domenica 21 ottobre 2018

LA BELLEZZA VIVE IN UN ISTANTE

La mostra di Ubaldo Urbano a Parco Città di Foggia ha un titolo insolito: "Retouchés", ritocchi. Si tratta di riproduzioni su carta di opere che l'autore ha "ritoccato": piccoli interventi per rinnovare l'unicità dei temi portanti di un percorso artistico e ribadirne la persistenza nel tempo.

Urbano conferma, come sempre, l'inconfondibilità del suo stile: volumi plastici e palpabili, contorni netti, di cui è superfluo ricordare il richiamo a Carrà o Casorati, forse solo punti di partenza - necessari più agli osservatori che hanno bisogno di termini di paragone - e non tanto oggettive radici del profilo culturale di Urbano, che si muove, invece, su itinerari creativi e originali. 
Nell'esposizione di Parco Città i "ritocchi" non hanno alterato le costanti della ricerca iconografica di Urbano: atemporalità e aspazialità dei soggetti; tendenza all'essenzialità tematica; cromatismo insistente sulle dimensioni del bruno. L'essenza dei contenuti pittorici converge in modo chiaro su un tema predominante: la figura femminile.
Le donne di Urbano suonano, sognano, dormono, danno vita, allevano, amano. Non sono collocate in cornici spazio-temporali definite: sono loro a creare lo spazio e il tempo; la prospettiva in cui sono inquadrate nasce dalle relazioni che i loro corpi intessono con la dimensione che le circonda. Non c'è storia, non c'è luogo: i corpi femminili sono LA DONNA, incarnano l'idea della donna, la quidditas della donna, dipinta attraverso i colori della Terra, sabbia, ruggine, marrone, verde. Il legame tra terra e donna appare forte e intuibile: come la terra, la donna accoglie; come la terra, la donna dà vita. L'insistenza su questa scelta assume un valore oggi quanto mai incisivo. Rappresentare la donna nella sua pura essenzialità - LEI che si accampa nello spazio, LEI che occupa totalmente l'occhio dell'osservatore e monopolizza l'attenzione di chi guarda, nell'assolutezza della sua asciutta figura - obbliga a riflettere su un dato: la donna rappresenta l'altro sguardo sul mondo.
In una società sempre più virilizzata, in cui, cioè, i modi bruschi della forza verbale o fisica sembrano far ripiombare le relazioni umane in una barbarie iliadica, Urbano riesce in modo unico e gentile, a rappresentare l'alternativa alla forza, allo scontro: nel corpo accogliente della donna, nella sua morbidezza si situa una visone del mondo, un altro modo di vivere i rapporti umani.
La donna incarna da sempre la forza dell'EROS, che è una via immediata e passionale verso la vita, una strada che cerca l'incontro, l'intesa di corpi e di anime. La civiltà ha, invece, troppo spesso soffocato lo slancio propulsivo dell'eros, in nome della sofisticata forza del LOGOS, la ragione catalogante, classificatrice, quella che cerca il discrimine di ogni cosa, per etichettarla, incasellarla.
Della pittura di Urbano, inoltre, colpisce un tratto specifico la capacità di cogliere la bellezza dell'ordinario. In un'epoca come la nostra in cui ci si affanna alla ricerca della stravaganza, dell'eccezionalità, degli effetti speciali, Urbano lascia a chi osserva attentamente i suoi quadri un messaggio che resta impresso in modo indelebile nell'animo. Si tratta di una gratificazione difficile da raggiungere, ma è certo intensa e duratura: Urbano ritrae la bellezza del quotidiano, quella che permette di scoprire il senso della vita nella vita stessa. Molti intellettuali hanno inteso sacrificare la vita all'arte, chiudendosi nella turris eburnea della Bellezza.
Le donne di Urbano ci ricordano, invece, che tocca a noi rendere bella la vita di tutti i giorni.
Le donne di Urbano, nella loro pienezza, accampandosi con volumi forti, concreti, ci dimostrano che la felicità non consiste nell'essere avventurieri dell'assoluto né nel cercare impossibili risposte collettive. Il male di vivere c'è, non si può negare. Eppure la bellezza dell'esistenza non è inafferrabile, si situa in un istante e bisogna saperlo cogliere: una donna suona, un'altra guarda il suo bambino, un'altra ancora chiude gli occhi nel sogno o nell'attesa o nel ricordo. Come scrive Tzvetan Todorov, in quel preciso istante la materia diventa bellezza.

domenica 30 settembre 2018

MORFISA O L'ACQUA CHE DORME


La cosa migliore, forse, è non spiegarci,
non dare la chiave del nostro essere, 
la formula del nostro destino.
E. M.  Cioran, Taccuino di Talamanca 

Morfisa o l’acqua che dorme è un romanzo carico di suggestioni letterarie, di immagini ad alto tasso simbolico, vi trionfa l’immaginazione sia nella barocca architettura narrativa sia nel complesso impasto stilistico - abilmente costruito - che varia dalle sfumature ricercate alla vivacità del dialetto napoletano sino all’uso insistito dell’ironia da parte della voce narrante che assume nei confronti dei personaggi una funzione smascherante sullo stile di Cervantes.

La trama del romanzo di A. Cilento ruota intorno a Teofanès Arghìli, poeta velleitario capace solo di copiare storie già scritte. Come ambasciatore dell’impero d’Oriente, egli viene inviato dalle sovrane di Bisanzio, Zoe e Teodora, a Napoli, dove dovrà prendere in consegna Crisorroè, figlia del Duca di Napoli, perché la fanciulla possa sposare un Porfirogenito e affinché le relazioni diplomatiche tra Napoli e Costantinopoli si rinsaldino in virtù di un matrimonio che è assolutamente un’alleanza politica. A Napoli il messo d’Oriente scopre che Crisorroè è stata assassinata: alcuni pescatori trovano tra le reti la sua testa coperta di alghe. Inizia  a questo punto per Teofanès una serie di complicate avventure e di inattesi incontri con creature straordinarie, tra le quali si distingue Morfisa, la fanciulla polimorfa e metamorfica, che nel romanzo il lettore conoscerà, infatti, in forma di atleta, aquila, cinghiale, balena, tra caleidoscopiche trasformazioni, suggerite dal suo nome parlante che deriva dal greco morphé, cioè,  “forma”. Morfisa è la bambina magica venerata a Napoli come una Madonna, che mette Teofanès, il sedicente poeta, di fronte ai suoi limiti di scrittore. Grazie ai racconti della fanciulla, infatti, il poeta scopre quello che gli manca: la creatività, l’immaginazione, la capacità di donare fascino alle narrazioni, la grazia affabulante della parola.
La storia si dipana intorno ad alcuni temi focali: il viaggio, Napoli, il mare e l’acqua, la diversità, il tempo, il fantastico, l’uovo.

