domenica 28 gennaio 2024

G. LIPOVETSKY - LA FIERA DELL' AUTENTICITÀ

 

Come un grido d’allarme, Lipovetsky annuncia nell’incipit del suo saggio, La fiera dell’autenticità (Marsilio 2022), che «dilaga una febbre di tipo nuovo, irresistibile, onnipresente: la febbre dell’autenticità» e «il ventunesimo secolo ne ha fatto un valore di culto». La moda “bio”, i cosmetici e i cibi preparati in casa, gli abiti vintage liberi dai diktat della moda: il «do it yourself» è il nuovo imperativo universale. Il lifestyle alternativo, la vita nei borghi alla ricerca delle sane tradizioni locali, immuni dal caos metropolitano, l’essenzialità e la frugalità di una vita green, minimal, conforme alla propria vera dimensione e capace di tradurre in realtà l’aspirazione di una piena aderenza a sé stessi, sono una norma valida quasi per tutti. «L’autentico è cool» e il «be yourself è il comandamento supremo». 


Ebbene che cosa c’è di stonato in tutto questo? Lipovetsky lo spiega in modo chiaro: il disancoramento del concetto di autenticità rispetto ai nobili ideali che tradizionalmente lo hanno sostenuto e la sua riduzione a effetto del mercato. Siamo entrati nello «stadio consumistico dell’autenticità»: «un tempo apprezzavamo la naturalezza  delle persone e dei loro comportamenti: oggi apprezziamo i prodotti ecologici (…). L’ideale dell’autenticità ha compenetrato il mondo delle cose». Insomma l’autenticità non è un ideale, ma una qualità dei prodotti di mercato, non un valore etico, ma economico, il quid pluris, la «formula magica» che si aggiunge al successo delle imprese.

Che fare allora? Dopo che filosofi e pensatori di ogni tempo hanno condannato l’ipocrisia della vita inautentica, ora dovremmo liquidare l’autenticità come uno pseudovalore? Lipovetsky, lungi da risposte semplicistiche, spiega che forse la via migliore è quella di rinunciare alla «religione» dell’autenticità. Nessuna delle grandi catastrofi (ambientali, economiche, sociali, politiche) del nostro tempo, sarà risolta dall’autenticità che non è la panacea, il rimedio universale a tutti i mali dell’universo, la risposta univoca alle grandi sfide del nostro tempo, qualora venisse interpretata come valore assoluto con cui identificare l’esistenza. È certamente, sì, un valore, un «potentissimo operatore di cambiamento», ma va inserita in un quadro più complesso di ideali da cui non si può prescindere.

Lipovetsky fornisce una vera e propria ricostruzione storica dell’evoluzione che il concetto di autenticità ha subito nel corso dei secoli, spiegando peraltro in che modo sia venuto nel tempo a intrecciarsi con il concetto di libertà. È evidente, infatti, che nelle società rette da governi dittatoriali, da regimi assolutistici, non esiste la libertà di essere sé stessi e di esprimere in modo diretto il proprio pensiero e la propria personalità.

Un momento particolarmente significativo nell’excursus tracciato da Lipovetsky riguardo alla storia della libera attestazione della propria individualità e unicità da parte dell’essere umano, è l’Illuminismo. Quando Rousseau scrive le sue Confessioni e mette a nudo la propria vita, commentandola anche nei suoi aspetti più personali e privati, dall’infanzia all’età adulta, opera una vera rivoluzione, quella di un IO che esiste e rivendica il diritto a una concreta emancipazione sia da un sistema politico di controllo serrato sulle esistenze sia da un’organizzazione sociale fondata su ipocrite finzioni esibite sul palcoscenico della corte da parte di un’aristocrazia compiaciuta dei propri privilegi gelosamente custoditi: è anche così che si è combattuta la lotta all’Ancien Régime.

Altrettanto decisiva secondo Lipovetsky è stata la rivoluzione del’68: interi gruppi sociali, giovani, donne, lavoratori – hanno condotto accese battaglie per il loro affrancamento da un passato autoritario, in nome di una vita più dignitosa, autenticamente ispirata a una personale visione del mondo e della vita, secondo prospettive esistenziali e culturali finalmente svincolate dai condizionamenti di uno svilente e opprimente principio d’autorità che la tradizione aveva lasciato consolidare nei più svariati ambiti della vita sociale, dalla famiglia, alla scuola, all’Università, alle fabbriche.

