la cui assenza le creature del mito annaspano, traduce in modo immediato l’interrogativo di fondo che costituisce il filo rosso dei componimenti di questa silloge: la poesia ha ancora qualcosa da cantare?
C’è
un brevissimo racconto di Franz Kafka, Il silenzio delle sirene, in cui
l’autore boemo immagina una storia diversa dal noto racconto omerico e cioè
riferisce che all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono: le
sirene avevano rinunciato a sedurre l’eroe, preferendo il silenzio.
Stando,
dunque, alla lezione di Kafka, dovremmo dedurre che nel mondo contemporaneo non
ci sia più spazio per il canto delle sirene, per la poesia: l’orrore quotidiano
ha cancellato ogni possibile traccia di bellezza. Già Baudelaire notava che la rue
assourdissante – metafora della civiltà industriale con il suo rumore di
fondo – rendeva fuggitiva la bellezza, riducibile solo a un lampo cui seguiva
poi un’interminabile notte. E al poeta che in un’epifanica rivelazione riusciva
a cogliere, pur nell’insensatezza dell’esistenza, il fascino intraducibile di
ciò che si cela oltre la fenomenica materialità delle cose, non restava, alla
fine, che l’amarezza dell’inattingibilità, la certezza dolorosa dell’impossibilità
di un completo possesso.
Sarebbe il caso dunque di ammettere che la poesia non ha più niente da cantare. È questo il senso
della riflessione di Montale: quando gli fu conferito il premio Nobel, alla
domanda se ancora fosse possibile la poesia nella società contemporanea, rispose
chiaramente che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione
artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata
alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani.
Non
resterebbe, allora, che l’afasia.
Eppure,
anche se perduto ha la voce /la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto
- scriveva C. Sbarbaro - Ciccarone dichiara convintamente, invece, che a
nulla serve il silenzio dei poeti (p.24) e che quando il canto delle
sirene smette / è già buio (p.76): è compito dunque dei poeti sfidare il buio, riuscire a
scorgere quell’ignota forza che può tra una stella e una cometa lambire un
papavero (p.78). In fondo sono loro, i poeti, i soli in grado di decifrare il
linguaggio di una nuvola nel deserto (p.60).
Nella
prefazione alla raccolta di R. Ciccarone, G. Linguaglossa, citando
Hölderlin, nota: ciò che resta lo fondano i poeti. Gli antichi hanno
tramandato che il poeta dei poeti, Omero, fosse cieco: a dire il vero nessuno
sa niente di Omero, ma averlo immaginato privo di una vista fisica simbolicamente spiegava il fatto che i poeti fossero in realtà dotati di uno
sguardo superiore, di una prospettiva unica, della capacità di vedere ciò che
all’uomo comune sfugge.
Questo
non significa certo negare il deserto: i poeti sanno bene che la risposta
latita (p. 21). Non c’è infatti soluzione al caos imperante, non esistono
porti sicuri di fronte al naufragio dei significati. In un mondo in cui le
certezze vacillano neppure la scienza con le sue leggi è in grado di sciogliere i
nodi della storia, perché la nostra è una realtà fatta di paradossi che dissolvono la logica, le sue formule e i suoi teoremi: nel triangolo l’ipotenusa si allontana
dal cateto (p.15), l’essere umano opera per la sua stessa estinzione e fa
della scienza esatta un’arma volta allo sterminio, osservava Quasimodo con grande lucidità.
Ma i poeti non cercano soluzioni, non sono loro a doverle fornire. Il loro sguardo si stende oltre i deserti, si ferma negli interstizi dell’esistenza: se Lesbia insiste nel baciare (p.19) vuol dire che in fondo ci sono ancora strade da percorrere; anche se le nostre vite ci appaiono come trincee piene di cunicoli labirintici e oscuri, i poeti come talpe in avanscoperta cercano brandelli di pace (p.52): anche loro, come Omero, vedono poco e a fatica mettono a fuoco i varchi della speranza, ma si sforzano con tenacia. Sanno certamente che lo scaffale disadorno mostra/ le inconsistenze temporali, ma continuano a credere che, nonostante tutto, anche un pupazzo a pezzi sotto i calcinacci germoglia (p. 52).
Non abbiamo altro che il
presente: la memoria ha diamanti sporchi (p.25), il passato non insegna,
il futuro ci minaccia, il tempo come dimensione progressiva è un’invenzione dei
filosofi. La storia - sosteneva Montale - non è magistra di niente che ci riguardi
e soprattutto non contiene / il prima e il dopo. Rimane, dunque, solo
uno scaffale disadorno, che noi dovremo riempire. Tocca a noi trovare il
senso all’esistenza sradicata di un mondo senza appigli, dai cui calcinacci –
frammenti disgregati di un tutto che non c’è più – può germogliare ancora la
bellezza: la farfalla vola sul campanile (p.59), la luna prende un
caffè a Venezia (p.80) e la nebbia si può fendere se Kandinsky
lancia segni fluorescenti (p.70). È questo il potere dell’Arte.
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