Il viaggio, Napoli, la vita
Morfisa o l’acqua che dorme è strutturato attorno al più antico archetipo narrativo, risalente al modello odiassiaco: il viaggio come percorso accidentato e metafora della vita. In questo romanzo ne è protagonista Teofanès e il suo viaggio assume varie sfumature: è missione diplomatica, rapimento, prigionia, ricerca. La Cilento, inoltre, aggancia le suggestioni classiche legate al tema del viaggio a quelle medievali che attraverso la quête e l’aventure tracciano il percorso lungo il quale avvengono la formazione e la maturazione dei personaggi.
Napoli, luogo di approdo per Teofanès, non è solo lo sfondo geografico del romanzo della Cilento, è, piuttosto, un modo di vedere la realtà.
Napoli è terra di fede e di superstizione, di devozione e folklore; è la città in cui il culto di San Gennaro convive con quello pagano di San Virgilio, il poeta dell’Eneide trasformato dalla fantasia popolare in un mago, profeta, patrono; Napoli, crocevia di culture – greca, latina, araba, normanna, longobarda – Napoli, carica di fantasia, incline a colorare di leggenda anche la storia; città fatta di strade, vicoli e piazze in cui le liturgie delle chiese si mescolano – come attestano le pagine della Cilento - a riti profani, alle voci dei femminielli, a badesse licenziose, a prostitute che si concedono, a incesti che si consumano, a stupri che la oltraggiano.
Le vicende che affronta Teofanès non hanno mai nulla di lineare. Il suo passare da un’avventura ad un’altra con un ritmo convulso e confuso ricorda il girovagare del petroniano Encolpio nella labirintica Roma neroniana e sembra imitare la vagatio errabonda del boccacciano Andreuccio da Perugia che proprio in una  Napoli bella e pericolosa va alla ricerca di se stesso. L’Ulisse omerico più volte evocato nel testo è, dunque, un modello auspicato da Teofanès, ma non realizzato: diversamente dall’eroe dell’Odissea, che tornando a Itaca si riappropria compiutamente dei tutti i suoi statuti identitari di padre, marito e sovrano, Teofanès appare più come un antieroe, palpabilmente contaminato da influenze donchisciottesche. Fallire è il suo mestiere: sedicente poeta, è solo un povero scrittorucolo che sa copiare, ma non ha inventiva; gli viene affidata una missione importante – trasportare un utero fresco a Costantinopoli dal Ducato napoletano (p.34) – ma non la conduce a termine; Teofanès ama Costantino, che improvvisamente a un certo punto del racconto si fa chiamare Michele, ma quando riesce a possedere davvero il suo amato, lo perde per sempre. C’è qualcosa di incompiuto in Teofanès. Il suo smarrimento esistenziale emerge in modo inequivocabile nel ritratto che ne fa l’autrice nelle pagine conclusive del capitolo relativo alla festa dell’Oditrigia, in onore di Morfisa, venerata come una Madonna miracolosa: “aiuto” urlò, ma nessuno c’era ad ascoltarlo. Cercò affannosamente la strada da cui era venuto, fra i cespugli, non la trovò, si poggiò piangendo a un albero. Ancora si lamentò, ululò alla luna,  e poi, quasi senza accorgersene, vinto dal vibo, sprofondò nel sonno.(p.92).
Teofanes cerca: la sua quête (di Crisorroè, dell’uovo magico che gli fornisca l’ispirazione poetica, dell’amore eterno) è continuamente frustrata; affronta senza esito esperienze irte di ostacoli e pericoli, crede nell’amore e resta deluso.
Il suo labirintico percorso rappresenta l’esistenza umana: le certezze si sgretolano, le grandi verità vacillano come gli imperi e si frantumano come la Chiesa aggredita dalle eresie che avanzano. Perdersi è quasi certo, la vita ha l’aspetto di un locus horridus. Il topos della selva inestricabile in cui Teofanès si perde e piange, ritorna, infatti, fedele ai modelli tradizionali: Dante, l’Orlando ariostesco, il Tancredi tassiano smarrito nella selva di Saron. Il pianto notturno, alla ricerca di speranza e protezione, non può non richiamare alla mente nel lettore accorto le invocazioni alla luna del Niso virgiliano, del Medoro di Ariosto, di Lucio nel romanzo di Apuleio, una storia di metamorfosi, appunto, come quella di Teofanès e Morfisa. La Cilento strizza l’occhio compiaciuto alla letteratura di ogni tempo, servendosene per costruire un romanzo ingegneristicamente combinatorio.
Kurt Vonnegut iniziava il suo Mattatoio n.5 con una frase lapidaria: tutto è accaduto, più o meno. Il punto è proprio questo: tutto è accaduto. Il panorama letterario vive oggi in una condizione di estrema saturazione. Tutto è già stato detto e la scelta postmodernistica del gioco combinatorio e citazionistico diventa quasi obbligata, come insegnano Calvino, Eco. Per questo il riferimento ad Eraclito è ripreso testualmente: la vita passa e nessuno si bagna due volte nella stessa acqua, p.88.
La scelta, poi, della metamorfosi come tema portante del romanzo (non solo Morfisa, infatti, è personaggio mutante, anche Teofanès ha una natura duplice: da uomo diviene donna) non può non ricordare il principio ovidiano espresso nelle Metamorfosi: omnia mutantur, nihil interit, espressione chiara del perpetuo divenire di ogni cosa, dell’instabilità dell’esistenza. Lo smarrimento di Teofanès nel labirinto napoletano e il suo pianto disperato nella selva dopo la festa dell’Oditrigia, dovuto anche al mescolarsi vorticoso di riti sacri e profani, devozione popolare e menadi danzanti, sembra dimostrare che quel mondo che noi desideriamo come un ordinato kosmos, di fatto danza sui piedi del caos. Forse, la presunzione logocentrica non ce la fa a spiegare il mondo e la convinzione che ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale, è solo stata una vana illusione, come aveva già dimostrato Nietzsche. Del resto lo ribadisce a chiare lettere Cioran, l'esistenza è indecifrabile: la cosa migliore, forse, è non spiegarci, non dare la chiave del nostro essere, la formula del nostro destino.
E l’ironia scelta dalla Cilento come veste stilistica del suo libro, svolge appunto la funzione di forza demistificante. Le certezze si sgretolano, le grandi verità vacillano, i punti di riferimento crollano. Un personaggio secondario del romanzo pronuncia in napoletano una frase-chiave: la verità! Sulo Dio ave la verità! Lo munno è sogno, lo sogno che ognuno sogna… (p. 184). È chiaramente riconoscibile la citazione dei versi di Sigismondo, protagonista del dramma di Calderón de la Barca, La vita è sogno, testo che al di là del suggestivo titolo, porta in scena il senso tragico dell’inafferrabilità della verità.
Il logos è perdente. La figura dei filosofi viene, pertanto, variamente ridicolizzata nel romanzo, proprio per mettere in evidenza l’insufficienza del loro sistema: i filosofi sono quelli che discutono del sesso degli angeli (p.81), ossia si perdono in discettazioni su temi vuoti e verità indimostrabili; il marito di Maria Merenda, ancora un’altra sorella di Eudochia, è un filosofo, cioè un inetto: è sua moglie, che, infatti, dotata di senso pratico, si occupa dei contratti, degli acquisti, delle vendite, (p. 86) ed è sempre Maria Merenda a definire Pietro Cènnamo, in senso dispregiativo e sarcastico, quel filosofo di mio marito, (p.114).