Ciò che nella storia ha sempre caratterizzato la lotta ingaggiata in nome dell’autenticità è sempre stata la forte, sentita, ispirazione a nobili ideali di libertà, equità, giustizia, sintetizzabili in una visione il più possibile aderente alle più sincere e profonde convinzioni rispetto alle quali gli uomini e le donne di ogni tempo hanno inteso orientare le proprie condotte e le proprie esistenze.

E oggi? Ora sebbene la democrazia abbia di fatto abbattuto ogni evidente ostacolo alla libera, genuina, espressione di sé, possiamo sinceramente dichiarare di vivere nell’era dell’autenticità? La facilità delle comunicazioni è davvero sinonimo di una manifestazione autentica del nostro essere al mondo? Se abbiamo, sì, conquistato la libertà DI fare ciò che vogliamo, ciò che ci piace e ci gratifica, possiamo con altrettanta sicurezza affermare di essere davvero liberi DA condizionamenti che inficiano e inquinano la nostra autenticità?

Si tratta di interrogativi che – nota Lipovetsky -  hanno un’amara risposta: nell’era del web, oltre alle ben note mistificazioni della realtà operate dall’Intelligenza Artificiale o comunque da un suo uso distorto, si arriva al terribile paradosso per cui si diventa autentici e ci si sente davvero sé stessi solo se si ricorre a falsi profili social. Non è oggetto della riflessione di Lipovetsky la mole delle conseguenze legali e etiche di tale fenomeno, bensì la disperazione e la solitudine esistenziale di chi trovando bugiarda e ipocrita la vita quotidiana in una società che è fatta di maschere, cerca rifugio nell’anonimato di un profilo falso, l’unica isola in cui poter esprimere la propria dimensione più vera e aderente a sé. Lo diceva già O. Wilde: “Datemi una maschera e vi dirò la verità”.

Insomma, sembra suggerire Lipovetsky, forse prima del tanto osannato e consigliato be yourself, “sii te stesso”, converrebbe ritornare alla socratica formula del conosci te stesso. Facciamo in modo che l’autenticità non sia una “moda”, ma un sincero “modo” di essere.

 

martedì 9 gennaio 2024

ANNIE ERNAUX - PERDERSI

 

Perdersi (ed. L’orma, 2023) di A. Ernaux è l’ampliamento - come l’autrice stessa dichiara nel testo - di un precedente romanzo del Premio Nobel francese, Passione semplice. In effetti la trama è la stessa: una donna si consuma d’amore per un rozzo diplomatico russo che le dedica solo ritagli di tempo. Tuttavia c’è, tra il primo e il secondo libro, un’evoluzione che la scrittrice nelle pagine iniziali mette in evidenza: Passione semplice – nota A. Ernaux - è il racconto di “una passione che mi aveva attraversato e che continuava a vivere in me”; in Perdersi, invece, è presente una “verità diversa”, “qualcosa di crudo e oscuro, senza salvezza, qualcosa dell’oblazione”, che l’autrice affida non a un semplice racconto, ma a un dettagliato diario scritto in prima persona in cui voce narrante e prospettiva dell'autrice coincidono perfettamente, secondo una formula più propriamente autobiografica che contraddistingue lo stile di A. Ernaux.


L’ambientazione storica è quella dello sfaldamento politico dell’URSS: “ il muro di Berlino era caduto da pochi giorni”. Tuttavia, ammette la scrittrice parlando del suo libro, “il mondo esterno è pressoché assente da queste pagine”: lo sguardo dell’io narrante è tutto rivolto all’esame radiografico della dimensione interiore. Perdersi è un’autoanalisi estrema, una radicale anatomia della propria ossessione erotica che J. Bazzi nella sua recensione su Domani definisce crudamente come un’offerta di sé “impresentabile, oscena e persino ridicola”.

Il titolo del romanzo ha un valore duplice. Allude certamente al fatto che la storia tra i due amanti dura circa due anni per poi restare solo nella memoria della protagonista che nel suo diario dimostra come sia facile e nello stesso tempo doloroso, perdersi, allontanarsi, dopo aver condiviso molte emozioni, e lasciare che un legame, pur così intensamente vissuto, evapori. Se però si guarda al modo disperato in cui l'io narrante vive le interminabili attese, spesso deluse, degli arrivi o anche solo delle telefonate del suo uomo, perdersi assume un altro significato. Se si osservano, infatti, con attenzione la totale dipendenza psicologica, “l’assoggettamento” – come lo chiama Ernaux - la completa sottomissione fisica, fino all’autoannullamento, della protagonista,  si comprende che perdersi è il verbo che meglio esprime il naufragio identitario ed esistenziale della voce narrante femminile completamente spossessata di sé.

La protagonista di Perdersi sa fin dall’inizio che “tutto, un giorno, deve finire”; il suo uomo è sposato, non ha nessuna intenzione di lasciare la moglie e non ha fatto nessun tipo di promessa: gli incontri sono fugaci, irregolari e occasionali. E questa certezza genera nella donna un “terrore senza nome” simile a quello che - spiega l’autrice nel romanzo - pervade il neonato quando è lontano dalla madre, ma che il bambino gradualmente supera nel momento in cui “diventa capace di conservare in sé l’immagine della mamma anche mentre lei è assente”. E invece nella protagonista questo terrore non l’abbandona mai, al punto che la vita senza il suo uomo perde ogni senso: “vivo in un dolore anestetizzato”.

Per ritornare, dunque, al giudizio sicuramente sferzante, ma anche per certi versi condivisibile, di J. Bazzi, è lecito chiedersi come sia possibile che una scrittrice, femminista, abituata alle letture di S. de Beauvoire, più volte citata in Perdersi, abbia potuto cedere a una forma di sudditanza erotica simile, a un’alienazione senza controllo.

Ernaux sa descrivere con precisione diagnostica come tutto ciò che di bello c’è nell’amore possa trasformarsi in dolore: la speranza diventa frustrazione, l’eros sfuma in senso di dominio da parte di un uomo volgare e autocentrato, l’attesa è ansia sfibrante o rassegnata procrastinazione.

Quello che di poco comprensibile, di irrazionale, c’è in questa relazione tra una donna sensibile, profonda, colta e un uomo egoista, “vanesio, sicuro di sé” spesso ubriaco, in cerca di piacere senza troppo coinvolgimento affettivo, nelle parole di Ernaux diventa sostanza vitale.

È difficile giudicare Perdersi, ma del resto anche questo fanno i lettori quando scelgono di arrivare fino in fondo alle pagine di un libro: le valutano. Certo non sbaglia J. Bazzi nel definirlo il racconto di un’ossessione erotica, ma ha ragione anche Luperini quando scrive che Ernaux sa “rappresentare – limpidamente, con durezza, con fermezza – la contraddizione che vive, senza orpelli”.

Perdersi è un romanzo che dà voce a un’indicibile verità: sul labirintico animo femminile nessuna ideologia può lasciare impronte.

Quella di Perdersi è una storia umana, scomoda, ma umana.

mercoledì 3 gennaio 2024

DONATELLA DI PIETRANTONIO - L'ETÀ FRAGILE

 

L’età fragile di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi, 2023) è un romanzo basato sulla centralità del silenzio, una barriera che separa le persone, impedisce agli affetti di esprimersi. È lui il vero protagonista della storia narrata, il demone che rende fragile ogni età della vita.


La vicenda prende spunto da una violenza che si è consumata tra le montagne abruzzesi, una tragedia che travolge la comunità e lascia segni pesanti sulle vite di tutti. Sullo sfondo di questa dolorosa esperienza, si innestano sofferenze personali che segnano le esistenze e procurano ferite immedicabili.

E tra drammi collettivi e individuali, si insinua lui, il silenzio, che paradossalmente amplifica il peso delle storie di ognuno.

Si tratta di un silenzio che paralizza slanci affettivi, cristalizza il passato, inibisce chiarimenti, disgrega legami, scava abissi.

La voce narrante è quella di Lucia. La prima cosa che mette in evidenza è l’assenza di un rapporto concreto e comunicativo con la figlia Amanda, improvvisamente ritornata a casa dopo una disavventura che la madre solo più avanti scoprirà. La ragazza non dà spiegazioni e non tollera domande; piange, ma dice chiaramente alla madre: non chiedermi niente (p.15). Lucia ignora molte cose di Amanda: io non so cosa dire di mia figlia (p. 21). Madre e figlia comunicano attraverso frasi scritte su foglietti e anche sulla carta l’impulso naturale a manifestare i propri sentimenti verso Amanda, viene subito represso da Lucia: aggiungo un cuore per lei, che subito cancello (p. 6). Si tratta di una vera e propria paralisi della comunicazione. Lucia ne è consapevole, ma non sa fronteggiarla: restituisco silenzio a silenzio (p. 26). Come madre si pone interrogativi, sa che dovrebbe costruire un legame più solido con la figlia, ma le mancano le parole e Amanda, d’altra parte, non si confida con lei. Resta solo una profonda amarezza in Lucia: non accetto che mia figlia faccia a meno di me. La sua rinuncia è il mio fallimento (p. 174). E alla incolmabile certezza della distanza, forse aggravata anche dai contrasti generazionali, si aggiunge anche una sottile paura per il giudizio sferzante con cui i figli attribuiscono colpe ai genitori: a un certo punto perdiamo la presa sulla vita dei figli. Vanno da soli e ci guardano spietati (p. 96). Amanda, infatti, attribuisce Lucia il peso della separazione dal padre, Dario: ti ha lasciata e nemmeno te ne sei accorta (p.97). Non entra nel merito dei disagi coniugali, Amanda, ma fa ricadere sulla madre la responsabilità del non accorgersi: vivere insieme non basta, insomma. Amarsi è un’altra cosa e Amanda è su questo che insiste.