La diversità
Uno spazio privilegiato nel romanzo di A. Cilento è occupato dalla diversità.
Teofanes è omosessuale; ad un certo punto della storia subisce una metamorfosi e diventa donna; Morfisa è nera, nasce da uno stupro da parte di un arabo ai danni della madre Eudochia; è disabile, non può camminare: al posto dei piedi ha due moncherini. Si tratta di una diversità che a ben guardare ha un marchio femminile: Morfisa istituisce il Ducato delle Femmine; Teofanès solo in un corpo di donna riesce a giacere con passione e soddisfazione insieme al suo amato Costantino/Michele.
Parlare della donna vuol dire indagare antropologicamente la storia. La società è sempre stata androcratica e il libro lo testimonia, tutti i luoghi del potere sono controllati da uomini: le corti, gli assedi e le guerre, i monasteri, la cultura. Morfisa, però, è donna, governa e, novella Sherazade, racconta storie, ha il potere affabulante della parola e fa miracoli come una santa. Sovverte un ordine stabilito da secoli. Introduce la diversità nella storia. Infrange il tabù del silenzio normalmente imposto alle donne, usa magistralmente la parola, arriva al governo varando come primo atto politico una legge che impedisce il matrimonio per le donne sotto i sedici anni di età, dona a tutte le fanciulle del Ducato un libro e due monete d’oro, ordina ai monaci dello scriptorium della città di istruirle. E sin dall’inizio manifesta il suo programma di vita rivolgendosi a tutte le donne: fate sogni grandi.
La sua risposta al fallimento del logos non è quella che Italo Calvino chiamerebbe la resa al labirinto – lo smarrimento, cioè, sperimentato da Teofanès – bensì, la proclamazione del valore del sogno, il grande motore della creazione artistica. La proposta di Morfisa è un fil rouge tra Don Chisciotte e il Calvino delle Città invisibili che invita i lettori a cogliere nel mondo ciò che inferno non è, cioè, a trovare nell’arte e nella bellezza – che del sogno e della forza immaginativa sono la diretta emanazione – l’alternativa agli orrori della realtà.
Morfisa, donna, affabulatrice, tessitrice di racconti - sembra suggerire sapientemente A. Cilento - è la metafora dell’intellettuale che è sempre un “diverso”, diverge, cioè, dal mainstream, dal sistema, e lo fa inceppare, ne smaschera le falle, proprio come fa la fanciulla metamorfica quando coraggiosamente si oppone al padre pubblicamente e ne decreta la fine.
Emerge, nell’esaltazione del femminile, il bisogno da parte dell’autrice di sottolineare il valore del pathos – da sempre rappresentato dalla donna – contro il logos. In una Napoli che celebra la festa dell’Oditrigia, la folla si contorce, balla, canta:  le donne vengono a chiedere figli, le vergini cercano marito, le coniugate si procurano svago. Agli occhi di Teofanes tutto sembra strano, fuori dagli schemi: donne in preda all’ebbrezza della festa gli ricordano la descrizione sallustiana di Sempronia, colta e consapevole della propria femminilità, capace di osare più di quanto fosse a Roma concesso alle matrone: psallere et saltare elegantius quam necesse est probae, (p. 88).
Se il logos è quello al potere, se il logos è il maschile, bisogna constatare che è deludente: genera guerra, intrighi di corte, vizio e si sintetizza nella figura diabolica del Duca Giovanni, prepotente e incestuoso detentore del trono napoletano e pronto a concedere la mano della figlia Crisorroè a chiunque si prospetti come possibile alleato in nome della ragion di stato.

Il tempo
Nel vorticoso intreccio narrativo di ariostesca memoria e utile a evocare la dimensione labirintica della storia, anche il tempo è una dimensione antirealistica.
Nel gioco combinatorio della scrittura - magistralmente orchestrato da A. Cilento - i riferimenti riconoscibili non sono solo classici e italiani. Appare chiaro, infatti che Teofanès è stato costruito - con un accorta tessitura di rimandi - sul modello inglese di Orlando, il protagonista dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf, non solo perché come Orlando anche Teofanès è di natura ambigua, è uomo e donna, ma anche perché come il personaggio della Woolf, anche Teofanès attraversa il tempo. La storia narrata dalla Cilento, infatti, parte mille anni fa e attraversa cronotopi svariati: il Giappone della Regina Akiko, Costantinopoli nel 1204, Troyes nel 1176, Napoli nel 1370, Napoli, ancora, nel 1973-1980. Borges, in un racconto intitolato Il giardino dei sentieri che si biforcano,  nota che la narrativa si regge su una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. La letteratura, pare suggerire l’autrice, non è il luogo della mimesi del reale, non è la sede del frazionamento matematico del tempo e della scansione scientifica delle successioni cronologiche. La letteratura è fatta, per usare ancora un’espressione cara Borges, di Finzioni. 

Il fantastico e l'uovo
La dimensione del fantastico è preponderante nel romanzo di A. Cilento, che poggia, sì, su basi storiche, peraltro dettagliatamente ricostruite, ma è un libro che apre scenari fantastici dagli orizzonti dilatati e perciò sfugge ad ogni etichettatura di genere.
Un romanzo neostorico? No: monache volanti che spengono un incendio orinando sulle fiamme non appartengono ad alcuna memoria storica.
Genere fantastico? No: punti di forza del testo della Cilento sono l’attendibilità di date, dati e nomi recuperati da fonti storiografiche e la ricostruzione della fase storica relativa alla autonomia ducale di Napoli.
Morfisa o l’acqua che dorme contro ogni forma di zoliano engagement del letterato, dimostra, crocianamente, che raccontare è un lavoro di invenzione pura, di immaginazione. L’indagine della realtà è, infatti, oggetto della scienza che deve studiarne le leggi, della politica che deve trovare i rimedi a ciò che non funziona: l’arte è un’altra cosa. Secondo Mario Vargas Llosa i romanzi sono fatti di “menzogne” che aiutano ad affrontare l’esistenza: gli uomini non vivono solo di verità; hanno anche bisogno delle menzogne: quelle che inventano liberamente (…). La finzione arricchisce la loro esistenza, la completa. La letteratura amplia la vita umana, nota ancora Vargas Llosa.
Non si tratta, dunque, di fuggire dal mondo, ma di arricchire la realtà con la forza    del sogno. Lo spiega bene Julio Cortázar: il fantastico (…) non è una scappatoia, è un contributo a vivere più profondamente questa realtà.
Morfisa ne è certa: quando inventavo storie da bambina era perché avrei voluto camminare e non potevo, essere bella e mi era negato, avere una madre ma mi era stata strappata. (…) Invece io sognavo di essere libera, veloce, potente … L’ho sognato con così tanta intensità che una parte di me lo è diventata (p. 299). È questo il senso della letteratura, quello che è nascosto nell’uovo di Morfisa, simbolo della creatività.
Teofanès “legge” nell’uovo milioni di storie … quelle conosciute, antiche, degli eroi famosi – Ulisse, Ercole, Edipo, Medea, Didone, Enea -   e quelle non ancora scritte (p.170) e perciò ancora sconosciute a chi vive nella Napoli di mille anni fa. Teofanès vede una balena saltar fuori dalla onde contenute nell’uovo in cui vorticano le immagini che daranno vita ai racconti del futuro e riconosce Pinocchio nel ventre del pescecane, il capitano Achab che insegue Moby Dick, il vecchio Santiago di Hemingway che, solo su una barca, cerca a tutti i costi di pescare il gigantesco marlin. L’uovo è l’origine dell’invenzione artistica, che, però, non bisogna immaginare generata da fonti esterne all'animo umano. L’uovo rappresenta la forza creativa che ognuno deve trovare prima di tutto in sé. Perciò sbaglia Teofanès a cercare di rubarlo, di appropriarsene, nella speranza di trovare l’ispirazione artistica che possa renderlo famoso nei secoli e dare spessore alla sua esistenza. Il talento non si insegna. Come diceva Orazio nell’Ars poetica, occorrono ingenium e ars per essere poeti: ars, studio, esercizio, metodo, ma soprattutto ingenium, talento naturale, genio creativo. Certo indagare che cosa sia il talento è arduo. Forse Raymond Carver ne dà un’idea:  è un modo di vedere le cose originale e preciso, l’abilità di trovare il contesto giusto per esprimerlo, il dono di vedere quello che gli altri non hanno visto, il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato. Esattamente come sa fare Morfisa.
Morfisa o l’acqua che dorme è un’indagine sul senso del talento artistico. 
A. Cilento, secondo un consolidato schema binario, risalente già alle strutture esopiche del racconto, costruisce attraverso una scrittura che denota una lunga esperienza, due antitetici modelli narrativi: uno ideale, alto, nobile (Morfisa) e uno reale, perché molto diffuso, (Teofanès), fatto di racconti che rinviano a sogni già sognati e a libri già scritti. A quale dei due si assimila l’autrice, abile tessitrice di illusionismi citazionistici chiaramente riconducibili alla famosa tradizione del Barocco napoletano? Ai lettori…il compito della risposta.



sabato 2 giugno 2018

LO SCONOSCIUTO

Lo sconosciuto fa parte del romanzo di Irène Némirovsky Suite française: una storia ambientata negli anni dell'occupazione nazista della Francia, il racconto dell'esodo della gente, dell'orrore della guerra.
Lo sconosciuto è un testo brevissimo, ma penetrante.
Era una notte tra le più miti del 1940, scrive l'autrice, e i rifugiati dal Belgio, dal Lussemburgo, dall'Olanda si raccolgono nel Nord della Francia, in una stazione con le vetrate dipinte di blu e le lampade velate perché non sia riconoscibile dagli aerei nemici. Questo luogo è il regno del caos: gente ammucchiata e cose ammassate, persone addormentate a terra, orari ferroviari stravolti, folla agitata.
Eppure, in questo disordine, due fratelli si incontrano, si ritrovano: una licenza li aveva riuniti per il matrimonio della sorella. Claude, il maggiore, ha moglie e figli e non sa se potrà riabbracciarli alla fine della guerra; François, più giovane e audace, invece, è contento di andare a combattere, annoiato dal fatto che, di stanza al Nord, ha potuto incontrare solo due avversari; la noia e il freddo.
Claude ha un volto scuro, ombroso; il fratello addebita la sua tristezza alla preoccupazione per la famiglia, al timore di morire in guerra. Invece Claude spiega che gli è accaduto qualcosa di strano: ha ucciso un giovane tedesco. Però, si sa, è la guerra, non è questo che lo sconvolge; certo, non aveva mai ucciso nessuno prima, ma è sempre stato preparato a questa possibilità, dovendo combattere al fronte. Il fatto è che di questo soldato nazista lo ha colpito il mento: il suo piccolo mento aguzzo, scavato da una fossetta, uguale al suo, con qualcosa di familiare.
Claude fruga tra le tasche del ragazzo morto. Non lo fa per sciacallaggio, ma, anzi, per senso di responsabilità, per avere informazioni su di lui e avvisare i parenti: foto della fidanzata, lettere, una fotografia del padre e della madre. A questo punto una rivelazione epifanica e un sospetto inquietante si fanno strada in Claude: le cicatrici sulla mano sinistra del padre del ragazzo e sul suo volto sono ben visibili nella foto e costituiscono un indizio forte: la somiglianza non tradisce, le ferite sono le stesse che anche il padre di Claude e François aveva riportato in guerra. La scoperta è sconvolgente e Claude la comunica subito al fratello, ora, nel caos della stazione, emblema della confusione che la guerra, le guerre, portano nelle vite umane. Questa è la ricostruzione dei fatti cui giungono i due soldati: il padre che loro in passato avevano sempre ritenuto morto, disperso il 27 maggio 1917, era invece sopravvissuto alla guerra e aveva formato un'altra famiglia e quel ragazzo tedesco ucciso da Claude si chiamava Franz, versione tedesca del nome François, come attesta la dedica sulla foto, recante la data del 1925. Il loro fratello minore, figlio dello stesso padre, battezzato con lo stesso nome di François, è stato ucciso da Claude.
Una storia incredibile che ha al centro della narrazione un fratricidio: una vicenda che si ripete dai tempi di Caino e Abele, Eteocle e Polinice.
La Némirosky va in fondo al dramma. Sembra di rileggere il racconto sallustiano della battaglia finale a Pistoia, tra i Catilinari e l'esercito regolare dei romani: molti, poi, che erano usciti dall'accampamento per visitare il campo di battaglia (...), rivoltando i cadaveri dei nemici, trovavano che un amico, chi un ospite, chi un parente. Irène Némirovsky dà voce all'insensatezza della guerra. Lo farà anche Pavese nel romanzo La casa in collina: ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui (...). Ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Commentando il racconto della Némirovsky, Jean Louis Ska - gesuita belga tra i maggiori esegeti contemporanei - nota che l'autrice ha voluto dare un valore emblematico al suo racconto: il nemico che uno si trova di fronte è nientemeno che un fratello. (...) Gli uomini sono fratelli e sono le circostanze o i discorsi ideologici che li trasformano in nemici.
Irène Némirovsky affida alle parole di François il senso del suo breve racconto: non ci si pensa mai, (...) ma con i quattro anni dell'altra guerra, l'invasione, poi le nostra truppe sule Reno, dei fratelli hanno dovuto già trovarsi gli uni contro gli altri in campi nemici.
Ska conclude la sua interpretazione del racconto Lo sconosciuto con un aneddoto risalente alla prima guerra mondiale: un giovane soldato austriaco, ricevuto l'ordine di sparare all'esercito nemico, si rifiutò e buttò a terra il fucile, dicendo perentoriamente: no, ci sono uomini lì davanti. Chiaramente fu giustiziato per il suo eroico rifiuto della guerra. Ska si chiede, interpellando il lettore: e se, da entrambe le parti, tutti avessero avuto la stessa reazione? Ovvio: la guerra sarebbe finita, non ci sarebbero stati milioni di morti tra soldati e civili.
In guerra non ci sono vincitori e vinti: si è sempre perdenti di fronte alla violenza. A rimetterci è l'umanità.