A dispetto dei loro nomi parlanti – Lucia, colei che dovrebbe “illuminare” il percorso di crescita della giovane figlia e Amanda, la figlia appunto da “amare” al di là della ruvidità del carattere – le due donne non riescono a trovare un terreno comune sul quale gettare le basi per un possibile dialogo. Con lucidità Lucia ammette infatti: ciò che vale per me, conta così poco per mia figlia. Anzi, quando Amanda parte e va a lavorare a Jesi per un breve periodo, incerta se riprendere gli studi (non è una laurea a decidere chi sei, p. 172), con vergogna Lucia dice a sé stessa: per un mese sono libera dalla responsabilità, un sollievo. Sono libera da lei (p.174). In questo romanzo non sono messi in discussione i sentimenti, bensì domina l’incapacità di esprimerli. Lucia ama la figlia, (la amo. Più di tutto la amo, p. 174), ma non sa dirglielo.

Parte da lontano questa incapacità. Parlando del padre Lucia nota che non conosce parole d’affetto (p.108) e ricostruendo la storia dei genitori osserva: mi hanno concepita restando muti, lui per ignoranza, lei per pudore (p.108).

Il silenzio è il muro che separa Lucia anche dall’ex marito, Dario, con il quale spera segretamente che possano esserci possibilità di riavvicinamento, ma il silenzio, appunto, scava siderali distanze: tra loro ci sono ormai solo sguardi mancati, indifferenza. Lucia lo sa bene: ci stiamo perdendo così, senza passione e senza sangue. Non so quanti chilometri restiamo zitti. (p.99). È questo il peso dell’incomunicabilità. Sembra di vedere Gli amanti di Magritte, due volti separati da un drappo bianco che impedisce loro anche i gesti più naturali: guardarsi, baciarsi. Per Donatella Di Pietrantonio quel drappo è il silenzio, i troppi non detti.

C’è in questo romanzo un’immagine che sintetizza il peso del silenzio: a Napoli, durante una gita che Lucia, ragazza, fa con la madre, le due donne si fermano a vedere il Cristo velato. La madre lo osserva in raccoglimento. È il velo che la colpisce, non il volto del Cristo morto: è proprio un velo, ma di pietra (p.154).

Il silenzio è impalpabile, ma può essere di pietra.

(cfr. https://www.glistatigenerali.com/letteratura/leta-fragile-il-silenzio-che-scava-abissi/)

martedì 2 gennaio 2024

R. CICCARONE - AL CANTO DELLE SIRENE MANCA L'ACQUA POTABILE

                                                                                                                 Lo scaffale disadorno mostra
                                                                                                                 le inconsistenze temporali
                                                                                                                 solo un pupazzo a pezzi
                                                                                                                 sotto i calcinacci germoglia ...

                                                                                               (da Arrivata la cataratta la pupilla si esaltò)

 

Al canto delle sirene manca l’acqua potabile è il titolo della nuova raccolta poetica di Raffaele Ciccarone, (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2023). In chiaro “stile Kitchen”, lo stridente accostamento tra la leggendaria bellezza delle sirene e la prosaica ordinarietà dell’acqua potabile, per la cui assenza le creature del mito annaspano, traduce in modo immediato l’interrogativo di fondo che costituisce il filo rosso dei componimenti di questa silloge: la poesia ha ancora qualcosa da cantare?

C’è un brevissimo racconto di Franz Kafka, Il silenzio delle sirene, in cui l’autore boemo immagina una storia diversa dal noto racconto omerico e cioè riferisce che all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono: le sirene avevano rinunciato a sedurre l’eroe, preferendo il silenzio.