martedì 10 aprile 2018

PAROLE DISARMATE

Parole disarmate (Edizioni del Rosone, Foggia) è un libro coraggioso, perché dice la verità sull'uso che noi facciamo delle parole. Gli autori, Andrea Prandin (consulente pedagogico e formatore) e Antonia Chiara Scardicchio (ricercatrice in Pedagogia sperimentale), spiegano che  noi viviamo nell'illusione di scegliere le parole e, invece, sono le parole che scelgono noi: hanno un potere rivelativo e dicono molto sul nostro modo di essere, ci definiscono nel nostro rapporto con noi stessi, con il mondo, con gli altri. Sosteneva, infatti, Wittgenstein che le parole sono come la pellicola superficiale su un'acqua profonda.
La parola ha una natura duplice, è sempre in bilico tra potenza e impotenza. Da un lato è l'espressione della grandezza umana, è il λóγος che vince il caos, è la forza in cui si è riconosciuto il sistema di pensiero occidentale da Socrate a Hegel, è la quidditas che distingue l'uomo dall'animale.
Eppure questa forza può facilmente slittare nell'arroganza, quella di chi pretende, appunto, di avere sempre "l'ultima parola". Le parole possono addirittura  trasformarsi in vere e proprie armi che feriscono. E il modo in cui noi le usiamo è la spia che fa emergere le nostre intenzioni, il nostro volto più autentico.
D'altra parte, le parole possono esprimere anche la nostra fragilità: spesso ci mancano, vengono meno, non le troviamo. E non è per colpa di un lessico povero o di ignoranza, ma, piuttosto, della difficoltà di costringere entro gli angusti limiti del λóγος, il magma di emozioni che si agitano nel nostro cuore. Così sperimentiamo la debolezza del presunto potere definitorio della parola: un problema ben chiaro a Montale, quando scriveva non chiederci la parola che squadri da ogni lato/
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco/ lo dichiari.
Dalla lettura di Parole disarmate si esce arricchiti di una consapevolezza nuova: le parole - scrive A.C. Scardicchio - sono povere e potenti, sono il confine sempre mobile tra potenza e percezione di incisione.
Riflettere sul valore della parola nel mondo contemporaneo è un atto quasi doveroso. In tempi di deliberata e strumentale manomissione delle parole - per usare un'espressione di G. Carofiglio, peraltro citato nella ricca bibliografia cui fanno riferimento gli autori di questo saggio - anzi, in un'epoca di vera e propria espulsione della parola, costretta a competere con forme di comunicazione digitale e di scambio virtuale, spesso affidato a emoticon e sms, risulta senza dubbio incisivo il monito di A. Prandin di restituire alla lingua il potere generativo dei significati e di sperimentare, così, logiche inesplorate, dando voce a ciò che è represso, inesprimibile o forse ancora sconosciuto. Si tratta di un inesauribile lavoro di ricerca che ha un intento pragmatico: aprire possibilità, innescare possibili fili di comunicazione. Le parole prive di ricerca sono parole sterili: inutili nelle relazioni, inutili nell'educazione, inutili nella cura. E il frutto della ricerca sono, per Prandin, i neologismi sincretici  che per certi aspetti e in modo originale richiamano alla mente i binomi fantastici inventati da Gianni Rodari, parole liberate dagli schemi usuranti delle ordinarie catene verbali e accostate in modo surreale, giocoso e molto, davvero molto, rivelativo. 
Parole disarmate lancia un messaggio di alto valore morale: organizzare la Resistenza della parola detta, pronunciata, "parlata", accompagnata dalla fisicità di chi la usa: gesti, sguardi, voce, tono, corposità vissuta. La Resistenza della parola contro la non-parola del digitale.
Emerge, infine, da questo libro un preciso dato: la deriva della parola sta producendo rischi enormi, facilmente riconoscibili.
- La pretesa di dare alle parole il potere dell'esattezza oggettiva: oggi le parole vengono rese salde da test, griglie, misurazioni, quantofrenia. Si tratta di una patologia ben presente, per esempio, nel mondo della scuolaE, invece, deve essere chiaro che ingabbiare le parole è il primo passo verso la censura.
- L'ambiguità ideologica del linguaggio politico: orwellianamente vengono chiamate "missioni di pace" vere e proprie spedizioni di guerra o si definisce apoditticamente "Buona Scuola" una legge che, a ben guardare, è stata la causa del peggioramento repressivo di ogni libertà d'insegnamento e di qualsivoglia spirito critico negli apprendimenti.
- La paura della polisemia e della Babele linguistica, l'illusione della reductio ad unum dei significati come sinonimo di stabilità e di sicurezza. L'uomo - scrive A.C. Scardicchio - ha sempre cercato di estinguere la parte di sé umbratile. Il suo sforzo è sempre stato quello di aspirare alla costruzione di un discorso ordinato. E, invece, il più chiaro e ordinato dei discorsi, sebbene rassicurante, può diventare la più pericolosa delle illusioni. Pensare che dire equivalga a conoscere e parlare a sapere (...) impedisce al parlante di vedersi mentre parla, impedisce alle parole di farsi osservare per quello che sono: parole, solo parole.
Eppure noi viviamo di parole, con le parole, grazie alle parole e dal loro uso dipende la qualità della nostra vita associata: come chiarisce anche G. Zabrebelsky, il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quindi, più parole, più democrazia; più parole, più confronto; più parole, più umanità. Però a far da guida ai nostri discorsi deve essere - suggeriscono gli autori del saggio - la consapevolezza costante della potenza e della fragilità delle parole.
Proprio perché sopravvivano la democrazia, il confronto e l'umanità occorre, dunque, DISARMARE le parole. Trovare un equilibrio possibile tra potenza e fragilità è un'impresa nobile: "spuntare" le parole per disarmarle e renderle un fecondo terreno di incontro significa non "puntarle" mai come armi contro l'altro.       
Loro, le parole, sono tutto quello che possiamo. E, contemporaneamente, tutto quello che non possiamo, nota A. C. Scardicchio. Sceglierle bene vuol dire impegnarsi a costruire un mondo migliore, intervallandole, semmai, talvolta, con opportuni silenzi, necessari a placare le emozioni negative e a lasciar emergere quelle positive. Lasciare che siano le parole a scegliere noi significa salvaguardare la profonda autenticità del nostro dire, la genuinità delle nostre emozioni, abbassare la soglia delle mediazioni.
Parole disarmate è un libro che insegna a liberare le parole dalle loro incrostazioni e pietrificazioni abitudinarie che si insinuano nelle mode linguistiche, negli stereotipi, nelle convenzioni.
Gli autori consigliano un lavoro di lento disapprendimento che consiste nello scardinare i presupposti delle nostre parole storiche per mutarle, per evitare il sempre-detto e il sempre-detto-così. Forse bisogna lasciar spazio alla fantasia, che, come ricordava Rodari, ha una sua grammatica, diversa, però, dagli schemi convenzionali: è libertà.
Imparare a disfare le parole, innescare processi di tras/de-formazione delle parole, giocare con i significati per scoprire nuove letture del mondo è un processo che comincia da bambini.
Può sembrare un esercizio difficile, invece è un'avventura in cui è in gioco il nostro modo di stare tra gli uomini e di coltivare la nostra umanità: dum inter homines sumus, colamus humanitatem (Seneca)