Stando, dunque, alla lezione di Kafka, dovremmo dedurre che nel mondo contemporaneo non ci sia più spazio per il canto delle sirene, per la poesia: l’orrore quotidiano ha cancellato ogni possibile traccia di bellezza. Già Baudelaire notava che la rue assourdissante – metafora della civiltà industriale con il suo rumore di fondo – rendeva fuggitiva la bellezza, riducibile solo a un lampo cui seguiva poi un’interminabile notte. E al poeta che in un’epifanica rivelazione riusciva a cogliere, pur nell’insensatezza dell’esistenza, il fascino intraducibile di ciò che si cela oltre la fenomenica materialità delle cose, non restava, alla fine, che l’amarezza dell’inattingibilità, la certezza dolorosa dell’impossibilità di un completo possesso.

Sarebbe il caso dunque di ammettere che la poesia non ha più niente da cantare. È questo il senso della riflessione di Montale: quando gli fu conferito il premio Nobel, alla domanda se ancora fosse possibile la poesia nella società contemporanea, rispose chiaramente che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani.

Non resterebbe, allora, che l’afasia.

Eppure, anche se perduto ha la voce /la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto - scriveva C. Sbarbaro - Ciccarone dichiara convintamente, invece, che a nulla serve il silenzio dei poeti (p.24) e che quando il canto delle sirene smette / è già buio (p.76): è compito dunque dei poeti sfidare il buio, riuscire a scorgere quell’ignota forza che può tra una stella e una cometa lambire un papavero (p.78). In fondo sono loro, i poeti, i soli in grado di decifrare il linguaggio di una nuvola nel deserto (p.60).

Nella prefazione alla raccolta di R. Ciccarone, G. Linguaglossa, citando Hölderlin, nota: ciò che resta lo fondano i poeti. Gli antichi hanno tramandato che il poeta dei poeti, Omero, fosse cieco: a dire il vero nessuno sa niente di Omero, ma averlo immaginato privo di una vista fisica simbolicamente spiegava il fatto che i poeti fossero in realtà dotati di uno sguardo superiore, di una prospettiva unica, della capacità di vedere ciò che all’uomo comune sfugge.

Questo non significa certo negare il deserto: i poeti sanno bene che la risposta latita (p. 21). Non c’è infatti soluzione al caos imperante, non esistono porti sicuri di fronte al naufragio dei significati. In un mondo in cui le certezze vacillano neppure la scienza con le sue leggi è in grado di sciogliere i nodi della storia, perché la nostra è una realtà fatta di paradossi che dissolvono la logica, le sue formule e i suoi teoremi: nel triangolo l’ipotenusa si allontana dal cateto (p.15), l’essere umano opera per la sua stessa estinzione e fa della scienza esatta un’arma volta allo sterminio, osservava Quasimodo con grande lucidità.

Ma i poeti non cercano soluzioni, non sono loro a doverle fornire. Il loro sguardo si stende oltre i deserti, si ferma negli interstizi dell’esistenza: se Lesbia insiste nel baciare (p.19) vuol dire che in fondo ci sono ancora strade da percorrere; anche se le nostre vite ci appaiono come trincee piene di cunicoli labirintici e oscuri, i poeti come talpe in avanscoperta cercano brandelli di pace (p.52): anche loro, come Omero, vedono poco e a fatica mettono a fuoco i varchi della speranza, ma si sforzano con tenacia. Sanno certamente che lo scaffale disadorno mostra/ le inconsistenze temporali, ma continuano a credere che, nonostante tutto, anche un pupazzo a pezzi sotto i calcinacci germoglia (p. 52). 

Non abbiamo altro che il presente: la memoria ha diamanti sporchi (p.25), il passato non insegna, il futuro ci minaccia, il tempo come dimensione progressiva è un’invenzione dei filosofi. La storia - sosteneva Montale - non è magistra di niente che ci riguardi e soprattutto non contiene / il prima e il dopo. Rimane, dunque, solo uno scaffale disadorno, che noi dovremo riempire. Tocca a noi trovare il senso all’esistenza sradicata di un mondo senza appigli, dai cui calcinacci – frammenti disgregati di un tutto che non c’è più – può germogliare ancora la bellezza: la farfalla vola sul campanile (p.59), la luna prende un caffè a Venezia (p.80) e la nebbia si può fendere se Kandinsky lancia segni fluorescenti (p.70).  È questo il potere dell’Arte.