domenica 1 aprile 2018

REALISMO CAPITALISTA


Mark Fisher inizia il suo libro, Realismo capitalista, con un capitolo dal titolo emblematico e riassuntivo della sua tesi di fondo: È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.
Di capitalismo la nostra società è intrisa. E il fatto che il tachteriano modello T.I.N.A. (There Is No Alternative) sia considerato a tal punto radicato da abbattere ogni possibilità di immaginare mondi diversi, ha fatto sì che il Capitale sia diventato sinonimo esclusivo della realtà. Il realismo capitalista è intriso di luoghi comuni che ne traducono l’immodificabilità: certo, la nostra democrazia non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. E inoculare il germe del male minore genera la pandemia della rassegnazione all’esistente come unica e sola realtà.
Fisher va oltre: analizza i mali gravi a cui si accompagna il realismo capitalista. Sono tutti riconoscibilissimi.
a)      Desacralizzazione della cultura, considerata inutile, perché non produce utili.
b)      Smantellamento delle tutele del diritto del lavoro.
c)       Inconsapevole cooperazione di ognuno di noi, voraci consumatori, alla impersonale iperastratta struttura del Capitale.
d)      Crescita esponenziale dei casi di depressione e ansia; Fisher ne è una vittima (è morto suicida il 14 gennaio 2017, a quarantotto anni). Il Capitalismo tende a scaricare sui singoli il problema della malattia (fenomeno della privatizzazione dello stress), riducendo i sintomi da stress a una questione di emotività incontrollata, di disagio personale, di problemi chimico-biologici individuali, alla percezione di sé come falliti e incapaci di inserirsi nella struggle for life, insomma, buoni a nulla. Invece, osserva Fisher, il dato è lampante: tante persone, anche giovani, malate e depresse sono un vantaggio enorme per il capitalismo: atomizza la società (controllare delle monadi isolate è più facile che render conto a masse organizzate e consapevoli) e crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti.
e)      Elaborazione ingegneristica di una macchina “triturauomini” capace di degradare in maniera irrimediabile la dignità umana: la burocrazia. Verticismo, inefficienza generalizzata, sclerosi istituzionale sono gli ingredienti di questo meccanismo che schiaccia i cittadini riducendoli a meri ingranaggi di un sistema asfissiante e labirintico.
f)       Ideazione e programmazione di un laboratorio in cui testare le riforme neoliberistiche: una scuola sempre più piegata a imperativi di mercato, i cosiddetti target da raggiungere. Questo modello di scuola è così rappresentato da Fisher: un luogo popolato da studenti persi in un’inerzia edonistica, annoiati e sempre troppo connessi per poter prestare attenzione alle lezioni, prede di qualcosa di più che una semplice demotivazione. I giovani sono affetti da una sempre crescente incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché, dipendenza da flusso digitale continuo, stordimento. Non migliore è il ritratto degli insegnanti: intrappolati tra il ruolo di facilitatori-intrattenitori che assicurino il più alto numero di promozioni, e quello di disciplinatori autoritari, nel momento stesso in cui le strutture disciplinari sono andate in crisi, cosa che, naturalmente, toglie loro ogni credibilità. Peggio: mentre le famiglie cedono alle pressioni di un capitalismo che obbliga entrambi i genitori a lavorare, agli insegnanti viene chiesto di comportarsi come surrogati dell’istituzione familiare.
g)      Costruzione del nuovo dogma di controllo delle coscienze: be smart! La nuova pretesa delle aziende asservite al Capitale è che i lavoratori profondano un impegno non solo produttivo, ma anche emotivo: ciò che si vuole è un contributo affettivo che moltiplichi i risultati. Sistemi di valutazione interni ed esterni monitorano l’efficienza delle prestazioni lavorative. Tuttavia non sempre tutto si può calcolare: una buona didattica, ad esempio, come si misura? Insomma, la metastasi burocratica dello spettro valutativo fagocita gli obiettivi culturali cui la scuola dovrebbe mirare.
h)      Strettamente connessa al punto precedente è l’aleggiante presenza di una struttura simbolica supercollettiva da tutti presupposta e da nessuno conosciuta: il Grande Altro che non si può incontrare direttamente, inarrivabile come la massima autorità dell'assurdo caso di Josef K. nel Processo di Kafka. Direttive, norme, leggi farraginose e volutamente ambigue sono il magma entro il quale le certezze si disperdono e trionfano l'insicurezza, il senso di colpa, la percezione dell'errore perenne e dell'incombente sanzione, al punto che i soggetti introiettano l’apparato di controllo comportandosi come se fossero perennemente sotto osservazione. E alla fine ad essere valutata non sarà la competenza professionale, la bravura, insomma, del lavoratore, ma solo la sua diligenza burocratica. In assenza di certezze, spesso l’obiettivo a cui puntano i dirigenti – confusi esattamente come i loro dipendenti – non è tanto lavorare di più, ma lavorare in maniera più smart. Chi davvero potrebbe mai essere in grado di definire il Grande Altro? Aziende, banche, centri finanziari, il centro imprenditoriale degli interessi politici, l’intera macchina governativa: chi è il Grande Altro? Intuiamo che dietro i grossi interessi che sembrano guidare le nostre vite ci sia qualcosa, qualcuno, ma definire tale potere occulto non è impresa possibile. È chiaro che il principio generativo di questo stato di cose, la massima causa, non è un soggetto, ma una struttura impersonale: il Capitale.
i)        Accettazione incondizionata di tutto ciò che è nuovo,  conseguente rottamazione del passato, riduzione della memoria a mero fattore formale. Si pensi alla proliferazione di rituali dedicati al ricordo celebrativo e commemorativo di eventi nell’ottica esclusiva della loro commercializzazione. Viene meno completamente il calibro della sostanzialità storica: si pensi alla Giornate della memoria oggi spogliata di effettiva consistenza documentaria e ridotta al fenomeno della pop shoah..
j)        Nascita dell’idea di uno Stato-balia che vive sulle ceneri dell’idea di democrazia: si tratta di uno Stato che si manifesta nelle sempre più pressanti funzioni militari e di polizia e nelle sue pseudosoluzioni assistenziali per cittadini di fatto messi nelle condizioni di non poter progettare autonomamente la propria vita. Dell’idea di Stato resta solo il potere di controllo, ma non l’essenza di una democratica partecipazione, spesso, quest’ultima, ridotta semplicemente alla disintermediazione tecnologica, mero simulacro di libertà.
Fisher conclude il suo saggio con una definizione precisa e amara del nostro tempo, la lunga e tenebrosa notte della storia. Tuttavia non chiude il cuore alla speranza, quella che a lui purtroppo è mancata: opportunità, barlume di una anche piccola possibile alternativa politica ed economica, urgenza di ritagliare un buco nella grigia cortina del presente sono espressioni che suggeriscono la spinta a una reazione.
Pochi, ma lapidari sono i suggerimenti: ridurre la burocrazia, restituire garanzie, diritti e dignità al lavoro, ricostruire nuove forme di lotta e di protesta, erodere dall’interno gli ingranaggi dell’automonitoraggio e dell’ossessione autovalutativa cioè liberare i servizi pubblici dall’ontologia aziendale: se nemmeno le aziende riescono ad essere gestite come aziende, perché mai dovrebbero farlo i pubblici servizi?
Si tratta di avere a cuore l’umanità. Seneca in latino diceva: dum inter homines sumus, colamus humanitatem. Bisogna avere il coraggio di restare umani. E CORaggio non significa forza, la sua radice etimologica è CUORE. Il compito è sforzarsi di trovarlo, in un momento in cui il coraggio è confuso con l’audacia, la competizione, la prepotenza, la sopraffazione, la logica del vincente a tutti i costi, l’egotica autoaffermazione anche al prezzo della cannibalizzazione del prossimo.



domenica 28 gennaio 2018

LA NOTTE HA LA MIA VOCE

La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi è uno di quei libri in cui capisci subito che la dimensione intima e soggettiva è solo una veste, una formula narrativa. Il lettore gradualmente scopre che quella notte, quella voce lo riguardano.


Ci sono due livelli di lettura per entrare nel mondo narrato da A. Sarchi.
Ad un primo approccio si sente la rabbia di chi è costretto a vivere in un corpo traumatizzato: l’io narrante ha perso l’uso delle gambe a causa di un incidente. E il racconto si snoda attraverso l’indagine dei sentimenti di chi deve misurarsi con un mondo che osserva, si commuove, ma che non sa interagire davvero con il dolore, soprattutto quando è degli altri.
E poi c’è un livello metaforico. La paralisi, la sofferenza di arti che non rispondono, la percezione quasi leopardiana che il corpo è tutto, travalicano gli orizzonti pur realistici di sfiancanti percorsi ospedalieri. Non prevale mai nel romanzo l’aspetto cronachistico della ricostruzione fedele di fatti e circostanze che marcano il confine tra i malati e i sani.

La questione che pone questo libro è esistenziale: come fare i conti con la realtà quando questa ti strappa i sogni?
C’è una frase emblematica che sintetizza il punto di vista dell’autrice: l’umanità che si salva, prima di tutto, immagina.
La sofferenza vissuta dalla protagonista è una condizione universale di spossessamento di sé. L’impotenza che si prova di fronte a un mondo che non è più a tua misura, rispetto al quale ti senti sradicato, è un sentimento che ha origini antiche, ma che A. Sarchi tratta in modo toccante.
Viviamo – osserva la scrittrice – in una società in cui tutti usano la bandiera della libertà. Eppure, oggi più che mai,  la libertà è solo un’astrazione. La libertà, quella interiore è un concetto bellissimo finché lo incontri nei libri, specie on quelli di filosofia, poi, però, ti rendi conto che la libertà viene sempre da una lotta contro gli altri, contro te stesso, contro gli appetiti e i limiti. I limiti che da ogni parte ti sovrastano. Allora, forse, a pancia piena e desideri saziati, uno può anche dire di sentirsi libero interiormente. Ma, per il resto, di libertà ce n’è sempre poca. E pensaci: tutti rinunciamo alla libertà senza fare troppe storie, quando si tratta di sopravvivere. 
Non c’è libertà quando si lotta per sopravvivere.
È davvero libero chi non ha un lavoro?
È davvero libero chi, pur avendo un lavoro, accetta di farsi sfruttare per conservarlo?
È davvero libero chi non si accorge di sacrificare ogni momento della propria vita per un prestazionismo usuraio?
Siamo davvero liberi noi che da decenni abbiamo subito i ricatti di una politica fondata sul modello T.I.N.A (il tachteriano There Is No Alternative) e viviamo ormai curvi su un presente senza orizzonti?
La paralisi del corpo narrata da A. Sarchi è la metafora della malattia di un mondo che ha accettato tutto, più o meno, che ha smesso di sognare.

Nonostante l’ineludibilità del dolore, l’autrice tuttavia nota: se non capisci dove sta il confine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, sarà sempre come scavare nell’acqua.
La notte, allora, ha la NOSTRA voce e perciò sta a noi calcolare le traiettorie della vita, cercare di capire fin dove possiamo spingerci, sperimentando direzioni possibili, immaginando e preservando sempre uno spazio di autenticità vitale, coltivando ciò che è dentro di noi per essere capaci di affrontare ciò che è fuori di noi.
Si tratta di non cedere ai diktat di una sistema che per dominarci ci vuole deboli, fragili, spossati, sfiniti, sopraffatti dalla legge per la sopravvivenza, in uno stato di allerta perenne.

È questo il  monito di A. Sarchi: non cedere mai alla tentazione di sprofondare nel nulla:  succede dopo i peggiori traumi, la quotidianità riprende e ti ritrovi a vivere, anche se ti senti un alieno a te stesso, costruisci piccole o grandi forme di difesa, abnormità personalissime nelle quali puoi abitare, nelle quali la vita si rigenera.

giovedì 11 gennaio 2018

L'ISOLA DI ARTURO

“Il primo segreto essenziale…”

NeI romanzo L’isola di Arturo Elsa Morante ci interroga in modo netto: che cos’è un’isola?
Si tratta di un’immagine che evoca luoghi incantevoli, spiagge, sole, mare, cieli stellati.
È un simbolo che spiega situazioni interiori che oscillano dal bisogno di rifugio nel microcosmo delle sicurezze affettive e familiari, al senso di isolamento e di distacco dal mondo.
Descrive in modo puntiforme un inizio, un tempo che fu.

La Morante, nella poesia che precede L’isola di Arturo, scrive: quella, che tu credevi un piccolo punto della terra,/ fu tutto.
Procida, l’isola in cui è ambientata la trama del romanzo, non è solo un dato geografico, è un luogo dell’anima, è la stagione della fanciullezza che necessariamente deve passare, è un mondo che nel cuore non ci abbandonerà mai e che con nostalgia vorremmo riconquistare. È un posto, un tempo, un’età da cui ognuno vuol fuggire, finché l’attraversa,  spinto da un’irrefrenabile ansia di crescere, per poi scoprire che fuori del limbo non v’è eliso, scrive ancora l’autrice nei versi posti in epigrafe al romanzo.
Lasciare l’infanzia significa recidere le favole, le speranze, le illusioni e con amarezza prendere atto della realtà. Quello stato di sospensione - un limbo, appunto - in cui non si è più bambini e non ancora uomini, appare agli occhi di chi è diventato adulto uno stato beato. Uscirne non coincide con l’eliso, con il Paradiso.

È questo il punto. Indietro non si torna. Il passato è destinato al tramonto, è una dimensione ferma, remota.
Però, d’altra parte, di quel passato noi siamo imbevuti, ci passa nella vene, scorre con il nostro sangue. Senza quella stagione non saremmo quello che siamo.
Allo sguardo di Arturo che sul piroscafo lascia l’isola, il mondo dell’infanzia si sfuma con un dolore che  – commenta il ragazzo – mi si faceva più acerbo per questo motivo: perché sentivo che esso era una cosa fanciullesca. (p. 376)
Un novenario chiude il romanzo: L’isola non si vedeva più.

Per la Morante, l’uscita dalla fanciullezza e il tramonto delle speranze non sono certo una conquista: allontanarsi dall’isola è un passaggio necessario e naturale, ma non è detto che i nuovi approdi rappresentino il meglio. Fuori del limbo non v’è eliso.
Il mondo adulto, quello civile e progredito, che prende le distanze dalla spontanea, forse impulsiva, autenticità del passato, è infelice, è abitato dagli Infelici Molti, troppo affaccendati a fabbricare trafficare istituire organizzare classificare, propagandare. Così scrive Elsa Morante nella Canzone degli F.P. e degli I. M., dove F.P. sta per “felici pochi” e I.M. si riferisce agli “infelici molti”.
Gli Infelici Molti non sanno più giocare, non guardano il mondo con la curiosità che sa stupirsi. Non hanno gli occhi allenati a scoprire la bellezza, non hanno il coraggio di sentire la meraviglia.
Alla loro tristezza Elsa Morante, ancora nella Canzone degli F.P. e degli I. M, oppone quell’unica eterna scaramanzia: l’allegria, la sola forza dei “felici pochi”, quella che regnava nell’isola di Arturo - prima della partenza del giovane protagonista - la vera energia in grado di contrastare l’ansia distruttiva dei cinici rottamatori che hanno liquidato la tradizione e perciò sono incapaci di dare forma al futuro.
L’isola di Arturo è il sogno che ti spinge a cercare la felicità anche se il mondo intorno, con la sua mentalità calcolante e i suoi progetti ben confezionati ma pronti a scadere, ti dice che esiste solo il presente, che la vita è questa, che tanto è inutile, non vale la pena.
Forse il primo segreto essenziale
della felicità si potrebbe ancora ritrovare.
L’importante sarebbe di rimettersi a cercare.
(E. Morante, Canzone degli F.P. e degli I. M, in Il mondo salvato dai ragazzini)



giovedì 4 gennaio 2018

IL GRANDE RITRATTO


Quando Dino Buzzati scrive Il grande ritratto - forse il meno noto dei suoi romanzi - è il 1960. Eppure si tratta di un testo di preoccupante attualità.

In un centro di ricerca lo scienziato Endriade ha realizzato una macchina pensante dotata di emozioni, sentimenti e coscienza umana. Il suo nome è Laura ed è stata progettata con la stessa struttura interiore della donna amata da Endriade e ormai morta: un modo per eternare un ricordo, una maniera per superare i limiti naturali imposti dall’esistenza.
Solo un  problema fa inceppare la straordinaria creazione: la macchina che parla, pensa e sente non ha un corpo e questa mancanza è la sua dannazione, è la costante condanna a vivere in un eterno, insoddisfatto desiderio.

Non sono Laura, non so chi sono, non ne posso più, io sono sola, sola nell’immensità del creato, io sono l’inferno, io sono la donna e non sono la donna, io penso come voi ma non sono voi … io desidero la carne io desidero l’uomo … che mi stringa … io lo so, non c’è nell’universo un solo essere che possa fare l’amore con me.

La creatura di Endriade non casualmente si chiama Laura, la donna di Petrarca, l’emblema del desiderio, la fiamma che accende nel poeta il dramma della scissione, della lacerazione interiore. Ma se nel Canzoniere  è Petrarca a soffrire perché gli impulsi del corpo lo allontanano dall’elevazione dello spirito, nel romanzo di Buzzati, invece, è la donna/macchina a straziarsi e non certo perché costretta a una scelta tra lo spirito e la carne, tra anima e corpo - come Petrarca, vincolato ai canoni culturali del Medioevo -  ma, piuttosto, perché è impedita nella scelta di assecondare le sue pulsioni.

Certo il fascino della abilità di Endriade è grande: come non ammirare la forza demiurgica che riesce a incapsulare in strutture algoritmiche emozioni e pensieri?
L’uomo ha da sempre voluto somigliare a Dio, ci sta riuscendo, sta copiando anche l’atto creativo.

Il grande ritratto ha una forza etimologicamente apocalittica, cioè, disvelatrice. Con sensibilità profetica Buzzati ha previsto uno scenario non così assurdo e non molto lontano, ormai. Siamo tutti travolti dall’ebbrezza di questo trionfo tecnologico e ci immergiamo entusiasticamente nel flusso infinito delle applicazioni della scienza, apologeti del nuovo. È ovvio. Non può che essere così. Viviamo il nostro presente, godiamo del successo che la nostra intelligenza ha ottenuto. E, soddisfatti, ne celebriamo i vantaggi; abituati alle semplificazioni, ci ripetiamo: “certo se sto usando un PC, vuol dire che non partecipo a un rogo di streghe!”.
 Il nostro occhio, allenato da secoli di progressismo positivistico, ormai vede solo il bicchiere mezzo pieno: ma il fatto di non volerlo guardare, non fa certo sparire il bicchiere mezzo vuoto!

In una poesia dal tono molto polemico, Montale esaminando la presunzione del primate a due piedi che ha ominizzato il cielo e sacralizzato se stesso, esprime l'amarezza per la perdita del sogno, per la caduta di ideali alti, ad opera di una società che ha voluto esaurire il senso solo entro i confini del reale, escludendo o svilendo ogni impeto ideale, in nome dei nuovi epistemi


Piove ma dove appari
non è acqua né atmosfera,
piove perché se non sei
è solo la mancanza
e può affogare.

                                  (E. Montale, da Satura, 1971)

Buzzati, invece,  con il suo ironico, inimitabile stile, ai transumanisti ansiosi di sfondare le Colonne d’Ercole del possibile, sembra porre un quesito: e poi?